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Il “benessere animale” e le strategie di comunicazione

Nel documento Il benessere degli animali da produzione (pagine 58-60)

La connotazione antropocentrica del benessere animale

3.4 Il “benessere animale” e le strategie di comunicazione

Nel recente passato, le Istituzioni pubbliche hanno sviluppato strategie che incoraggia- no le imprese verso comportamenti virtuosi (e a loro volta proattivi) nello sviluppare processi e prodotti che incontrano i bisogni non solo dei consumatori ma della stessa società civile. Per evitare condizioni di fallimento del mercato, le istituzioni hanno introdotto alcuni segni di qualità (si considerino, per esempio, i segni Dop, Igp, Stg e Bio) che, però, non includono tutti i possibili attributi intangibili ed è questo il caso dei prodotti ottenuti con tecniche che salvaguardano il benessere degli animali. Quest’ultima tipologia di prodotti, come descritto diffusamente nel volume, è nata per rispondere a due obiettivi: di tipo etico, in quanto fasce sempre più ampie di consumatori sono consapevoli del dolore provocato agli animali in alcu- ne fasi della loro vita (allevamento, alimentazione, trasporto e macellazione); di tipo sanita- rio, in quanto si ipotizza una relazione tra dolore, livello di benessere dell’animale, stato di sa- lute dell’animale e salute dell’uomo che si ciba dei prodotti ottenuti da quegli stessi animali. Il “benessere animale” diventa, in altri termini, un attributo qualitativo che conferisce valore aggiunto e costituisce un’innovazione di prodotto, indotta dalle Istituzione pubbliche, ma realizzata dall’iniziativa privata, per la quale uno specifico segmento di consumatori può essere disposto a un esborso suppletivo (Arfini et al., 2006).

Le aziende possono immettere sul mercato beni con diversi contenuti di “benessere animale”, in base alla loro strategia aziendale e al loro mercato di riferimento, spaziando dalla mera applicazione della normativa “cogente” fino ai livelli di “benessere animale” più elevati.

In assenza di segni di qualità, i beni prodotti mantengono le caratteristiche di bene pubblico (puro o misto) e non vi è necessità di comunicare ai consumatori il livello di intensità dell’attributo perché tutti i consumatori ne possono godere. Quando il bene con l’attributo di “benessere animale” diventa un bene privato, tale attributo si configura come una caratteristica che gli operatori della filiera scelgono di aggiungere al prodotto nell’am- bito di un disegno strategico aziendale volto a soddisfare l’esigenza percepita da un seg- mento di consumatori disponibili all’esborso suppletivo. I consumatori che sono dotati di una posizione etica in materia, ma che al contempo sono limitati da un vincolo di budget, difficilmente potranno orientare l’acquisto di prodotti agroalimentari coerentemente ai propri princìpi.

Per contro, quando l’attributo “benessere animale” può presentare diversi livelli di intensità nella sua applicazione (solo tecniche di allevamento, solo alimentazione, solo tra- sporto, solo macello o un mix tra questi elementi) e quando le imprese vogliono utilizzare queste informazioni ai loro fini strategici, nasce il problema di valutare correttamente la tipologia di comunicazione fornita e le implicazioni che ne possono derivare.

In questo contesto possiamo ritenere corretta la tesi secondo cui più complesso è il prodotto e più complessi sono gli attributi non tangibili e tanto più necessario, elevato e

costoso è l’investimento in comunicazione (Lassaut, Sylvander, 1998).

Le imprese sono ben consce di come il successo dell’innovazione sia direttamente collegato alla capacità di informare i consumatori delle caratteristiche del prodotto e dei suoi benefici. Questo è il motivo per cui la spesa per la pubblicità è inclusa nel processo di innovazione (Gregori, Garlatti, 1997; Ward, 1997) e può determinare il successo o fal- limento dell’innovazione stessa. Questa regola è valida anche per le istituzioni pubbliche nel momento in cui creano le condizioni per immettere sul mercato beni con caratteristi- che innovative ma non direttamente percepibili dai consumatori. Le aziende, per contro, hanno interesse a immettere in commercio prodotti con caratteristiche “fiducia” solo se l’intero processo di produzione-distribuzione, promozione e comunicazione consentirà di ottenere dei margini di profitto o, in altri termini, se i ricavi derivanti dalla vendita di beni di fiducia sono superiori ai costi di organizzazione della filiera e ai costi di comunicazione, promozione e certificazione. Questi ultimi rientrano tra i costi di comunicazione perché evidenziano la strategia dell’impresa rispetto all’attributo considerato, abbassando il livello di asimmetria informativa tra produttore e consumatore.

Mentre i costi di produzione e di gestione della filiera (compresi i costi di trasferimen- to della tecnologia e i relativi costi di transazione) sono a totale carico delle imprese, i costi di comunicazione, promozione e certificazione possono essere considerati “misti”. Essi possono essere a totale carico delle imprese (che, in questo caso, sviluppano marchi di im- presa), o supportati collettivamente da associazioni o consorzi, spesso finanziati con fondi pubblici (Gregori, Garlatti, 1997). Chiaramente, più il contenuto della comunicazione si riferisce a caratteri di tipo immateriale e si presenta trasversale ad altre imprese, come nel caso dei beni fiducia, tanto più le aziende individuali non hanno incentivo a investire in comunicazione in quanto non aumenta il valore della loro marca aziendale. In questo caso, il compito a investire in promozione e comunicazione spetta alla Istituzioni pubbli- che mentre alle imprese è corretto lasciare il costo dell’introduzione dell’innovazione nella filiera e il costo della certificazione. Allo stesso tempo, tanto più è alto il costo dell’intro- duzione dell’innovazione e tanto maggiore deve essere l’investimento in comunicazione per stimolare la domanda, consentendo alle imprese di coprire i costi senza ricorrere a un aumento di prezzo.

A questo riguardo, non tutti gli attributi fiducia e i prodotti che li contengono pre- sentano le stesse caratteristiche, spingendo le imprese a investire in comunicazione in misura diversa. Quando (come per i prodotti Bio e i prodotti Dop/Igp) i consumatori sono vicini ai valori espressi dagli attributi fiducia, in quanto fanno riferimento a concetti che appartengono alla loro sensibilità, il mercato potenziale è maggiore e vi è anche una mag- giore consapevolezza del ruolo della comunicazione. In questi casi, le imprese mostrano più interesse a investire in comunicazione e nella pubblicità e sono anche propense a re- inventare nuovi prodotti, al fine di aggiungere valore al proprio marchio e promuoverne la reputazione (Treager, 2003).

Nel caso di attributi fiducia più sofisticati (come nel caso dei valori espressi dal be- nessere degli animali, ma anche dei problemi legati al rapporto cibo-salute) il consumatore è culturalmente distante dai valori espressi e, per ottenere una sensibilità al momento dell’acquisto, è necessario ricorrere a impegnative campagne di comunicazione, il cui co- sto spesso non è sostenibile per le imprese. Queste ultime non hanno, quindi, nessun in- centivo alla produzione di questi beni.

L’investimento in comunicazione è giustificato quando il bene fiducia che contempla l’attributo di “benessere animale” assume caratteristiche di bene privato. In questo caso,

le imprese possono ricavare un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti che sono esclusi da questo particolare segmento di mercato (Grafico 3.1).

Nel documento Il benessere degli animali da produzione (pagine 58-60)