Ho l’abitudine di mettermi in mare ogni volta che comincio a vedere appannato, e divento troppo cosciente dei miei polmoni.
HERMAN MELVILLE, Moby Dick
I
Senza far rumore e con un ritmo cadenzato, da svegli o addormentati, in genere senza pensarci, ogni giorno inspiriamo ed espiriamo sulle ventimila volte, elaborando con regolarità circa 12.500 litri d’aria a seconda della stazza e di quanto siamo attivi. Stiamo parlando di qualcosa come 7,3 milioni di respiri fra un compleanno e l’altro, 550 milioni nell’arco di una vita.
I numeri della respirazione, come quelli dell’intera esistenza, sono sconcertanti, anzi, hanno dell’incredibile.
Ogni volta che respiriamo, sprigioniamo450 25 sestilioni (2,5 x 1022) di molecole di ossigeno, talmente tante che con buona probabilità ci basta una giornata per inalare almeno una molecola del respiro di chiunque abbia mai vissuto. E chiunque vivrà da adesso a quando il sole si spegnerà di
tanto in tanto respirerà un po’ di noi. Dal punto di vista atomico siamo, per certi versi, eterni.
Per buona parte di noi le molecole affluiscono dalle nares, il termine latino che indica le narici (senza alcun motivo impellente, va detto). Da lì l’aria attraversa le cavità più misteriose della testa, i seni paranasali, che occupano uno spazio spropositato, non si sa bene perché.
«I seni sono elementi strani» mi ha detto un giorno Ben Ollivere della Nottingham University e del Queen’s Medical Centre. «Sono solo spazi cavernosi all’interno della testa.
Se non dovessimo destinare loro tutto quello spazio, ce ne sarebbe molto di più per la materia grigia.» Lo spazio, però, non è del tutto vuoto, ma occupato da una complessa rete di ossa che forse contribuiscono all’efficienza della respirazione. Che abbiano o meno una funzione, i seni creano non pochi guai. Ogni anno trentacinque milioni di americani soffrono di sinusite, e circa il 20 per cento delle prescrizioni di antibiotici451 è destinato a chi ha patologie dei seni (anche se, essendo soprattutto di natura virale, sono immuni agli antibiotici).
Per inciso, il motivo per cui il naso cola quando fa freddo è lo stesso per cui la finestra del bagno si ricopre di un velo d’acqua in inverno. Nel nostro caso, l’aria calda dei polmoni incontra quella fredda che entra dalle narici e si condensa causando il gocciolio.
I polmoni sono abilissimi nel fare le pulizie. Secondo una stima, in media una persona che vive in città inala venti miliardi di particelle estranee al giorno, fra cui polvere, sostanze inquinanti industriali, pollini, spore fungine e qualunque cosa sia sospesa nell’aria. Tante di queste possono causare gravi malattie, ma in genere non succede perché il corpo respinge gli intrusi. Se una particella è molto grande o particolarmente irritante viene espulsa all’istante da un colpo di tosse o da uno starnuto (diventando spesso in questo modo un problema altrui). Se
è troppo piccola per provocare una risposta così violenta resta intrappolata nella mucosa che riveste le cavità nasali o viene catturata dai bronchi, o tubuli, dei polmoni. Queste minuscole vie aeree sono rivestite da milioni e milioni di ciglia che fungono da pagaie (sono velocissime, sbattono sedici volte al secondo) e rispediscono in gola gli invasori, poi dirottati nello stomaco e dissolti dall’acido cloridrico.
Se riesce a superare questa massa ondeggiante, l’intruso si scontra con delle macchinette divoratrici dette macrofagi alveolari, che lo inghiottiscono. A volte, però, gli agenti patogeni la spuntano e ci fanno ammalare. La vita è così.
Da non molto si è scoperto che starnutire è un’esperienza ben più impetuosa di quanto si pensasse.
Come ha riferito Nature, il team coordinato dalla professoressa Lydia Bourouiba del Massachusetts Institute of Technology ha studiato gli starnuti con un’attenzione mai riservata loro in passato, e ha scoperto che le goccioline possono schizzare fino a otto metri452 e restare sospese nell’aria per una decina di minuti prima di posarsi leggiadre sulle superfici limitrofe. Tramite riprese a ultrarallentatore si è inoltre osservato che lo starnuto non è un bolo di goccioline, come si era sempre creduto, bensì una cortina – una sorta di pellicola liquida – che si infrange sulle superfici vicine fornendo ulteriori prove, se mai ce ne fosse bisogno, che è meglio non trovarsi nei paraggi quando qualcuno starnutisce. Secondo un’interessante teoria, clima e temperatura possono influenzare il modo in cui le goccioline di uno starnuto si uniscono, spiegando perché influenza e raffreddore sono più diffusi nei mesi freddi, ma non perché le goccioline risultano più contagiose se prelevate tramite il tocco piuttosto che con il respiro (o il bacio). A proposito, alcuni esperti in vena di spiritosaggini chiamano lo starnuto scoppio elio-oftalmico autosomico dominante compulsivo.
Nel complesso i polmoni pesano un chilo e cento grammi e occupano più spazio di quanto si immagini. Si protendono dal collo allo sterno. Tendiamo a pensare che si gonfino e si sgonfino in maniera autonoma, tipo un mantice, invece sono assistiti da uno dei muscoli più sottovalutati del corpo, il diaframma. Il diaframma è un’invenzione dei mammiferi, e per giunta un’ottima invenzione, perché potenzia il funzionamento dei polmoni tirandoli giù. La superiore efficienza respiratoria che apporta favorisce un maggior afflusso di ossigeno ai muscoli, migliorando la nostra forza, e al cervello, favorendo l’intelligenza. A tale efficienza contribuisce anche il lieve scarto di pressione fra l’aria esterna e l’aria della cavità pleurica. Nel torace, infatti, la pressione è inferiore a quella atmosferica e consente ai polmoni di restare gonfi. Se l’aria penetra nel torace, per esempio a causa di una ferita, questo scarto si annulla e i polmoni collassano riducendosi a un terzo delle loro dimensioni.
La respirazione è una delle poche funzioni involontarie che siamo in grado di controllare, anche se solo fino a un certo punto. Se possiamo tenere gli occhi chiusi quanto ci pare e piace, non possiamo sospendere a oltranza la respirazione senza che il sistema torni a imporsi e ci costringa a inspirare. L’aspetto interessante è che il disagio provato quando si trattiene il fiato troppo a lungo non è causato dall’esaurimento dell’ossigeno ma dall’accumulo di anidride carbonica. Ecco perché la prima cosa che si fa quando si riprende a respirare è sbuffare. Verrebbe da pensare che l’esigenza più impellente sia inalare aria fresca piuttosto che buttar fuori quella viziata, e invece no. Il corpo detesta l’anidride carbonica a tal punto che deve espellerla prima di reintegrare l’ossigeno.
Gli esseri umani non sono campioni di apnea, anzi, neppure di respirazione. Sebbene i polmoni abbiano una capienza di sei litri d’aria,453 in genere ne inaliamo appena
mezzo litro alla volta, quindi c’è parecchio margine di miglioramento. Il record di apnea volontaria, 24 minuti e 3 secondi, lo detiene lo spagnolo Aleix Segura Vendrell, che ha trattenuto il fiato in una piscina di Barcellona nel febbraio del 2016, ma dopo aver respirato ossigeno puro per un po’ ed essere rimasto immobile nell’acqua per ridurre al minimo il fabbisogno energetico. Rispetto alla resistenza di tanti mammiferi acquatici è niente. Alcune foche possono stare sott’acqua fino a due ore, mentre la maggior parte di noi non dura più di un minuto, ammesso che ci arrivi. Neppure le famose pescatrici di perle giapponesi, dette Ama, si trattengono più di due minuti (anche se si tuffano un centinaio di volte al giorno).
Nel complesso per vivere ci occorre molto fiato. Un adulto di dimensioni medie454 ha poco meno di due metri quadri di pelle, ma circa un centinaio di metri quadri di tessuto polmonare che contiene intorno ai 2500 chilometri di vie aeree. Stipare un simile apparato respiratorio nel modesto spazio del torace è un’abile soluzione all’immane problema di come procurare tanto ossigeno in maniera efficiente per miliardi di cellule. Senza quell’intricato imballaggio saremmo come le alghe kelp, lunghe decine di metri ma con tutte le cellule vicinissime alla superficie per facilitare il ricambio di ossigeno.
Visto e considerato quant’è complesso l’atto della respirazione non sorprende che i polmoni possano causare diversi problemi. A sorprendere, invece, è quanto poco a volte si sa delle origini di tali problemi, in particolare nel caso dell’asma.
II
Volendo proporre un testimonial per l’asma, il grande romanziere francese Marcel Proust (1871-1922) non
sarebbe affatto una cattiva idea. Del resto Proust potrebbe essere il testimonial di moltissimi disturbi, visto che ne aveva in abbondanza. Soffriva di insonnia, indigestione, mal di schiena, cefalee, spossatezza, vertigini e di un opprimente mal di vivere. Ma era soprattutto schiavo dell’asma. Il primo attacco lo ebbe a nove anni e da allora la sua vita fu infelice. Alla sofferenza si accompagnò un’acuta germofobia. Prima di aprire la posta455 chiedeva all’assistente di chiuderla in una scatola sigillata ed esposta a vapori di formaldeide per due ore. Ovunque andasse,456 inviava alla madre dettagliati resoconti giornalieri su sonno, funzionalità polmonare, stato mentale e movimenti intestinali. Come avrete capito, era alquanto ossessionato dalla salute.
Sebbene alcuni dei suoi assilli fossero forse un tantino ipocondriaci, l’asma era vera. Alla disperata ricerca di una cura, Proust si sottopose a innumerevoli (e vani) clisteri;
bevve infusi di morfina, oppio, caffeina, amile, trional, valeriana e atropina; fumò sigarette medicate; inalò creosoto e cloroformio; subì oltre cento dolorose cauterizzazioni nasali; seguì una dieta a base di latte; si fece tagliare il gas in casa; visse più che poté nell’aria pura delle città termali e dei rifugi di montagna. Niente funzionò. Morì di polmonite, con i polmoni stremati, nell’autunno del 1922 a soli cinquantuno anni.
All’epoca di Proust l’asma era una malattia rara e poco conosciuta. Oggi è molto diffusa e ancora poco conosciuta.
Nella seconda metà del XX secolo si verificò un’impennata dei casi di asma in buona parte dei paesi sviluppati e nessuno sa perché. A livello globale oggi ne soffrono circa trecento milioni di persone, il 5 per cento degli adulti e il 15 dei bambini negli stati in cui è misurata con cura, anche se i numeri variano molto da zona a zona e da paese a paese, persino da città a città. Guangzhou, in Cina, ha un alto tasso di inquinamento, mentre la vicina Hong Kong, ad
appena un’ora di treno, è relativamente pulita avendo poche industrie e aria pura a volontà grazie alla presenza del mare. Eppure nella pulita Hong Kong l’asma si attesta al 15 per cento, mentre nell’inquinata Guangzhou ad appena il 3, il contrario di quanto ci si aspetti. Nessuno è in grado di spiegarlo.
Prima della pubertà l’asma è più diffusa tra i maschi, dopo tra le femmine. Colpisce di più le persone di colore rispetto ai caucasici (in genere, ma non ovunque) e gli abitanti delle città piuttosto che di campagna. Nei bambini è associata a obesità e a sottopeso: in chi è obeso è più frequente, in chi è sottopeso è più grave. Il primato mondiale lo detiene la Gran Bretagna, dove lo scorso anno il 30 per cento dei bambini ha mostrato sintomi d’asma.
Cina, Grecia, Georgia, Romania e Russia hanno appena il 3 per cento. Tutti i paesi di lingua inglese hanno un’alta incidenza, come anche quelli dell’America Latina. Per l’asma non esiste cura, benché nel 75 per cento dei casi scompaia da sola con l’inizio dell’età adulta. Non si sa né come né perché succeda, né come mai non capiti alla sfortunata minoranza. A dirla tutta, dell’asma non si sa quasi un bel niente.
Oggi l’asma (che deriva dal verbo greco «ansimare») è non solo più diffusa, ma anche più letale, e spesso in maniera improvvisa. In Gran Bretagna è la quarta causa di morte infantile.457 Negli Stati Uniti fra il 1980 e il 2000 i casi sono raddoppiati, mentre i ricoveri sono triplicati, a indicare che l’asma è sia più frequente sia più virulenta. Lo stesso fenomeno si è verificato in buona parte del mondo sviluppato – Scandinavia, Australia, Nuova Zelanda, alcune zone ricche dell’Asia – benché stranamente non altrove. In Giappone, per esempio, non c’è stato un aumento significativo.458
«Si pensa che l’asma sia causata459 da acari della polvere, pelo di gatto, sostanze chimiche, fumo di sigaretta
o inquinamento atmosferico» dice Neil Pearce, professore di Epidemiologia e Biostatistica della London School of Hygiene and Tropical Medicine. «Io ho passato trent’anni a studiarla e sono solo riuscito a dimostrare che quasi nessuno dei fattori ritenuti responsabili lo è davvero.
Possono giusto provocare attacchi in chi è già asmatico.
Delle cause principali sappiamo pochissimo e non possiamo fare nulla per prevenirla.»
Pearce, originario della Nuova Zelanda, è una delle autorità mondiali sulla diffusione dell’asma, ma è approdato a questa branca della medicina per puro caso e piuttosto tardi. «Ho avuto la brucellosi» – un’infezione batterica che lascia la sensazione di essere sempre influenzati – «poco dopo i vent’anni e ho dovuto interrompere gli studi» racconta. «Sono di Wellington e siccome nelle città la brucellosi è rara i medici impiegarono tre anni per diagnosticarla. Ironia vuole che, una volta capito cos’era, bastarono due settimane di antibiotici per curarla.» Malgrado una laurea con lode in Matematica, aveva perso l’occasione di entrare a Medicina, così lasciò perdere la specializzazione e lavorò due anni come conducente di autobus e in fabbrica.
Fu solo per caso, mentre cercava qualcosa di più interessante, che finì a lavorare come biostatistico alla Wellington Medical School. Da lì diventò direttore del Centre for Public Health Research della Massey University di Wellington. Il suo interesse per l’epidemiologia dell’asma scaturì da una serie di decessi inspiegati fra giovani asmatici. Pearce faceva parte del team che collegò le morti a un farmaco assunto per inalazione, il fenoterolo (che non c’entra nulla con il noto oppioide fentanyl). Fu l’inizio di una lunga relazione con l’asma, che oggi è solo uno dei suoi tanti interessi. Nel 2010 si è trasferito in Inghilterra per lavorare alla venerabile London School of Hygiene and Tropical Medicine nel quartiere di Bloomsbury.
«Per molto tempo» mi ha detto quando l’ho incontrato
«l’asma è stata ritenuta un disturbo neurologico: il sistema nervoso inviava segnali sbagliati ai polmoni. Poi, negli anni Cinquanta e Sessanta, fu avanzata l’ipotesi che si trattasse di una reazione allergica e persino i manuali di oggi sostengono che l’asma è causata dall’esposizione agli allergeni durante i primi anni di vita. Idea, però, quasi del tutto errata. Ora si sa che la faccenda è molto più complessa. Una metà dei casi mondiali coinvolge le allergie, ma l’altra è dovuta a cause diverse, a ignoti meccanismi non allergici.»
Per molti asmatici il disturbo può essere scatenato da aria fredda, stress, attività fisica o altri fattori che nulla hanno a che fare con gli allergeni o le particelle dell’aria.
«Più in generale» ha aggiunto Pearce, «si ritiene che l’asma, allergica e non, implichi un’infiammazione polmonare, ma se alcuni asmatici mettono i piedi in un secchio d’acqua ghiacciata cominciano subito a rantolare.
Succede troppo in fretta perché sia dovuto a un’infiammazione. Dev’esserci una causa neurologica.
Almeno in parte, stiamo chiudendo il cerchio.»
L’asma è molto diversa dagli altri disturbi dei polmoni perché non sempre è presente. «Il più delle volte la funzionalità polmonare della maggior parte degli asmatici è perfettamente normale. Il problema si manifesta solo in caso di attacco, ed è davvero insolito per una malattia.
Anche quando le patologie sono asintomatiche restano quasi sempre evidenti nel sangue o nell’espettorato, mentre per l’asma è come se in certi casi svanisse.»
Durante un attacco le vie aeree si restringono460 e l’asmatico fatica a respirare, soprattutto a espirare. Nelle forme più lievi gli steroidi sono quasi sempre in grado di tenere sotto controllo gli attacchi, mentre nelle forme più gravi funzionano di rado.
«Dell’asma si può dire che è un disturbo soprattutto occidentale» spiega Pearce. «Lo stile di vita dell’Occidente ha qualcosa che rende più vulnerabile il sistema immunitario. Non sappiamo perché.» Una possibilità è l’ipotesi dell’igiene, per cui l’esposizione precoce agli agenti infettivi rafforza la resistenza all’asma e alle allergie in futuro. «È una teoria interessante» dice Pearce, «però non sempre torna. In paesi come il Brasile l’incidenza dell’asma è alta, ma anche quella delle infezioni.»
L’età culmine dell’insorgenza è tredici anni, eppure l’asma compare anche in tanti adulti. «Per i medici i primi anni di vita sono cruciali, ma non è del tutto vero» spiega.
«Sono i primi anni di esposizione. Se si cambia lavoro o paese l’asma può insorgere anche da adulti.»
Alcuni anni fa Pierce ha fatto una bizzarra scoperta: chi ha avuto un gatto da piccolo è protetto a vita. «Mi diverto a dire che studio l’asma da trent’anni e non ho mai prevenuto un solo caso, però ho salvato la vita a tantissimi gatti» dice.
Difficile sapere cosa dello stile di vita occidentale scateni l’asma.461 Crescere in una fattoria sembra fornire protezione e trasferirsi in città aumenta il rischio, ma il motivo resta ignoto. Un’intrigante teoria avanzata da Thomas Platts-Mills della University of Virginia collega l’aumento dell’asma alla diminuzione delle ore trascorse all’aperto. Come ha osservato, un tempo i bambini restavano fuori a giocare dopo la scuola, mentre ora spesso tornano a casa e ci restano. «Oggi i bambini ciondolano per casa o stanno seduti come non accadeva mai in passato»462 ha detto in un’intervista a Nature. Davanti alla televisione, non solo non allenano i polmoni come farebbero se giocassero, ma addirittura respirano diversamente da quelli che non sono paralizzati di fronte a uno schermo. Secondo tale teoria, chi legge respira più a fondo e sospira più spesso di chi guarda la tivù e questa lieve differenza
dell’attività respiratoria può bastare a far aumentare la predisposizione all’asma.
Per altri ricercatori i responsabili dell’insorgenza dell’asma potrebbero essere i virus. Uno studio del 2015 condotto alla University of British Columbia indica che l’assenza di quattro microbi intestinali (Lachnospira, Veillonella, Faecalibacterium e Rothia) nei neonati è associata allo sviluppo dell’asma nei primi anni di vita.
Finora, però, si tratta solo di ipotesi. «La conclusione è che ancora non lo sappiamo» dice Pearce.
III
Un’altra diffusissima minaccia per i polmoni merita una menzione non tanto per ciò che provoca, quanto per il tempo inimmaginabile che la società ha impiegato ad accettarlo. Mi riferisco al fumo e al suo rapporto con il cancro.
Ignorarlo è quasi impossibile. Chi fuma con regolarità463 (circa un pacchetto al giorno) rischia che gli venga il cancro ai polmoni cinquanta volte di più di un non fumatore. Nei trent’anni fra il 1920 e il 1950, quando le sigarette presero piede in tutto il mondo, i casi schizzarono alle stelle. Benché in America triplicarono, e aumenti simili si registrarono anche altrove, ci volle tantissimo per ammettere che la causa era il fumo.
Se oggi sembra assurdo, all’epoca non lo era. Poiché fumavano in tantissimi – l’80 per cento degli uomini alla fine degli anni Quaranta – ma solo alcuni sviluppavano cancro ai polmoni, persino qualche non fumatore, il legame non appariva diretto. Se in molti fanno una cosa che uccide solo alcuni è difficile attribuire la colpa a un’unica causa.
L’aumento fu attribuito all’inquinamento atmosferico o all’uso massiccio dell’asfalto.
Uno dei principali scettici fu Evarts Ambrose Graham (1883-1957), chirurgo toracico e professore della Washington University di St. Louis famoso perché sosteneva (scherzando) che tanto valeva dare la colpa alle calze di nylon, visto che si diffusero nella stessa epoca del fumo. Quando però alla fine degli anni Quaranta il suo allievo di origini tedesche Ernst Wynder gli chiese il permesso di condurre uno studio sulle correlazioni tra fumo e cancro, Graham glielo concesse aspettandosi che smentisse una volta per tutte la teoria. Wynder dimostrò invece, e in modo definitivo, che il rapporto esisteva, al punto che Graham cambiò idea dinanzi alle prove. Nel 1950 i due pubblicarono un articolo sul Journal of the American Medical Association e poco dopo sul British Medical Journal uscì lo studio di Richard Doll e A. Bradford Hill della
Uno dei principali scettici fu Evarts Ambrose Graham (1883-1957), chirurgo toracico e professore della Washington University di St. Louis famoso perché sosteneva (scherzando) che tanto valeva dare la colpa alle calze di nylon, visto che si diffusero nella stessa epoca del fumo. Quando però alla fine degli anni Quaranta il suo allievo di origini tedesche Ernst Wynder gli chiese il permesso di condurre uno studio sulle correlazioni tra fumo e cancro, Graham glielo concesse aspettandosi che smentisse una volta per tutte la teoria. Wynder dimostrò invece, e in modo definitivo, che il rapporto esisteva, al punto che Graham cambiò idea dinanzi alle prove. Nel 1950 i due pubblicarono un articolo sul Journal of the American Medical Association e poco dopo sul British Medical Journal uscì lo studio di Richard Doll e A. Bradford Hill della