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Il sistema immunitario

Il sistema immunitario è l’organo più interessante del corpo.

MICHAEL KINCH

I

Il sistema immunitario è esteso, un po’ caotico ed è distribuito in tutto il corpo. Fra l’altro comprende diversi elementi che di solito non associamo alla sfera dell’immunità tipo cerume, pelle e lacrime. L’eventuale invasore in grado di superare tali difese esterne – e sono relativamente in pochi a riuscirci – si imbatte nell’orda delle cellule immunitarie «vere e proprie» che accorrono da linfonodi, midollo osseo, milza, timo e altri angoli del corpo.

Le reazioni chimiche in atto sono tantissime. Per comprendere il sistema immunitario occorre prima capire anticorpi, linfociti, citochine, chemochine, istamina, neutrofili, linfociti B, linfociti T, linfociti NK, macrofagi, fagociti, granulociti, basofili, interferoni, prostaglandine, cellule staminali ematopoietiche pluripotenti e molto altro, e ribadisco molto altro. Mentre alcune cellule hanno lo stesso compito, altre svolgono più funzioni. L’interleuchina 1, per esempio, non si limita ad attaccare gli agenti

patogeni, ma è anche coinvolta nel sonno, a parziale spiegazione del perché quando non stiamo bene siamo spesso insonnoliti. In base a un calcolo abbiamo circa trecento tipi cellule immunitarie424 anche se per Daniel Davis, docente di immunologia della University of Manchester, il numero è di fatto incalcolabile. «Una cellula dendritica della pelle è molto diversa da quella di un linfonodo, per cui è difficile individuare i tipi specifici»

spiega.

Per di più i sistemi immunitari sono unici quanto gli individui, quindi è più complicato generalizzarli, comprenderli e curarli quando si inceppano. Fra l’altro non si occupano solo dei germi, ma reagiscono a tossine, farmaci, tumori, oggetti estranei e influiscono addirittura sull’umore. Chi è stressato o sfinito425 ha, per esempio, più probabilità di contrarre infezioni.

Siccome la protezione dalle invasioni è una sfida pressoché senza limiti, a volte il sistema immunitario si sbaglia e sferra un attacco a cellule innocenti. Vista la quantità di ispezioni che le cellule immunitarie compiono giorno dopo giorno, il tasso di errore è assai basso. È però ironico che un’altissima quantità di sofferenze ci venga inflitta dalle nostre difese sotto forma di malattie autoimmuni come sclerosi multipla, lupus, artrite reumatoide, morbo di Crohn e tanti altri disturbi spiacevoli.

Nel complesso il 5 per cento circa di tutti noi426 ha una malattia autoimmune – percentuale altissima per una tipologia di patologie così sgradevoli –, e il numero cresce più in fretta della nostra capacità di curarle con efficacia.

«A ben pensarci427 è una follia che il sistema immunitario attacchi se stesso» dice Davis. «Eppure, visto tutto ciò che fa, è incredibile che non succeda sempre. Il sistema immunitario è bombardato di continuo da cose sconosciute, magari appena nate, come i nuovi virus dell’influenza in costante mutazione. Quindi dev’essere in grado di

individuare e respingere una quantità di cose più o meno infinita.»

Davis è un omone cortese che ha superato i quaranta, con una risata rumorosa e l’aria felice di chi ha trovato la sua nicchia. Ha studiato Fisica a Manchester e a Strathclyde, poi a metà degli anni Novanta si è trasferito a Harvard e ha deciso che la biologia era la sua passione. Per puro caso è finito nel laboratorio di immunologia ed è rimasto affascinato dall’elegante complessità del sistema immunitario e dalla sfida di provare a comprenderlo nel dettaglio.

Malgrado la complessità a livello molecolare, tutte le parti del sistema immunitario collaborano per un unico scopo: stanare eventuali presenze estranee nel nostro corpo e, se necessario, eliminarle. L’operazione, però, non è affatto lineare. Dentro di noi ci sono elementi innocui o addirittura benefici, ed eliminarli sarebbe avventato nonché uno spreco di energia e risorse. Il sistema immunitario deve quindi comportarsi un po’ come gli addetti alla sicurezza aeroportuale, che controllano i bagagli sul nastro trasportatore e contestano solo gli oggetti dal potenziale nefando.

Al cuore del sistema troviamo cinque tipi di globuli bianchi: linfociti, monociti, basofili, neutrofili ed eosinofili.

Pur essendo tutti importanti, i linfociti sono quelli che appassionano di più gli immunologi. Secondo David Bainbridge sono «le cellule più intelligenti428 dell’intero corpo» per la loro capacità di riconoscere ogni sorta di invasore indesiderato e mobilitare una reazione rapida e mirata.

I linfociti si dividono in due categorie principali: B e T. La B deriva da «borsa di Fabrizio», un organo simile all’appendice tipico degli uccelli, dove furono scoperti i linfociti B.429 Gli esseri umani e altri mammiferi non ce l’hanno. I nostri linfociti B sono prodotti nel midollo osseo. I

linfociti T, invece, hanno un nome più fedele alla loro origine. Pur essendo creati nel midollo osseo spuntano dal timo, un piccolo organo che si trova subito sopra il cuore, fra i polmoni. Per molto tempo il ruolo del timo è rimasto un totale mistero, perché sembrava solo pieno di cellule immunitarie morte, «il luogo in cui le cellule andavano a morire» come ha scritto Daniel Davis nel suo magnifico libro Il gene della compatibilità. Nel 1961 Jacques Miller, giovane ricercatore franco-australiano che lavorava a Londra, ne svelò il mistero.

Stabilì infatti che il timo è il vivaio dei linfociti T,430 una sorta di corpo scelto del sistema immunitario, e che le cellule morte trovate lì erano i linfociti scartati o perché non bravissimi a individuare e attaccare gli invasori esterni, o perché troppo impazienti di attaccare le cellule sane del corpo. In breve, non avevano passato il test. Come annunciò la rivista medica The Lancet, Miller era «l’ultima persona a individuare la funzione431 di un organo umano».

In molti si sono chiesti perché non gli fu assegnato il Nobel.

A loro volta i linfociti T si dividono in due categorie:

helper e killer. I killer, come indica il nome, uccidono le cellule invase dagli agenti patogeni. Gli helper, invece, aiutano altre cellule immunitarie ad agire e aiutano i linfociti B a produrre anticorpi. I linfociti T della memoria ricordano i dettagli dei precedenti invasori e, se si ripresenta lo stesso agente patogeno, sono in grado di coordinare una rapida reazione nota come immunità adattativa o acquisita.

I linfociti T della memoria sono incredibilmente vigili. Se non mi tornano gli orecchioni è perché, da oltre sessant’anni, loro mi proteggono da un secondo attacco.

Quando individuano il nemico ordinano ai linfociti B di produrre le proteine note come anticorpi, che attaccano gli organismi invasori. Gli anticorpi sono furbi: riconoscono e combattono rapidamente precedenti invasori se osano

ripresentarsi. Ecco perché tantissime malattie ci colpiscono una sola volta. Ed è anche il processo al cuore dei vaccini, che inducono il corpo a produrre anticorpi utili contro un particolare flagello senza farci ammalare.

I microbi hanno sviluppato vari stratagemmi per ingannare il sistema immunitario, ad esempio inviando segnali chimici ambigui o spacciandosi per batteri benigni.

Alcuni agenti infettivi, come l’Escherichia coli e la salmonella, possono indurre con l’inganno il sistema immunitario ad attaccare gli organismi sbagliati. In giro esistono molti agenti patogeni per l’uomo e buona parte della loro esistenza è dedicata a sviluppare modi nuovi e astuti per penetrarci. Il prodigio non è tanto che a volte ci ammaliamo, quanto piuttosto che non succeda molto più spesso. Oltre a uccidere le cellule intruse, il sistema immunitario deve tentare di uccidere le nostre che non si comportano bene, per esempio quando diventano cancerose.

L’infiammazione è il culmine della battaglia, quando il corpo si difende dal pericolo. I vasi sanguigni vicini a una ferita si dilatano, permettendo al sangue di affluire più copioso e di portare globuli bianchi per combattere gli invasori. L’area intorno alla ferita si gonfia, facendo aumentare la pressione sui nervi intorno e causando sensibilità. A differenza dei globuli rossi, i bianchi possono uscire dall’apparato circolatorio e attraversare i tessuti circostanti come una pattuglia che perlustra una giungla.

Se incontrano l’invasore sferrano l’attacco con le citochine, le sostanze chimiche che causano febbre e malessere quando combattono un’infezione. Non è infatti l’infezione a farci sentire male, bensì il corpo che si difende. Il pus rilasciato da una ferita è composto, tra le altre cose, dai globuli bianchi morti che hanno dato la vita per proteggerci.

L’infiammazione è un meccanismo complesso. Se è eccessiva distrugge i tessuti vicini e può arrecare dolore

inutile, se è modesta non ferma l’infezione. Il suo malfunzionamento è stato associato432 a diversi disturbi, da diabete e Alzheimer a infarto e ictus. «Certe volte» mi ha spiegato Michael Kinch della Washington University di St.

Louis, «il sistema immunitario si scatena a tal punto433 da chiamare a raccolta tutte le sue difese e sparare tutti i suoi missili nella cosiddetta tempesta citochinica. È questa che ci uccide. Si ripresenta in varie pandemie, ma anche nelle forti reazioni allergiche alle punture d’ape.»

Buona parte di quanto accade nel sistema immunitario a livello cellulare dev’essere ancora compreso a fondo.

Parecchio dev’essere compreso del tutto. Durante la mia visita a Manchester Davis mi ha portato nel suo laboratorio, dove un team di ricercatori stava studiando sui computer delle immagini acquisite da microscopi ad altissima risoluzione. Il ricercatore Jonathan Worboys mi ha mostrato una nuova scoperta: anelli di proteine simili a oblò sparsi sulla superficie di una cellula. Al di fuori di quel laboratorio nessuno li aveva mai visti.

«Senza dubbio si sono formati per un motivo» ha detto Davis, «che però è ancora sconosciuto. Sembra importante, ma potrebbe non esserlo. Non lo sappiamo. Magari lo capiremo fra quattro o cinque anni. Ecco cosa rende la scienza sia entusiasmante sia difficile.»

   

Se il sistema immunitario ha un santo patrono, quello è di certo Peter Medawar, uno dei maggiori scienziati britannici del XX secolo e forse anche il più esotico. Figlio di un libanese e di un’inglese, nacque nel 1915 in Brasile, dove il padre aveva interessi commerciali, ma quando lui era ancora piccolo la famiglia si trasferì in Inghilterra.

Medawar era alto, avvenente e atletico. Un suo contemporaneo, Max Perutz, lo definì «vivace, socievole, disinvolto, brillante conversatore,434 disponibile, irrequieto

e assai ambizioso». Per Stephen Jay Gould era «l’uomo più intelligente che abbia mai conosciuto». Malgrado la formazione da zoologo, Medawar si è conquistato fama imperitura con il lavoro sugli esseri umani durante la Seconda guerra mondiale.

Un pomeriggio d’estate del 1940 si godeva il sole con la moglie e la figlioletta nel loro giardino di Oxford quando sentì uno scoppiettio e, alzati gli occhi al cielo, vide precipitare un bombardiere della RAF. L’aereo si schiantò tra le fiamme ad appena duecento metri da casa sua. Un membro dell’equipaggio sopravvisse malgrado le orribili ustioni. Medawar rimase probabilmente stupito quando, un paio di giorni dopo, i medici dell’esercito gli chiesero di andare a dare un’occhiata al giovane aviatore. In fondo era uno zoologo, ma essendo impegnato nella ricerca sugli antibiotici magari era in grado di dare una mano. Fu l’inizio di una magnifica e proficua collaborazione che culminò nel premio Nobel.

A preoccupare di più i medici era il problema dell’innesto cutaneo. Quando la pelle veniva prelevata da un individuo e innestata su un altro dapprima veniva accettata, poi però avvizziva e moriva. Medawar fu subito attratto dal problema, non riusciva a capire perché il corpo rigettasse un evidente beneficio. «Nonostante lo zelo clinico435 e forse persino l’urgenza mortale che accompagna il trapianto, gli omoinnesti cutanei sono trattati come una malattia la cui unica cura è la distruzione» scrisse.

«Si credeva che il problema risiedesse nell’intervento, che se i chirurghi fossero riusciti a perfezionare la tecnica sarebbe filato tutto liscio» mi spiega Daniel Davis.

Medawar, però, capì che c’era sotto dell’altro. Al secondo innesto cutaneo la pelle veniva rigettata ancora più in fretta. In seguito scoprì che il sistema immunitario apprende fin dai primi anni di vita a non attaccare le sue cellule normali e sane. Come mi ha detto Davis: «Scoprì

che se un topo giovane è esposto alla pelle di un altro topo, quando cresce è capace di accettare il trapianto della sua pelle. In altri termini, scoprì che il corpo impara presto ciò che è suo, ciò che non deve attaccare. Il trapianto di pelle da un topo all’altro funziona purché il ricevente sia stato allenato da giovanissimo a non attaccare». Fu l’intuizione che, anni dopo, gli valse il Nobel. Come ha osservato David Bainbridge: «Anche se oggi lo diamo per scontato, l’improvviso nesso fra trapianto e sistema immunitario fu una conquista cruciale della medicina. Ci ha spiegato cos’è davvero l’immunità».

II

Due giorni prima del Natale del 1954 Richard Herrick di Marlborough,436 Massachusetts, rischiava di morire per insufficienza renale a soli ventitré anni quando la vita gli fu restituita grazie al primo trapianto di reni mai effettuato al mondo. Per sua fortuna Herrick aveva Ronald, un gemello identico e quindi il donatore con il tessuto ideale.

Nessuno, però, aveva mai tentato nulla di simile e i medici non avevano certezze sull’esito. C’era una netta possibilità che morissero entrambi. Come spiegò anni dopo il chirurgo Joseph Murray, primo operatore: «Nessuno di noi aveva mai chiesto a una persona sana di accettare quell’immenso rischio per il bene di un altro». Per fortuna andò meglio di quanto chiunque avesse osato sperare, con un lieto fine degno di una favola. Richard Herrick non solo sopravvisse all’intervento, ma sposò la sua infermiera ed ebbe due figli. Visse altri otto anni prima che la glomerulonefrite, la malattia originaria, tornò per ucciderlo. Il gemello Ronald visse altri cinquantasei anni con un rene solo. E il chirurgo Joseph Murray vinse il Nobel per la Medicina o la Fisiologia nel 1990, anche se

soprattutto per il successivo lavoro sull’immunosoppressione.

Il rigetto, però, decretava il fallimento della maggior parte delle operazioni. Nel decennio seguente 211 persone si sottoposero al trapianto di rene e il grosso non superò qualche settimana di vita, quando non morì subito. Solo sei sopravvissero un anno, nella maggior parte dei casi perché il donatore era un gemello. Fu solo dopo la creazione del farmaco miracoloso noto come ciclosporina, estratto da un campione di terra raccolto per caso durante una vacanza in Norvegia (come ricorderete dal capitolo 7), che i trapianti decollarono.

I progressi degli ultimi decenni in questo ambito della chirurgia sono stati eccezionali. Oggi negli Stati Uniti, per esempio, delle trentamila persone sottoposte ogni anno al trapianto di un organo oltre il 95 per cento è ancora vivo dopo un anno e l’80 per cento dopo cinque. Il rovescio della medaglia è che la domanda di organi supera di gran lunga l’offerta. Nel 2018 nelle liste d’attesa americane c’erano 114.000 persone.437 Ogni dieci minuti si aggiunge una nuova persona alla lista, e ogni giorno ne muoiono venti prima che si possa trovare un organo disponibile. Se chi è in dialisi vive in media otto anni in più,438 con un trapianto si arriva a ventitré.

Mentre un terzo dei trapianti di rene proviene da donatori vivi (in genere un parente prossimo), gli altri organi provengono da donatori deceduti, il che rappresenta un enorme ostacolo. Chi ha bisogno di un organo, infatti, deve sperare che qualcuno muoia in circostanze tali da lasciargli un organo sano e riutilizzabile delle giuste dimensioni, che non si trovi troppo lontano e che ci siano due équipe di chirurghi pronte a intervenire, una per rimuovere l’organo dal donatore, l’altra per inserirlo nel ricevente. Oggi l’attesa media per un trapianto di rene negli Stati Uniti è di 3,6 anni, dai 2,9 del 2004, e molti non

possono aspettare così a lungo. Sempre negli Stati Uniti ogni anno 7000 persone muoiono prima del trapianto, mentre in Gran Bretagna sono circa 1300 (poiché i due paesi usano criteri di misurazione diversi, è impossibile un raffronto diretto dei dati).

Un’eventuale soluzione è il ricorso agli animali.439 Gli organi prelevati dai maiali si potrebbero far crescere fino alle dimensioni giuste e poi usare a volontà. Gli interventi sarebbero programmati e non più d’urgenza. In teoria è una soluzione magnifica, ma nella pratica solleva due grossi problemi. Il primo è che gli organi di un’altra specie scatenano una violenta immunoreazione – se c’è una cosa che il sistema immunitario sa è che nel corpo non dovrebbe esserci un fegato di maiale – e il secondo è che i maiali sono pieni di retrovirus endogeni porcini, che rischiano di infettare qualunque essere umano in cui siano introdotti. Ci sono speranze che entrambi i problemi possano essere superati nell’immediato futuro, avverando così le speranze di migliaia di persone.

Un problema diverso e non meno difficile da gestire è che i farmaci immunosoppressori non sono l’ideale per svariati motivi. Innanzitutto agiscono sull’intero sistema immunitario e non solo sull’organo trapiantato, quindi il paziente è destinato a essere predisposto alle infezioni e ai tumori di norma combattuti, e poi possono essere tossici.

Sebbene con un po’ di fortuna la maggior parte di noi non avrà mai bisogno di un trapianto, ci sono tante altre cose che il sistema immunitario può farci. Nel complesso siamo afflitti da una cinquantina440 di disturbi autoimmuni, e il dato è in crescita. Si pensi al morbo di Crohn, una malattia infiammatoria cronica dell’intestino in costante aumento. Prima del 1932, quando il medico di New York Burrill Croh441 lo descrisse in un articolo pubblicato dal Journal of the American Medical Association, non era neppure un disturbo riconosciuto.442 All’epoca colpiva una

persona su 50.000, poi una su 10.000 e in seguito una su 5000. Oggi siamo a una su 250, e il dato aumenta. Nessuno sa perché. Daniel Lieberman avanza l’ipotesi che l’abuso di antibiotici443 e il conseguente impoverimento delle riserve microbiche potrebbe averci reso più soggetti alle malattie autoimmuni, ma ammette che le «cause restano sfuggenti».

Altrettanto sconcertante è il fatto che le malattie autoimmuni sono spudoratamente sessiste.444 Le donne, infatti, hanno il doppio delle probabilità di avere la sclerosi multipla, dieci volte di più di avere il lupus e cinquanta volte di più di avere un disturbo della tiroide chiamato tiroidite di Hashimoto. Nel complesso l’80 per cento delle malattie autoimmuni colpisce le donne. Gli ormoni sono i presunti responsabili, ma non è ancora chiaro come facciano quelli femminili, a differenza di quelli maschili, a confondere il sistema immunitario.

La categoria più ampia e per molti versi più misteriosa e incurabile dei disturbi da immunodeficienza è quella delle allergie. Un’allergia è la reazione inadeguata del corpo a un invasore solitamente innocuo. Il concetto di allergia è molto recente. Il termine è comparso per la prima volta in lingua inglese445 nel Journal of the American Medical Association poco più di un secolo fa. E già l’allergia è diventata la piaga della vita moderna. Circa la metà delle persone sostiene446 di averne almeno una, mentre tante altre ne hanno più di una (in medicina si chiama atopia).

Il tasso mondiale di incidenza varia dal 10 al 40 per cento e segue da vicino la situazione economica. Più ricco è il paese, più allergie hanno i suoi abitanti. Non si sa perché la ricchezza risulti nociva. Può darsi che negli stati ricchi e urbanizzati l’esposizione alle sostanze inquinanti sia superiore – è comprovato che gli ossidi di azoto del diesel sono associati a più alte incidenze di allergia – o forse il diffuso consumo degli antibiotici ha inciso in maniera diretta o indiretta sulle nostre risposte immunitarie. Altri

fattori concomitanti potrebbero essere la mancanza di attività fisica e la maggiore obesità. Anche se le allergie non sono genetiche, i geni possono influenzarne la predisposizione. Quando i genitori hanno un’allergia, i figli hanno il 40 per cento di probabilità di averla. Maggiori probabilità, ma nessuna certezza.

Il grosso delle allergie si limita giusto a causare disagio, ma alcune possono essere pericolosissime. In America circa settecento persone l’anno muoiono di anafilassi, il nome scientifico della reazione allergica più violenta che può provocare ostruzione delle vie aeree. Le cause scatenanti sono spesso antibiotici, alimenti, punture d’insetto e lattice, in quest’ordine. Alcune persone sono molto sensibili a determinati materiali. Nel libro The Molecules Within Us il dottor Charles A. Pasternak racconta che un bambino447 è rimasto due giorni in ospedale perché un passeggero dello

Il grosso delle allergie si limita giusto a causare disagio, ma alcune possono essere pericolosissime. In America circa settecento persone l’anno muoiono di anafilassi, il nome scientifico della reazione allergica più violenta che può provocare ostruzione delle vie aeree. Le cause scatenanti sono spesso antibiotici, alimenti, punture d’insetto e lattice, in quest’ordine. Alcune persone sono molto sensibili a determinati materiali. Nel libro The Molecules Within Us il dottor Charles A. Pasternak racconta che un bambino447 è rimasto due giorni in ospedale perché un passeggero dello

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