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2. La Trilogía de la memoria

2.1 Los niños perdidos

2.1.2 I personaggi e il loro punto di vista

Le drammatiche vicende presentate in Los niños perdidos non sono filtrate dal punto di vista degli adulti, come avviene nella maggior parte delle opere sulla Guerra civile, bensì dalla prospettiva dei bambini. Tale peculiarità accentua ancor di più il tono tragico della vicenda. Infatti, la violenza è esercitata contro vittime doppiamente innocenti e indifese, che devono affrontare non solo il trauma della separazione dalle proprie famiglie, ma anche le aggressioni fisiche e psicologiche esercitate da parte di coloro che avrebbero dovuto difenderle. È la stessa autrice a spiegare il motivo dell’adozione di tale punto di vista:

El mundo de los niños o el de las ancianas proporciona una teatralidad alejada del naturalismo y es otro tipo de teatro que a mí me gusta [...]. El hecho de jugar con ancianas o jugar con niños me da posibilidades de hacer lo que me da la gana y de encontrar una veta de humor que a mí me gusta mucho. Los niños pueden soltar la mayor barbaridad, con una tranquilidad y una capacidad de juego..., y son otros, se transforman [...]. En esta obra hay un juego de transformaciones permanente, muy teatral167.

L’universo che ruota attorno ai bambini e agli anziani è per Ripoll un mezzo per allontanarsi dal naturalismo e potenziare una vena umoristica, a tratti dalle tinte fosche. L’infanzia dei protagonisti dell’opera, tuttavia, non è stata caratterizzata da spensieratezza e ingenuità, bensì da paura e soprusi, a causa dell’irrompere della guerra nelle loro vite. Nei dialoghi fra i personaggi sono rievocate le vicissitudini che li hanno condotti alla reclusione nell’orfanotrofio e le condizioni di vita all’interno della struttura.

Il testo, come ha fatto giustamente notare Veronica Orazi, è contraddistinto da una serie di dicotomie e “la tecnica con cui i personaggi vengono plasmati risulta strategica. Si rilevano, infatti, due tipi di attanti”168. Da una parte troviamo El Tuso,

minorato mentale di una cinquantina d’anni, ovvero il soggetto immaginante che alla fine si rivela essere l’unico personaggio reale, e dall’altra i tre soggetti immaginati, creature fittizie frutto della fantasia dell’unico sopravvissuto del gruppo.

167 J. HENRÍQUEZ,“Entrevista con Laila Ripoll”, p. 122.

168 V. ORAZI,“Memoria storica e teatro contemporaneo: Los niños perdidos di Laila Ripoll”,

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Tuso non ha mai conosciuto i genitori (“TUSO. [...] Yo nunca he tenido padres”169) e, nonostante il ritardo mentale di cui soffre, ha sempre dovuto badare a se stesso, senza poter contare sull’aiuto di nessuno. Del suo passato, sappiamo che un giorno dei soldati al servizio di Franco lo hanno buttato giù da un ponte e che è stato salvato da alcune passanti che lo hanno accompagnato all’orfanotrofio (“TUSO. Me tiraron al río desde el puente [...] Me salvaron unas señoras que pasaban por allí [...]”. NP, pp. 38-39). È lui a rivelarlo ai suoi compagni, dopo aver mostrato nervosismo e agitazione nel sentire l’inno di guerra intonato da Lázaro e El Marqués (“[...] La canción le trastorna, le recuerda cosas que no quiere. Se tapa los oídos, grita, se retuerce, gime”. NP, p. 29).

Tuso appare come un essere indifeso ed emarginato, a cui è inutile prestare attenzione a causa del suo deficit mentale. Il climax di questa sua impotenza è rappresentato dalla sua incapacità di farsi ascoltare dalle suore affinché vengano a liberare i due bambini rimasti in soffitta dopo che El Cucachica è stato spinto giù dalla finestra (“TUSO. [...] Pero ellas me contestaban: ¡Cállate, imbécil, que es que eres más tonto!”. NP, p. 63). Le monache, per comodità, si rifiutano di ascoltarlo e, in questo modo, “Ripoll juega con el motivo del necio que dice la verdad y del mundo deslumbrado e ignorante. Es un cóctel altamente explosivo y difícil de digerir que atormentará a Tuso de por vida”170. Da qui scaturisce infatti il suo senso di colpa per la morte della suora e per non essere stato in grado di salvare i compagni. Appare quindi evidente la necessità di una fuga in una realtà immaginaria in cui Tuso può ancora godere della compagnia dei suoi amici e provare un minimo di affetto e di calore umano, come dimostrato dal suo senso di protezione verso il più piccolo, El Cucachica, da lui spesso difeso dagli attacchi fisici e verbali degli altri bambini (“CUCACHICA se ha calmado y se queda dormido abrazado al TUSO [...]”. NP, p. 44).

Nonostante il suo deficit mentale, tuttavia, nel mondo immaginario da lui creato, egli è un punto di riferimento per il resto del gruppo, come dimostrato dal fatto che quando tenta di uscire dalla soffitta i suoi compagni cercano costantemente di impedirglielo. Inoltre, riesce a imporsi sul resto del gruppo e a ristabilire l’ordine,

169 L. RIPOLL, Los niños perdidos, n° 6 della Biblioteca Digital Draft.inn, 2014, p. 55. Da ora

in poi le citazioni saranno indicate nel testo, con l’abbreviazione del titolo NP, seguita dal numero di pagina.

170 A. GARCÍA MARTÍNEZ, El telón de la memoria: La Guerra Civil y el franquismo en el

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facendosi rispettare e obbedire (“TUSO. Bueno, pero si queréis que me quede, tenéis que hacer todo lo que yo diga”. NP, p. 37). In un certo senso, questa “autorità” di cui gode nel mondo immaginario costituisce per lui una rivalsa e una rivincita. È inoltre interessante notare che in tutte e tre le opere della trilogia appare un personaggio affetto da un ritardo mentale: oltre a Tuso, troviamo infatti anche Aurori in Atra Bilis e Pacífico in Santa Perpetua. Nonostante la loro condizione, queste tre figure svolgono un ruolo decisivo nella storia: seppur fra molte difficoltà, sono alla fine in grado di guardare in faccia la realtà. Danno voce a quelle scomode verità e a quei pensieri che gli altri personaggi non vogliono esprimere, opponendosi così all’oblio e al silenzio. Come ha fatto giustamente notare Pérez-Rasilla riguardo a El Tuso,

Su debilidad mental es paradójica memoria de lo que el discurso oficial se empeña en olvidar. Su voz, desviada de la norma, pero sincera, solidaria y tenaz, construye como puede la memoria de un universo de ignominia que expresan los juegos infantiles y los particulares rituales que practican los hijos de los vencidos para distraer el hambre, el miedo, la repugnancia e incapacidad para comprender lo que les está pasando y por qué les está sucediendo171.

Degli altri bambini, El Cucachica è indubbiamente quello che suscita maggiore tenerezza. È il più piccolo del gruppo e questa condizione lo espone a una maggiore vulnerabilità: la sua voglia di giocare (“CUCA. ¿Jugamos a algo?”. NP, p. 53), l’incontinenza (“CUCA. Me he hecho pis”. NP, p. 14), la continua invocazione della mamma affinché venga a salvarlo (“CUCA. ¿Y mi mamá? ¿Donde está mi mamá?”. NP, p. 40) ne sono una chiara dimostrazione. La violenza e i soprusi verbali che è costretto a subire dai compagni (“MARQUÉS agarra al CUCACHICA por la pechera y lo zarandea, fuera de sí. El pequeño no reacciona [...]”. NP, p. 61) e dalla suora, che ne provocherà la morte, sono il punto culminante di questa sua fragilità. È suo il “juego memorialístico”172 di maggiore lunghezza e intensità.

Il gioco dei treni gli offre la possibilità di raccontare, attraverso un lungo monologo, le pessime condizioni di tutti coloro che come lui hanno viaggiato stipati su un vagone con altre decine di persone per essere condotti presso le carceri, i campi di prigionia e i centri di Auxilio Social. Nella sua rievocazione dei fatti si intrecciano la descrizione delle condizioni in cui viaggiavano i deportati (“CUCA. Vagones de dos pisos, llenos de paja con caca de cerdo [...] Y hacía mucho frío [...]”. NP, pp. 40-

171 E. PÉREZ-RASILLA, “La trilogía de la memoria, Laila Ripoll”, p. 19.

172A. GARCÍA MARTÍNEZ, El telón de la memoria: La Guerra Civil y el franquismo en el

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41), le azioni e i fatti avvenuti (“CUCA. Olalla se murió y olía muy mal [...] Y entonces abrió la puerta un guardia civil [...] Y el tren llegó a una estación y nos metieron en camiones a todos [...]”. NP, pp. 41-42) e infine i pensieri e i discorsi dei presenti (“CUCA. Y mi mamá gritaba: «Mi niño, mi niño, que no se lleven a mi niño» [...] Y dijimos: «Es que han muerto unos niños» [...]”. NP, pp. 40-41). La continua ripetizione del suono onomatopeico chaca-chaca-chaca-cham accentua l’esasperante lunghezza del viaggio, o per lo meno la percezione che i passeggeri ne avevano, e il perpetuarsi della loro sofferenza a causa delle pessime condizioni igieniche e della fame.

La sua narrazione non segue un ordine cronologico ed è intervallata da flashback, un aspetto che ne accresce la naturalità e la spontaneità, dato che il cervello e la memoria funzionano in modo associativo. Per Cucachica, è il ricordo della madre a provocare l’incontinenza e il conseguente castigo fisico e psicologico, poiché ogni legame, anche se non più reale, con la famiglia deve essere punito e distrutto, in quanto simbolo di una memoria da cancellare (“CUCA. [...] Y como todas las noches me meo en la cama, me pusieron la sábana con los meaos por encima y me encerraron en este desván, solito y a oscuras, para ver si me pasaba. Pero no. Me acuerdo de mi mamá y me hago pis [...]”. NP, p. 42).

Il monologo interrompe lo svolgersi degli avvenimenti e concentra l’attenzione dello spettatore o del lettore su un altro tempo e su una sola voce. Si tratta di una tecnica spesso usata da Ripoll. Come ha fatto notare Laeticia Rovecchio Antón:

En efecto la directora escénica opta por la escritura de monólogos que los diferentes personajes entrecruzan para expresar sus pensamientos más íntimos. Se trata de monólogos que no necesitan ningún tipo de respuesta de su interlocutor porque se enfrentan directamente con la realidad. Una realidad que proviene de su necesidad de expresar sus pensamientos frente a determinadas situaciones173.

Nonostante quello di El Cucachica sia il monologo più lungo di tutti, anche gli altri personaggi si esprimono in questa forma per raccontare ciò che è successo loro e per liberarsi dal peso di un passato doloroso che li opprime, poiché, come afferma Floeck, il teatro della memoria si distingue per il suo carattere narrativo174.

173 L. ROVECCHIO ANTÓN, Memoria e identidad en el teatro de Laila Ripoll, Angélica

Liddell e Itziar Pascual, p. 43.

174 W. FLOECK, “Del drama histórico al teatro de la memoria. Lucha contra el olvido y

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Lázaro e El Marqués sono personaggi sotto certi aspetti simili fra loro, in quanto entrambi competono per aggiudicarsi il ruolo di leader all’interno del gruppo, avvalendosi della loro prepotenza, arroganza e forza fisica (“LÁZARO se alabanza sobre el MARQUÉS. Pelean [...]”. NP, p. 9).

L’insolenza e la presunzione di Lázaro sono evidenti fin dall’incipit ([...] “LÁZARO está con medio cuerpo fuera de la ventana y orina hacia el exterior”. NP, p. 8). Dimostra la sua prepotenza nei confronti degli altri compagni (“LÁZARO. Si quieres comer...Tienes que pasar la lengua por el polvo de la viga”. NP, p. 16), dei quali si approfitta perché è più grande e fisicamente più forte. Allo stesso tempo, però, non è esente da momenti di generosità e tenerezza, come dimostra la sua preoccupazione verso El Cucachica (“LÁZARO. Otra noche más solito y con la tos que tenía y se nos moría”. NP, p. 64). Del suo passato sappiamo che insieme a uno dei suoi tre fratelli è stato costretto a vivere per strada, in mezzo ai cadaveri, dopo che un giorno i falangisti hanno fatto irruzione in casa sua e hanno portato via i genitori. Anche lui, come El Tuso, una volta rimasto solo, ha dovuto badare a se stesso, vivendo di espedienti insieme al fratello. Dalle sue parole si intuisce infatti che i suoi genitori sono rimasti uccisi nell’eccidio di Badajoz, avvenuto fra il 13 e il 14 agosto del 1936 (“LÁZARO. Como en Badajoz no teníamos más parientes, a mis hermanas se las llevaron unas monjas, y yo y mi hermano nos quedamos por ahí, por la calle [...]”. NP, p. 56).

Egli narra l’odissea vissuta insieme al fratello, lasciando trapelare sentimenti ed emozioni (“LÁZARO. Había montones de muertos en las aceras y nos daba muchísimo miedo porque a alguno de los muertos los conocíamos [...]”. NP, p. 56). Nel caso di Lázaro, il ricordo della famiglia appare ancora più sfumato rispetto a quello di El Cucachica, in quanto ammette di non ricordare molto dei genitori (“LÁZARO. Yo no me acuerdo mucho de mis padres, la verdad”. NP, p. 55). In questo modo, entra anche in gioco il “carácter efímero del recuerdo infantil, anclado en detalles y fragmentos, que corre el peligro de borrarse con el tiempo [...] El olvido se convierte en una segunda separación, en una segunda pérdida de los padres queridos”175. Tuttavia, se da una parte la memoria e il ricordo appaiono sbiaditi, non

si può dire lo stesso del suo senso di identità, in quanto Lázaro rivendica le proprie origini e si batte affinché il suo nome non venga modificato ogni volta che cambia

175 A. GARCÍA MARTÍNEZ, El telón de la memoria: La Guerra Civil y el franquismo en el

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orfanotrofio (“LÁZARO. A cada asilo que iba, las monjas iban y me cambiaban el nombre [...] Y yo no soy Expósito, que de verdad, de verdad, mi padre se llama Lázaro Alonso y mi madre Visitación, o sea Visi, Quintana, que de eso sí que me acuerdo perfectamente [...]”. NP, pp. 56-57).

Il nome Lázaro indubbiamente non è privo di implicazioni: rimanda, ad esempio, a un altro emarginato della società, Lazarillo de Tormes, protagonista dell’omonimo romanzo picaresco. In fin dei conti, però, il nome è tutto ciò che rimane al bambino delle proprie origini ed è dunque per lui motivo di orgoglio, simbolo della memoria del suo passato. Analogamente a quanto avviene con Cucachica, il cui ricordo della madre è sistematicamente soppresso, le suore annullano l’identità e le origini di Lázaro176.

Anche El Marqués, come Lázaro, manifesta varie volte aggressività verbale e fisica, soprattutto verso El Cucachica, per il quale non prova un minimo di pietà o di compassione (“EL MARQUÉS. Que no se hubiese meado y no le castigarían”. NP, p. 64). Questo personaggio dimostra di essere forse più istintivo e impulsivo di Lázaro, che invece cerca di riflettere per trovare una soluzione (“LÁZARO. Hay que pensar algo”. NP, p. 47). Le informazioni che si possono ricavare su El Marqués sono scarse e non molto affidabili: è probabilmente figlio di un esiliato in Francia (“EL MARQUÉS. [...] Mi padre se tuvo que ir a Francia [...]”. NP, p. 54), ha un fratello che come lui è stato mandato dalle suore e una madre che, a suo dire, è molto occupata, motivo per il quale anche lui si trova in orfanotrofio (“EL MARQUÉS. [...] Mi madre está muy ocupada y por eso nos mandaron a mí y a mi hermano con las monjas”. NP, p. 54). In realtà gli altri bambini forniscono una versione dei fatti alquanto diversa, accusando la madre del compagno di essere una prostituta (“LÁZARO. [...] Su madre se echó a la vida [...]”. NP, p. 33). El Marqués risulta quindi poco credibile in diversi punti del dramma, ma in realtà:

Esta aparente negación de la triste y deprimente realidad subraya incluso más el apuro emocional y psíquico así como la miseria existencial que está viviendo. Pintar de color de rosa tanto su pasado - ser hijo de una artista - como el futuro - una vida

176 In merito al cambio dei nomi dei bambini ospitati negli orfanotrofi, Souto menziona la «Ley

del 4 de diciembre de 1941 por la que el Estado podía cambiar los nombres» (L. C. SOUTO, “El teatro español sobre apropiación de menores. La puesta en escena como espacio de identidad y memoria”, p. 52).

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fuera del hogar de acogida - es su estrategia para sobrevivir al presente, insoportablemente gris177.

Il suo comportamento non è poi così diverso da quello di El Tuso: anch’egli si crea una realtà fittizia che possa rendere la sua esistenza più sopportabile, a costo di essere denigrato dal resto del gruppo. Si autoconvince di essere migliore degli altri, ostentando un presunto status sociale superiore a quello dei suoi compagni (“EL MARQUÉS. [...] Mi madre es una gran artista y una señora muy importante, de la cabeza a los pies, y va a venir un día, y me va a sacar de aquí, y nos vamos a ir de veraneo a San Santander [...]”. NP, p. 34). Viene da pensare che il cognome con cui gli si rivolgono gli amici (il nome, lo ricordo, è Sebastián178) sia stato inventato da lui per rimarcare la sua fantomatica superiorità sociale. È così sicuro di sé e convinto di ciò che dice che non si rende neanche conto di cadere varie volte in contraddizione, come quando afferma di essere arrivato all’orfanotrofio in auto e, successivamente, cambia versione dichiarando di esservi giunto in treno su un vagone di prima classe. Un altro elemento che contribuisce a fare di El Marqués un personaggio altezzoso è l’uso che fa del linguaggio. Egli pretende di usare un lessico forbito e ricercato, ricco di proverbi e latinismi, ma in realtà finisce per commettere errori lessicali e creare divertenti neologismi (bafocia; cuchuletas; jartaba; nanjares; ipsoflauto; coche

otromovil). Sia la manipolazione della realtà sia la deformazione del linguaggio sono

dunque tratti distintivi della sua personalità.

È quindi rivelata la prima dicotomia, quella fra le tipologie di personaggi, realizzata per:

concretizzare una specifica modalità di creazione del fantastico, cioè la contrapposizione Tuso versus gli altri, e attivare il meccanismo di straniamento: di fatto l’interazione tra le figure in scena genera un’ulteriore spinta disorientante, concretizza cioè un altro strumento per produrre l’effetto di depistaggio sistematico, irretire illusoriamente lo spettatore, riservargli un colpo di scena finale sorprendente e sconfessare quanto questi ha creduto di ricostruire nel corso della rappresentazione179.

Il senso di straniamento si deve al fatto che i tre bambini sembrano collocarsi sullo stesso piano di El Tuso, in quanto anche loro apparentemente dotati di vita propria, e solo il finale rivelerà che si tratta di un’illusione.

177A. GARCÍA MARTÍNEZ, El telón de la memoria: La Guerra Civil y el franquismo en el

teatro español actual, p. 435.

178 Si veda NP, p. 44.

179 V. ORAZI, “Memoria storica e teatro contemporaneo: Los niños perdidos di Laila Ripoll”,

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Oltre alle due tipologie di personaggi precedentemente descritte ne esiste un’altra, “quella rappresentata dalle figure extra-sceniche, tra le quali spicca la madre superiora, anch’essa ormai morta”180. La religiosa rappresenta la negazione della

Storia e la volontà di dimenticare. Le sue parole trasmettono il senso del progetto di rieducazione per mezzo della religione messo in atto dal regime. La donna ha rinnegato la propria identità, le proprie origini e i valori per i quali i suoi genitori si sono battuti e sono stati sconfitti, come rivela nella lettera indirizzata alla madre (“SOR. [...] Yo también tuve padres, sí señor, pero mi fe en Cristo pudo más que la sangre corrumpida [...] Ahora tengo dos padres y dos madres: Dios y la Santísima Virgen y El Caudillo y Pilar Primo de Rivera [...] Voy a tomar los hábitos. Maricarmen ha muerto, ahora soy Sor Resurección del Señor. Le ruego que se olvide de que alguna vez tuvo usted una hija [...]”. NP, pp. 19-20). La suora incarna perfettamente l’ideologia di Vallejo Nájera: le minacce e le offese che rivolge ai bambini trasmettono in maniera efficace il clima di terrore e di oppressione vigente in quegli anni e il disprezzo verso la presunta razza “rossa” inferiore (“SOR. Piojosos. ¡Judíos! En las llamas del infierno os habéis de condenar. Mejor hubiera sido acabar con vosotros igual que con vuestros padres [...] ¡Escoria y ateismo eran vuestros padres! Devoracuras! […]”. NP, pp. 19-20). Come un diavolo tentatore, cerca di attirare a sé i bambini per mezzo del cibo (“SOR. Os he traído comida. Comidita rica para los nenes más bonitos del mundo [...] ¿ No salís a verme? [...]”. NP, p. 8), un comportamento che fa della donna un personaggio doppiamente subdolo e crudele. La suora rappresenta quell’istituzione che, invece di proteggere i bambini rimasti orfani, ne accresce e prolunga la sofferenza attraverso privazioni e castighi (“SOR. No vais a tener otra cosa para comer hasta que las ranas críen pelo [...]”. NP, p. 14). L’educazione inculcata non è improntata al rispetto e alla comprensione del prossimo, ma all’odio e all’umiliazione, in virtù di un presunto ideale di purezza religiosa e razziale.

Anche in questo caso, la figura della suora è utilizzata in modo ambiguo e strategico, in quanto fino a un determinato momento, ovvero fino al punto in cui è colta dalla paralisi con l’acchiappafarfalle in mano (NP, p. 20), lo spettatore crede di averla vista in scena. Solo in seguito inizierà a realizzare che anche lei è una

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