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Il dipartimento di chimica

Spero che il male della pietra non ritorni e, se vuole Iddio, venga espulso con l’urina, però consulterò il mio medico.

SAMUEL PEPYS

I

Il diabete è una malattia orribile, ma un tempo era addirittura peggiore perché non ci si poteva fare quasi nulla. Di solito i bambini morivano nel giro di un anno dalla diagnosi, e la morte era penosa. L’unico modo per diminuire i livelli di zucchero nel corpo, e prolungare di poco la vita, era ridurre i pazienti alla fame. Un ragazzino di dodici anni tenuto a stecchetto329 fu sorpreso a rubare il mangime dalla gabbia di un canarino. Come tutti gli altri, morì affamato e avvilito. Non arrivava a sedici chili.

Alla fine del 1920, in uno dei più felici e improbabili episodi della storia del progresso scientifico, un giovane dottore non proprio affermato di London, in Canada, lesse un articolo sul pancreas in una rivista medica e decise di trovare la cura. Si chiamava Frederick Banting e del disturbo sapeva talmente poco che nei suoi appunti scriveva diabetus invece di diabetes. Pur non avendo

alcuna esperienza di ricerca, era convinto che la sua idea meritasse un tentativo.

La sfida per chiunque si occupasse del diabete consisteva nel fatto che il pancreas umano ha due funzioni distinte. Il grosso è dedicato alla produzione e alla secrezione degli enzimi che contribuiscono alla digestione, ma contiene anche gruppi di cellule note come isole di Langerhans, scoperte nel 1868 da uno studente di Medicina di Berlino, Paul Langerhans, che ammise schiettamente di non sapere a cosa servissero. La loro funzione, produrre una sostanza chimica dapprima chiamata isletina, fu dedotta vent’anni dopo dal francese Édouard Laguesse. Oggi quella sostanza si chiama insulina.

L’insulina è una piccola proteina vitale per il mantenimento del delicatissimo equilibrio degli zuccheri nel sangue. L’eccesso o la carenza producono terribili conseguenze. Tutti noi ne consumiamo moltissima. Ogni molecola dura dai cinque ai quindici minuti, quindi la richiesta di reintegro è inarrestabile.

Anche se ai tempi di Banting il ruolo dell’insulina nel controllo del diabete era noto, non si era riusciti a separarla dai succhi gastrici. Secondo Banting – che però non aveva alcuna prova a favore – legando il dotto pancreatico per impedire ai succhi gastrici di raggiungere l’intestino, il pancreas avrebbe smesso di produrli.

Malgrado non vi fossero motivi per ipotizzare che sarebbe successo, convinse il professor J.J.R. Macleod della University of Toronto a farsi assegnare un posto in laboratorio, un assistente e dei cani su cui condurre gli esperimenti.

Il suo assistente era Charles Herbert Best, americano di origini canadesi cresciuto nel Maine dove il padre era medico di famiglia. Scrupoloso e zelante, non sapeva quasi niente del diabete proprio come Banting, e ne sapeva ancora meno di metodi sperimentali. Nonostante ciò i due si misero all’opera, legarono il dotto pancreatico dei cani e,

da non crederci, ottennero buoni risultati. Di fatto sbagliarono quasi tutto. Come commentò un osservatore, i loro esperimenti erano «mal concepiti, mal eseguiti330 e mal interpretati». Eppure nel giro di qualche settimana iniziarono a produrre insulina pura.

Una volta somministrata ai diabetici, l’effetto aveva un che di miracoloso. Pazienti apatici e scheletrici, che potevano a malapena dirsi vivi, riprendevano presto vigore.

Per dirla con le parole di Michael Bliss, autore del testo The Discovery of Insulin, era quanto di più vicino alla resurrezione che la medicina moderna avesse mai realizzato. Un altro ricercatore del laboratorio, J.B. Collip, ideò un metodo ancora più efficace per estrarre l’insulina, che ben presto fu prodotta in quantità sufficienti a salvare vite umane in tutto il mondo. «La scoperta dell’insulina»331 dichiarò il premio Nobel Peter Medawar «si può considerare il primo, grande trionfo della medicina.»

Poteva essere una storia a lieto fine per tutti. Nel 1923 Banting ricevette il Nobel per la Fisiologia o la Medicina insieme a Macleod, il direttore del laboratorio, e ne fu inorridito. Non solo Macleod non era stato coinvolto negli esperimenti, ma all’epoca della scoperta non si trovava neppure nel paese bensì nella nativa Scozia per la consueta, lunga visita annuale. Convinto che Macleod non meritasse l’onore, Banting annunciò di voler dividere il premio in denaro con il fidato assistente Best. Collip, nel frattempo, si rifiutò di condividere con il team il suo metodo di estrazione dell’insulina migliorato e annunciò di volerlo brevettare a suo nome, facendo infuriare gli altri.

Banting, che a quanto pare era di temperamento irascibile, fu allontanato da Collip in almeno un’occasione dopo averlo aggredito.

Dal canto suo Best, che non sopportava né Collip né Macleod, si rivoltò anche contro Banting. In breve finirono con l’odiarsi tutti, ma almeno il mondo aveva l’insulina.

   

Il diabete è di due tipi. In realtà sono due disturbi distinti con complicanze e gestione simili, ma patologie nel complesso diverse. Nel tipo 1 il corpo smette del tutto di produrre insulina, mentre nel tipo 2 l’insulina è meno efficace, in genere per via di un insieme di produzione ridotta e reazione anomala delle cellule su cui agisce.

Questo problema viene detto insulino-resistenza. Il tipo 1 tende a essere ereditario, mentre il tipo 2 di solito è una conseguenza dello stile di vita. Però non è così semplice.

Seppur associato a una vita poco sana, il tipo 2 può presentare una certa familiarità, suggerendo che ci sia anche una componente genetica. Allo stesso modo il tipo 1, seppur associato a difetto dei geni HLA (antigeni umani leucocitari), insorge solo in alcuni soggetti con tale anomalia, a indicare che esiste un ulteriore fattore scatenante non identificato. Molti ricercatori sospettano un nesso con l’esposizione a una serie di agenti patogeni nei primi anni di vita, altri invece ipotizzano uno scompenso332 dei microbi intestinali o forse addirittura un legame con il livello di benessere e nutrimento nell’utero.

Quello che possiamo dire è che l’incidenza del diabete è ovunque in aumento. Fra il 1980 e il 2014, in tutto il mondo, il numero degli adulti333 con il diabete di entrambi i tipi è schizzato da poco più di cento milioni a ben oltre quattrocento milioni. Il 90 per cento aveva il tipo 2, in rapida crescita soprattutto nei paesi in via di sviluppo che adottano le pessime abitudini occidentali di una dieta inadeguata e di uno stile di vita inattivo. Eppure si diffonde anche il tipo 1. Dal 1950 in Finlandia è aumentato del 550 per cento e continua a salire quasi ovunque a un tasso compreso fra il 3 e il 5 per cento l’anno per ragioni ignote.

Pur avendo cambiato la vita a milioni di diabetici, l’insulina non è la soluzione perfetta. Non potendola

somministrare per via orale, perché verrebbe scomposta nell’intestino prima di essere assorbita e adoperata, va iniettata, procedura fastidiosa e sgradevole. In un corpo sano i livelli di insulina sono monitorati e ritoccati di secondo in secondo, mentre nei diabetici avviene solo periodicamente, a discrezione del paziente. Significa che334 per buona parte del tempo i livelli non sono corretti, con un possibile effetto cumulativo negativo.

L’insulina è un ormone e gli ormoni sono i corrieri che recapitano i messaggi chimici nell’intera metropoli brulicante che è il nostro corpo. Sono definiti come una qualunque sostanza prodotta in una parte del corpo che agisce altrove, ma a parte questo non è facile dire cosa siano. Hanno forme e composizioni chimiche diverse, si spostano verso sedi diverse e, una volta a destinazione, hanno effetti diversi. Alcuni sono proteine, altri steroidi, altri ancora rientrano nel gruppo delle ammine. In comune hanno solo lo scopo, non la chimica, e noi li conosciamo poco e da poco tempo.

Il docente di endocrinologia di Oxford John Wass ne è innamorato. «Adoro gli ormoni»335 dice sempre. Quando ci siamo incontrati in un bar alla fine di una lunga giornata di lavoro aveva le braccia cariche di scartoffie in disordine, ma sembrava incredibilmente riposato per uno arrivato in mattinata da ENDO 2018, il convegno della Endocrine Society che si tiene ogni anno negli Stati Uniti.

«È una follia» mi dice in tono divertito. «Fra gli ottomila e i diecimila endocrinologi accorrono da tutto il pianeta. Le riunioni cominciano alle cinque e mezzo del mattino e possono protrarsi fino alle nove di sera, quindi c’è tantissimo da assorbire e si torna» dà una scrollatina ai fogli «con tantissimo da leggere. È molto utile, ma una vera follia.»

Wass si batte senza tregua per una migliore comprensione degli ormoni e della loro funzione. «Quello

endocrino è stato l’ultimo sistema importante a essere scoperto» spiega. «E non si finisce mai di trovare cose nuove. So di essere di parte, ma è un campo davvero affascinante.»

Nel 1958 si conoscevano solo una ventina di ormoni.

Oggi sembra che nessuno sappia con esattezza quanti ne abbiamo. «Secondo me sono almeno ottanta» dice, «ma forse addirittura un centinaio. Ne scopriamo di continuo di nuovi.»

Fino a non molto tempo fa si pensava che gli ormoni fossero prodotti solo nelle ghiandole endocrine (ecco perché questa branca della medicina si chiama endocrinologia) per finire direttamente nel flusso sanguigno, a differenza delle ghiandole esocrine che secernono gli ormoni su una superficie (come quelle sudoripare della pelle o le salivari della bocca). Le principali ghiandole endocrine – tiroide, paratiroidi, ipofisi, pineale, ipotalamo, timo, testicoli (negli uomini), ovaie (nelle donne) e pancreas – sono sparpagliate in tutto il corpo ma lavorano a stretto contatto. Pur essendo minuscole e pesando insieme pochi grammi, rispetto alle modeste dimensioni hanno un’importanza spropositata per la felicità e il benessere di tutti.

L’ipofisi (o ghiandola pituitaria) si trova ben nascosta nel cervello subito dietro gli occhi. Nonostante sia grande quanto un fagiolo i suoi effetti possono essere letteralmente enormi. Robert Wadlow di Alton, Illinois, l’essere umano più alto di sempre, aveva un disturbo che lo faceva crescere senza sosta a causa della sovrapproduzione dell’ormone della crescita. Dall’animo schivo e allegro, superava il padre (un uomo di statura media) già a otto anni, raggiunse i due metri e dieci a dodici anni e quasi due metri e mezzo quando si diplomò nel 1936, tutto per colpa dell’iperaffaticamento chimico del fagiolo al centro del cranio. Non smise mai di crescere e arrivò quasi a due metri e ottanta. Pur non essendo grasso pesava sui 230

chili e portava scarpe numero 78. Dopo i vent’anni iniziò a far fatica a camminare e per aiutarsi indossò dei tutori alle gambe, il cui sfregamento gli causò una grave infezione che degenerò in setticemia e lo uccise nel sonno il 15 luglio 1940. Aveva appena ventidue anni ed era alto due metri e settantadue centimetri. In vita era stato molto amato e nella sua città viene ricordato ancora oggi.

Trovo ironico che un corpo così grande fosse il frutto del malfunzionamento di una ghiandola minuscola. L’ipofisi è spesso chiamata ghiandola master perché controlla tantissime cose. Produce (o regola la produzione di):

ormone della crescita, cortisolo, estrogeno e testosterone, ossitocina, adrenalina e molto altro. In caso di attività fisica intensa rilascia nel flusso sanguigno le endorfine, le stesse sostanze chimiche sprigionate quando si mangia o si fa sesso, il cui effetto è simile a quello degli oppiacei. Ecco perché si parla di sballo del corridore. Non c’è quasi nessun ambito della vita in cui l’ipofisi non intervenga, eppure le sue funzioni sono state comprese solo nel XX secolo inoltrato.

   

La moderna endocrinologia ha avuto un inizio piuttosto accidentato anche grazie alle imprese entusiastiche ma malaccorte di un uomo altrimenti brillante di nome Charles Edouard Brown-Séquard (1817-1894). Brown-Séquard era un cittadino del mondo. Nato nell’isola di Mauritius nell’Oceano Indiano – il che fa di lui sia un mauriziano sia un britannico, dato che all’epoca Mauritius era una colonia –, era di madre francese e padre americano. Quindi poté vantare fin dal primo vagito ben quattro nazionalità. Non conobbe mai il padre, che era comandante di una nave e sparì in mare prima della sua nascita. Brown-Séquard crebbe in Francia dove studiò per diventare medico, poi girò l’Europa e l’America fermandosi di rado a lungo. In appena venticinque anni attraversò l’Atlantico ben sessanta

volte – in un’epoca in cui anche un solo viaggio simile nell’arco di una vita era eccezionale – svolgendo una serie di incarichi, alcuni dei quali di spicco, in Gran Bretagna, Francia, Svizzera e Stati Uniti. Nello stesso periodo scrisse nove libri e oltre cinquecento articoli, diresse tre riviste, insegnò a Harvard, all’università di Ginevra e alla facoltà di medicina di Parigi, tenne numerose conferenze e diventò un’autorità in materia di epilessia, neurologia, rigor mortis e secrezioni ghiandolari. Fu però un esperimento che condusse a Parigi nel 1889, alla veneranda età di settantadue anni, ad assicurargli una fama duratura e per certi versi risibile.

Dopo aver tritato i testicoli di alcuni animali domestici (i più citati sono cani e maiali, ma a quanto pare non esistono due fonti che concordino sui preferiti), Brown-Séquard si iniettò l’estratto e riferì di sentirsi eccitato come un quarantenne. In realtà le sensazioni che provava erano solo psicologiche. I testicoli dei mammiferi contengono pochissimo testosterone, che viene inviato nel corpo non appena è prodotto, e in ogni caso ne fabbricano in quantità molto ridotte. Se mai Brown-Séquard lo assimilò, era giusto un’ombra. Pur sbagliandosi su tutta la linea a proposito degli effetti ringiovanenti del testosterone, aveva invece ragione a ritenerlo una sostanza potente, a tal punto che oggi quello sintetizzato è trattato da stupefacente.

L’entusiasmo per il testosterone minò gravemente la sua credibilità scientifica, e comunque morì poco dopo, ma ironia vuole che il suo impegno incoraggiò altri a osservare con più attenzione e sistematicità i processi chimici che controllano la nostra vita. Nel 1905, a dieci anni di distanza dalla morte di Brown-Séquard, il fisiologo britannico E.H.

Starling coniò il termine ormone336 (su consiglio di uno studioso di classici di Cambridge; il termine deriva dalla parola greca che significa «mettere in moto»), anche se la branca non decollò fino al decennio seguente. La prima

rivista dedicata all’endocrinologia fu fondata solo nel 1917, e l’espressione generica che riunisce le ghiandole endocrine, cioè sistema endocrino, fu coniata addirittura nel 1927 dallo scienziato britannico J.B.S. Haldane.

Si può dire che il vero padre dell’endocrinologia visse una generazione prima di Brown-Séquard. Thomas Addison (1793-1860) faceva parte di un terzetto di eminenti medici noti come «i grandi tre», che lavoravano al Guy’s Hospital di Londra negli anni Trenta dell’Ottocento. Gli altri due erano Richard Bright, che scoprì il morbo di Bright (nefrite), e Thomas Hodgkin, specializzato in disturbi del sistema linfatico, che ha dato il nome ai linfomi di Hodgkin e non Hodgkin. Dei tre Addison era forse il più geniale, e di certo il più produttivo. È l’autore del primo resoconto accurato dell’appendicite ed era un’autorità in materia di anemia. A lui sono dedicati almeno cinque gravi disturbi, il più famoso era (e resta) il morbo di Addison, una patologia degenerativa delle ghiandole surrenali da lui descritta nel 1855, il che ne fece il primo disturbo ormonale mai individuato. Malgrado la fama, Addison era soggetto a periodi di depressione e nel 1860 si ritirò a Brighton e si tolse la vita.

Il morbo di Addison è una malattia rara ma ancora molto grave e colpisce circa una persona su diecimila. Il paziente più famoso della storia337 è John F. Kennedy, a cui fu diagnosticato nel 1947, anche se lui e la famiglia lo negarono sempre con enfasi e disonestà. Fu fortunato a sopravvivere perché all’epoca, prima dell’introduzione dei glucocorticoidi, un tipo di steroide, l’80 per cento dei pazienti moriva nel giro di un anno dalla diagnosi.

Quando l’ho incontrato, John Wass era molto preoccupato per il morbo di Addison. «Può essere davvero penoso perché i sintomi – soprattutto perdita di appetito e di peso – sono spesso fraintesi» mi ha detto. «Non molto tempo fa mi è capitato il caso di una ventitreenne adorabile con un

futuro assai promettente, morta perché il medico credeva che soffrisse di anoressia e l’ha mandata da uno psichiatra.

Il morbo di Addison nasce da uno scompenso di cortisolo, l’ormone dello stress che regola la pressione del sangue. La tragedia è che ristabilendone i livelli, il paziente può riprendersi in mezz’ora. Lei non sarebbe dovuta morire.

Buona parte di ciò che faccio è formare i medici di famiglia affinché non trascurino i disturbi ormonali comuni, che fin troppo spesso non vengono riconosciuti.»

   

Nel 1995 l’endocrinologia fu scossa da un vero e proprio terremoto quando il genetista della Rockefeller University di New York Jeffrey Friedman scoprì un ormone che non si pensava potesse esistere. Lo chiamò leptina (dal greco

«sottile»). Notò che veniva prodotto non nelle ghiandole endocrine, ma nelle cellule adipose. Fu una scoperta sensazionale. Fino ad allora, infatti, nessuno aveva sospettato che gli ormoni potessero essere prodotti al di fuori delle apposite ghiandole. Oggi invece si sa che vengono prodotti nello stomaco, nei polmoni, nei reni, nel pancreas, nel cervello, nelle ossa, insomma, ovunque.

La leptina suscitò fin da subito un enorme interesse non solo per questa sua particolarità, ma soprattutto per la funzione che svolge: regola l’appetito. Controllandola, quindi, sarebbe forse stato possibile controllare il peso corporeo. In alcuni studi condotti sui ratti gli scienziati scoprirono che alterando i livelli di leptina riuscivano a far ingrassare o dimagrire gli animali a loro piacimento.

C’erano tutti i presupposti per un farmaco prodigioso.

Furono subito avviati trial clinici sugli esseri umani, con grandi aspettative. I volontari con problemi di peso fecero iniezioni quotidiane per un anno, ma alla fine dello studio nulla era cambiato. Gli effetti della leptina non si rivelarono semplici come sperato. A quasi un quarto di secolo dalla scoperta, il funzionamento di questo ormone è ancora un

mistero e siamo lontani dal poterlo usare come aiuto nel controllo del peso.

Il cuore del problema è che il nostro corpo si è evoluto per far fronte alla carenza di cibo, non all’eccesso. La leptina, quindi, non è programmata per fermarci quando mangiamo. Nessuna sostanza chimica del corpo lo è. Ecco perché non riusciamo a smettere di farlo. Siamo abituati a divorare il cibo con avidità ogni volta che possiamo in base all’assunto che l’abbondanza è occasionale. Anzi, in assenza di leptina non facciamo che mangiare, perché il nostro corpo percepisce di essere affamato. In circostanze normali, invece, se viene aggiunta alla dieta non produce alcuna differenza percepibile sull’appetito. In sostanza, comunica al cervello se abbiamo o meno sufficienti riserve di energia per svolgere compiti relativamente gravosi tipo restare incinta o affrontare la pubertà. Se gli ormoni pensano che il corpo muoia di fame, quei processi non hanno la possibilità di iniziare. Ecco perché i ragazzi che soffrono di anoressia hanno spesso un notevole ritardo della pubertà. «È quasi certamente il motivo per cui oggi la pubertà comincia anni prima rispetto al passato» dice Wass. «Se all’epoca di Enrico VIII iniziava a sedici o diciassette anni, oggi inizia a undici, forse grazie alla migliore alimentazione.»

A complicare ulteriormente le cose, le funzioni corporee non sono quasi mai influenzate da un singolo ormone.

Quattro anni dopo la scoperta della leptina gli scienziati individuarono un altro ormone coinvolto nella regolazione dell’appetito. La grelina (detta anche ghrelina, dove le prime tre lettere stanno per «growth-hormone related», ovvero affine all’ormone della crescita) è prodotta sia nello stomaco sia in altri organi. Quando abbiamo fame i livelli di grelina aumentano, ma non si sa se sia questo a provocare la fame o se si limiti ad accompagnarla. L’appetito è influenzato anche da tiroide, fattori genetici e culturali, umore, accessibilità (difficile resistere a una ciotola di

arachidi sul tavolo), forza di volontà, ora del giorno, stagione e tanto altro. Nessuno ha ancora capito come infilare tutto questo in una pillola.

arachidi sul tavolo), forza di volontà, ora del giorno, stagione e tanto altro. Nessuno ha ancora capito come infilare tutto questo in una pillola.

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