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Il “non-cambiamento” virtuoso:

2. Il cambiamento organizzativo

Il cambiamento organizzativo è essenziale per la sopravvivenza delle imprese. Infatti, le aziende attraversano le fasi del proprio ciclo di vita seguendo solitamente un percorso di crescita (Churchill & Lewis, 1983, Dodge & Robbins, 1992) e il passaggio da uno stadio all’altro richiede necessariamente il cambiamento (Scott & Bruce, 1987). I punti attraverso gli stadi, noti anche come critical junctures (Vohora et al., 2004), rappresentano potenziali punti di flesso in corrispondenza dei quali il percorso di crescita dell’impresa può interrompersi drasticamente e flettere verso il basso, insieme alla sua capacità di sopravvivenza, i quali però possono essere superati con successo attraverso il cambiamento (Scott & Bruce, 1987). Tuttavia, i cambiamenti non si manifestano da sé e sono frutto di un processo decisionale. Nei suoi scritti più influenti, Greve (1998; 2003) parte dall’assunto che il cambiamento organizzativo rappresenta l’oggetto di una decisione rischiosa e, in quanto tale, la propensione ad effettuarlo deriva

da livelli di aspirazione non pienamente soddisfatti36, dove questi ultimi sono definiti come “il risultato

più basso che possa essere ritenuto soddisfacente dal decisore” (citando Schneider, 1992, p. 1053 –

traduzione letterale dall’inglese). Si è soliti definire i livelli di aspirazione come funzione dell’aspirazione sociale (social aspiration), quindi quella che deriva dalla comparazione delle

performance dell’impresa focale con quelle dei propri concorrenti37, e l’aspirazione storica (historical aspiration), ovvero quella basata sulla valutazione della performance attuale dell’impresa focale

rispetto al passato (Cyert & March, 1963; Greve 1998; 2003)38.

Evidenza a supporto di ciò proveniente dallo studio di Ceci et al. (2016) mostra che quando le prestazioni effettive di un’impresa non raggiungono i propri livelli di aspirazione, il divario che ne deriva aumenta la probabilità che l’impresa decida di effettuare dei cambiamenti nella propria architettura organizzativa, ove quest’ultima viene intesa à la Nadler et al. (1997) come la configurazione di strategia, struttura, lavoro, persone e cultura organizzativa. Partendo dal lavoro di Greve (1998; 2003), l’evidenza empirica di Ceci et al. (2016) dimostra che quando il divario percepito tra

performance e livelli di aspirazione è lieve (cioè, viene percepito rispetto a solo uno dei tipi di

aspirazione sociale o storica, mentre l’altro risulta allineato con le prestazioni attuali dell’impresa), è più probabile che l’impresa attui cambiamenti adattativi che comportano piccoli aggiustamenti all’architettura organizzativa (Ceci et al., 2016). D’altro canto, un divario ampio (cioè, percepito rispetto ad entrambi i livelli di aspirazione sociale e storica), l’impresa è più propensa a implementare una

36 Secondo la cosiddetta Prospect theory di Kahneman e Tversky (1979), i livelli di aspirazione sono utilizzati dagli individui come punti di riferimento nel processo di valutazione della propria posizione quando si ritrovano a dover effettuare delle scelte e possono alterare la percezione del rischio. Per quanto riguarda le organizzazioni, quelle aventi performance di basso livello hanno maggiori probabilità di prendere decisioni altamente rischiose, tra cui le decisioni sui cambiamenti organizzativi da attuare (Singh, 1986; Bromiley, 1991).

37 L’elemento si basa sulla cosiddetta Social Comparison Theory di Festinger (1954), secondo la quale gli esseri umani hanno il bisogno di valutare le proprie opinioni personali e abilità e, per ciò, hanno la necessità di individuare dei riferimenti con cui potersi confrontare. Per ulteriori approfondimenti nel contesto relativo alle imprese, si veda Cyert e March (1963).

38 Recenti studi sulla modellizzazione delle aspirazioni organizzative hanno rilevato che la ponderazione dei fattori che influenzano i livelli di aspirazione varia a seconda dei livelli delle prestazioni aziendali relativamente alle prestazioni del settore (Bromiley & Harris, 2014; Washburn & Bromiley, 2012). Ad esempio, l’impresa che risulta essere un top performer peserà di più i livelli delle proprie performance passate piuttosto che i livelli delle

55 strategia di riorientamento che comporta importanti cambiamenti all’architettura organizzativa (Ceci et al., 2016).

Tuttavia, le decisioni relative al cambiamento organizzativo e i relativi piani attuativi non si traducono automaticamente in cambiamenti effettivi, poiché le organizzazioni che intraprendono un qualsiasi tipo di cambiamento devono fare i conti con le forze inerziali. Dal punto di vista dell’Organizational

Ecology, le forze inerziali derivano da pressioni sia interne che esterne (Hannan & Freeman, 1984).

Queste forze sono solitamente concepite come ostacoli al cambiamento e tale visione domina largamente i discorsi sul cambiamento e sul non-cambiamento negli studi di management. Questo perché l’attenzione è focalizzata esclusivamente su quegli elementi organizzativi non mutevoli che disturbano il cambiamento organizzativo, e ciò non è altro che diretta conseguenza della concettualizzazione del cambiamento organizzativo come processo di transizione dalla configurazione attuale di un’organizzazione ad un’altra considerata per qualsivoglia motivo “migliore”, ove le configurazioni sono maggiormente intese come singoli blocchi piuttosto che come sistemi composti da diversi elementi.

In effetti, la ricerca scientifica sul cambiamento organizzativo tende a concentrarsi sul processo di cambiamento piuttosto che sugli elementi strutturali coinvolti nello stesso e, le rare volte in cui invece lo fa, si focalizza sulla valutazione dell’entità del cambiamento piuttosto che cosa sta cambiando (Grandori & Prencipe, 2008). Partendo da questo presupposto, Grandori e Prencipe (2008) categorizzano come “effective invariants” quegli elementi dell’organizzazione che non cambiano a fronte del cambiamento di altri elementi e delle contingenze esterne ma che possono ancora essere considerati vantaggiosi per l’architettura organizzativa. Grandori e Prencipe (2008) costruiscono le proprie argomentazioni sull’efficacia degli elementi rimasti invariati e su ciò che Siggelkow (2001, p. 838) definisce come “forze inerziali benefiche”: quando le contingenze appaiono stabili, è opportuno che anche l’elemento organizzativo a queste correlato non cambi. Ciò preserva il presupposto che un adeguato fit ambiente-organizzazione dovrebbe essere sempre perseguito e che il cambiamento organizzativo dovrebbe essere funzionale a tale scopo (Lawrence & Lorsch, 1967, Siggelkow, 2002). Nel loro studio, Grandori e Prencipe (2008) vanno al di là di ciò nel momento in cui sottolineano, in primo luogo, che alcuni elementi organizzativi potrebbero rivelarsi degli “effective invariant”, cioè utili quando non cambiano a fronte di mutate circostanze. In particolare, nel loro articolo, mostrano come nel caso di Pilkington la comunità di ingegneri fosse considerabile come uncontingent effective

invariant, un elemento dell’architettura organizzativa che non è cambiato nonostante le mutate

condizioni e che nonostante ciò si è sempre rivelato utile. Nel caso in questione, gli autori non specificano esplicitamente se la comunità di ingegneri diventa uncontingent effective invariant a causa della decisione di Pilkington di preservare immutato tale elemento dell’architettura organizzativa o se il carattere comunitario fosse stato naturalmente resistente al cambiamento. Il fatto che gli autori non abbiano ricevuto “risposte significative” dagli intervistati alle loro domande sugli elementi soggetti al non-cambiamento (Grandori & Prencipe, 2008, p. 239) suggerisce che è probabile che sia il caso di un elemento che ha naturalmente resistito ai cambiamenti intercorsi nell’architettura dell’organizzazione e che è apparso essere ancora efficace alla strategia d’impresa.

Da qui, il presente capitolo rappresenta un tentativo di avanzamento della letteratura sul cambiamento organizzativo guardando a quegli elementi categorizzabili come uncontingent effective invariant derivanti da deliberate scelte d’impresa. Infatti, nonostante le mutate condizioni ambientali, contrariamente a quanto suggerito dalla teoria mainstream della gestione aziendale e dal comportamento di molti altri attori, un’impresa potrebbe decidere deliberatamente di non modificare elementi della sua architettura organizzativa.

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