Per allungare la vita, accorciamo i pasti.
BENJAMIN FRANKLIN
Nella primavera del 1843 il grande ingegnere britannico Isambard Kingdom Brunel si concesse una rara pausa dal lavoro – all’epoca stava progettando la SS Great Britain, la nave più imponente e complessa fino ad allora mai uscita da un tavolo da disegno – per divertire i figli con un trucchetto di magia. Purtroppo le cose non andarono come previsto. Durante l’intrattenimento239 Brunel ingoiò per errore una moneta d’oro che aveva nascosto sotto la lingua.
Possiamo ben immaginare l’espressione di sorpresa sul suo viso, seguita dallo sgomento e forse dal terrore mentre la sentiva scivolare in gola e conficcarsi alla base della trachea. Non fu particolarmente doloroso, ma gli causò disagio e apprensione, dal momento che se si fosse mossa appena avrebbe potuto soffocarlo.
Nei giorni seguenti amici, colleghi, parenti e medici tentarono ogni rimedio possibile: gli assestarono violente
pacche sulla schiena, lo capovolsero tenendolo dalle caviglie (era esile e non fu difficile) e scuotendolo con vigore, ma fu tutto inutile. Da bravo ingegnere qual era, Brunel progettò un marchingegno da cui poteva appendersi a testa in giù e ondeggiare disegnando ampi archi con la speranza che, insieme, il moto e la forza di gravità facessero cadere la moneta. Fu inutile anche questo.
In tutto il paese non si parlava d’altro. Piovvero consigli da ogni dove, persino dall’estero, eppure ogni tentativo fallì. Infine l’eminente medico Sir Benjamin Brodie decise di provare con la tracheotomia, un intervento rischioso e sgradevole. Senza anestesia – che in Gran Bretagna sarebbe stata usata per la prima volta tre anni dopo – Brodie gli praticò un’incisione in gola e cercò di estrarre la moneta inserendo un lungo forcipe nelle vie aeree, ma siccome Brunel non riusciva a respirare e tossiva con violenza l’intervento fu sospeso.
Il 16 maggio, a più di un mese e mezzo dall’inizio del calvario, l’ingegnere si fece legare di nuovo al suo marchingegno ondeggiante e, quasi subito, la moneta cadde rotolando sul pavimento.
Poco dopo il famoso storico Thomas Babington Macaulay irruppe nell’Athenaeum Club di Pall Mall gridando: «È uscita!» e tutti capirono all’istante a cosa si riferisse.
Brunel non risentì mai di alcuna complicanza dovuta all’incidente e, a quanto si sa, non si mise mai più una moneta in bocca. Questo racconto serve a sottolineare, se mai ce ne fosse bisogno, che la bocca è un posto pericoloso.
Gli esseri umani muoiono per soffocamento più facilmente di qualunque altro mammifero. Si può anzi affermare a ragione che siamo stati fatti per strozzarci; una caratteristica piuttosto strana con cui affrontare la vita, con o senza moneta nella trachea.
Se ci guardiamo in bocca vedremo parecchie cose familiari:
lingua, denti, gengive, quel buco nero in fondo presidiato dal curioso lembo di carne noto come ugola. Dietro le quinte, però, ci sono molti altri elementi importantissimi che la maggior parte di noi non ha mai sentito nominare:
muscolo palatoglosso, muscolo genioioideo, vallecola, elevatore del velo palatino. Come il resto della testa, anche la bocca è un regno complesso e misterioso.
Si pensi alle tonsille. Le conosciamo tutti, ma quanti di noi sanno a cosa servono? A dire il vero nessuno lo sa. Sono due rilievi carnosi che stanno di sentinella in fondo ai lati della gola (nel XIX secolo erano spesso chiamate amigdale, anche se il nome veniva già usato per certe strutture del cervello). Le adenoidi sono simili, ma nascoste nella cavità nasale. Sono tutti linfonodi (di solito chiamati erroneamente ghiandole linfatiche) e fanno parte del sistema immunitario anche se, va detto, non sono poi così fondamentali. Spesso in adolescenza le adenoidi si riducono fino a sparire, e sia loro sia le tonsille possono essere rimosse apparentemente senza alterare il benessere complessivo.240 Le tonsille rientrano in una struttura più solenne detta anello linfatico del Waldeyer in onore dell’anatomista tedesco Heinrich Wilhelm Gottfried von Waldeyer-Hartz (1836-1921), noto per aver coniato il termine «cromosoma» nel 1888 e «neurone» nel 1891. In campo anatomico era onnipresente. Fu anche il primo a postulare,241 nel lontano 1870, che le donne nascono con tutti gli ovuli già formati e pronti all’uso.
In termini scientifici l’azione di ingoiare242 si chiama deglutizione e avviene all’incirca duemila volte al giorno, in media ogni trenta secondi. Ed è una faccenda molto più complicata di quanto si possa immaginare. Quando ingoiamo, gli alimenti non si limitano a cadere nello stomaco grazie alla forza di gravità, ma vi sono spinti da contrazioni muscolari. Ecco perché, volendo, si può
mangiare e bere a testa in giù. Ingoiare è più complesso di quanto si pensi. Per far passare un solo boccone dalle labbra allo stomaco possono essere coinvolti cinquanta muscoli, che devono scattare sull’attenti seguendo l’ordine esatto per garantire che qualsiasi cosa venga spedita nell’apparato digerente non imbocchi il canale sbagliato, conficcandosi nelle vie aeree come la moneta di Brunel.
La complessità della deglutizione umana è dovuta soprattutto al fatto che, rispetto a quella di altri primati, la nostra laringe si trova più in basso. Quando siamo diventati bipedi, il collo si è allungato e raddrizzato per favorire la posizione eretta, spostandosi più al centro sotto il cranio e non verso la parte posteriore come nelle scimmie. Per puro caso questi cambiamenti ci hanno conferito una maggiore attitudine al linguaggio, ma hanno anche aumentato il pericolo di «ostruzione tracheale», per dirlo con Daniel Lieberman. Unici fra tutti i mammiferi, usiamo lo stesso tunnel per aria e cibo. Fra noi e la catastrofe c’è solo una piccola struttura chiamata epiglottide, una sorta di botola per la gola che si apre quando respiriamo e si chiude quando deglutiamo, mandando l’aria in una direzione e il cibo in un’altra, anche se ogni tanto sbaglia con conseguenze disastrose.
Se ci si pensa è straordinario che quando ce ne stiamo seduti a cena a divertirci un mondo – mangiando, chiacchierando, ridendo, respirando, sorseggiando vino – i nostri custodi nasofaringei mandino tutto nel posto giusto, nelle due direzioni, senza richiederci neppure un istante di concentrazione. È un vero talento. E c’è di più. Mentre chiacchieriamo spensierati di lavoro, di scuola o del prezzo del cavolo riccio, il cervello monitora con attenzione non solo gusto e freschezza degli alimenti, ma anche massa e consistenza. Se ci permette di mandare giù facilmente un grosso bolo «umido» (un’ostrica o un cucchiaio di gelato), esige una masticazione più meticolosa in caso di bocconi
piccoli, secchi e aguzzi, tipo frutta secca e semi, che potrebbero non passare in maniera altrettanto fluida.
Nel frattempo, lungi dal contribuire a questo procedimento cruciale, noi continuiamo a buttar giù vino rosso destabilizzando gli apparati interni e compromettendo non poco le funzioni cerebrali. Dire che il corpo è il nostro servo sofferente è un eufemismo.
Se si pensa alla precisione necessaria e alla quantità di volte che nell’arco di una vita il nostro corpo è messo a dura prova, è un miracolo che non ci si strozzi più spesso.
Secondo fonti ufficiali, ogni anno muoiono per soffocamento da cibo circa cinquemila persone negli Stati Uniti e duecento in Gran Bretagna: strano come in base a questi dati, tenendo conto della popolazione, gli americani abbiano il quintuplo delle probabilità di strozzarsi mentre mangiano rispetto ai britannici.
Lo trovo improbabile persino conoscendo con quanto gusto banchettano i miei connazionali. È più verosimile che tante di queste morti siano erroneamente attribuite a infarto. Nutrendo lo stesso sospetto, tanti anni fa il coroner della Florida Robert Haugen esaminò alcune persone dichiarate morte d’infarto al ristorante e, senza grandi difficoltà, scoprì che nove si erano strozzate. In un articolo pubblicato sul Journal of the American Medical Association suggerì che la morte per soffocamento era più comune di quanto si pensasse. Ricorrendo persino alle stime più caute, però, oggi in America il soffocamento è la quarta243 causa di morte accidentale.
La famosa soluzione a una crisi di soffocamento è la manovra di Heimlich, dal nome del dottor Henry Judah Heimlich (1920-2016), il chirurgo di New York che la inventò negli anni Settanta. La manovra consiste nell’abbracciare il malcapitato da dietro e stringere più volte al di sopra dell’ombelico fino a eliminare l’ostruzione, un po’ come quando si stappa una bottiglia.
Henry Heimlich era una sorta di showman.244 Promuoveva la procedura e se stesso senza tregua.
Partecipò al Tonight Show con Johnny Carson, vendeva poster e magliette e parlava a gruppi di persone grandi e piccoli in tutto il paese. Si vantava che il suo metodo aveva salvato la vita a Ronald Reagan, a Cher, al sindaco di New York Ed Koch e ad altre centinaia di migliaia di persone.
Non fu sempre benvoluto da chi gli stava vicino. Un ex collega lo definì «bugiardo e ladro», e uno dei figli lo accusò di «cinquant’anni di raggiri assortiti». Heimlich compromise gravemente la propria reputazione sostenendo la malarioterapia, che prevedeva la somministrazione di basse dosi di malaria per curare cancro, malattia di Lyme, AIDS e tanto altro. La cura non era corroborata da nessuno studio scientifico. Nel 2006, forse anche perché Heimlich era diventato motivo d’imbarazzo, la Croce Rossa americana cambiò nome alla manovra in «compressioni addominali».
Heimlich è morto nel 2016, a novantasei anni. Poco prima ha salvato la vita a una degente della casa di riposo di cui era ospite con la sua manovra, l’unica volta che ebbe modo di usarla. O forse no. In seguito si è saputo che sosteneva di aver salvato una persona anche in un’altra occasione. A quanto pare manovrava la verità come fosse un boccone intrappolato.
La maggiore autorità di tutti i tempi in fatto di soffocamento è stato quasi certamente un burbero medico americano dal nome pomposo, Chevalier Quixote Jackson, che visse dal 1865 al 1958. Jackson fu definito (dalla Society of Thoracic Surgeons) «il padre della broncoesofagoscopia americana» e lo fu davvero, anche se va detto che non c’erano tanti altri contendenti. La sua specialità – la sua ossessione, anzi – erano gli oggetti
ingoiati o inalati. In una carriera che durò quasi settantacinque anni, Jackson si specializzò nella progettazione di strumenti e nel perfezionamento di metodi per recuperare oggetti ingoiati o inalati per errore, riunendo una straordinaria collezione di 2374 pezzi.245 Oggi la Chevalier Jackson Foreign Body Collection è ospitata in una teca nel seminterrato del Mütter Museum del College of Physicians di Philadelphia, in Pennsylvania.
Ogni oggetto è attentamente catalogato per età e sesso del malcapitato, tipologia, organo in cui era conficcato, cioè trachea, laringe, esofago, bronchi, stomaco, cavità pleurica o altro, se l’esito fu fatale o meno e con cosa fu rimosso. Si pensa sia la più grande raccolta al mondo di cose assurde mai ingoiate per sbaglio o per motivi bizzarri. Fra i tanti oggetti recuperati da Jackson dal gargarozzo di vivi e morti figurano un orologio, un crocifisso con i grani del rosario, un binocolo in miniatura, un piccolo lucchetto, una tromba giocattolo, un intero spiedino di carne, una chiave per radiatore, diversi cucchiai, una fiche da poker e un medaglione con su scritto (forse con un pizzico d’ironia)
«Portami con te e ti porterò fortuna».
Jackson era un signore freddo e senza amici,246 ma sembra che sotto sotto avesse un po’ di umanità. Nella sua autobiografia racconta di come, in un’occasione, avesse rimosso dalla gola di una bambina «una massa grigiastra, forse cibo, forse tessuto morto», che le impediva di deglutire da alcuni giorni, e chiese all’assistente di darle un bicchiere d’acqua. La bambina bevve un sorso con prudenza e quando vide che andò giù ne bevve un altro.
«Poi ha passato con delicatezza il bicchiere all’infermiera, mi ha preso la mano e l’ha baciata.» Jackson ne parla come dell’unico episodio della sua vita che sembra averlo toccato.
Negli oltre settant’anni di attività salvò centinaia di vite umane e fornì quella formazione che ha permesso ad altri
di salvarne innumerevoli. Fosse stato un tantino più cordiale con pazienti e colleghi, oggi sarebbe senza dubbio più noto.
Non vi sarà di certo sfuggito che la bocca è una cavità umida e luccicante. Questo perché al suo interno ci sono dodici ghiandole salivari. Un adulto secerne247 poco meno di un litro e mezzo di saliva al giorno. Secondo una stima, ne produciamo circa trentamila litri248 in tutta la vita (l’equivalente di duecento vasche da bagno).
La saliva è quasi interamente composta di acqua. Solo una piccolissima porzione, lo 0,5 per cento, è composta di utili enzimi: le proteine, che accelerano le reazioni chimiche. Fra queste, le amilasi e la ptialina, che cominciano a scomporre gli zuccheri presenti nei carboidrati mentre sono ancora in bocca. Provate a masticare un alimento ricco di amido come il pane o le patate un po’ più a lungo del normale e noterete un sapore dolciastro. Purtroppo anche ai batteri della nostra bocca piace il dolce, per cui divorano gli zuccheri liberati ed espellono acidi, che ci scavano i denti causando le carie.
Altri enzimi, specie il lisozima – scoperto da Alexander Fleming prima che incappasse nella penicillina – attaccano molti agenti patogeni ma, ahimè, non quelli che cariano i denti. Ci troviamo nell’alquanto strana situazione in cui non solo siamo incapaci di uccidere i batteri che ci procurano tutti questi guai, ma addirittura li alimentiamo.
Recentemente si è scoperto che la saliva contiene anche un efficace analgesico chiamato opiorfina,249 sei volte più potente della morfina, seppure in dosi modeste, motivo per cui non siamo sempre strafatti né al riparo dal dolore quando ci mordiamo la guancia o ci scottiamo la lingua.
Essendo assai diluita non si capisce perché ci sia. Fra l’altro è così discreta da essere stata notata solo nel 2006.
Mentre dormiamo produciamo pochissima saliva,250 motivo per cui i microbi proliferano e ci fanno svegliare con l’alito pesante. Lavarsi i denti prima di andare a letto è un’ottima idea, perché riduce il numero di batteri con cui si va a dormire. Se vi siete chiesti come mai nessuno vuole baciarvi appena vi svegliate, la ragione è che le esalazioni possono contenere fino a 150 composti chimici diversi,251 non tutti freschi e al gusto di menta quanto si spera. Fra le sostanze più diffuse che contribuiscono a creare l’alito mattutino ci sono il metantiolo (che sa di cavolo stantio), l’acido solfidrico (uova marce), il solfuro dimetile (alghe viscide), la dimetilammina e la trimetilammina (pesce maleodorante) e la cadaverina, che non necessita spiegazioni.
Negli anni Venti il professor Joseph Appleton della University of Pennsylvania School of Dental Medicine fu il primo a studiare le colonie batteriche della bocca scoprendo che, in termini microbici, lingua, denti e gengive sono continenti distinti, ciascuno con le sue colonie di microorganismi. Ci sono addirittura differenze fra quelle che vivono sulla parte esposta di un dente e quelle presenti sotto la linea gengivale. Nella bocca umana sono state trovate in tutto circa mille specie di batteri,252 anche se in un preciso momento è improbabile averne più di duecento.
Oltre a essere una casa ospitale per i germi, la bocca è anche un’ottima tappa intermedia per quelli che sono diretti altrove. Paul Dawson, docente di scienze alimentari della Clemson University in Carolina del Sud, si è fatto un nome studiando i modi in cui la gente diffonde i batteri da sé ad altre superfici, come quando ci si passa una bottiglia d’acqua o si intingono le patatine in una salsa. Nello studio denominato Bacterial Transfer Associated With Blowing Out Candles on a Birthday Cake (Trasferimento di batteri associato a spegnimento di candeline su torta di compleanno) il team di Dawson ha scoperto che spegnere
le candeline253 aumenta la presenza dei batteri sulla torta fino al 1400 per cento, un vero orrore, ma non molto peggio delle varie esposizioni a cui siamo sottoposti nella normale vita quotidiana. Nel mondo esistono innumerevoli germi che vagano o strisciano invisibili sulle superfici, fra cui moltissime di quelle che ci infiliamo in bocca e quasi tutte quelle che tocchiamo.
Gli elementi più noti della bocca sono ovviamente denti e lingua. I nostri denti sono creazioni formidabili, e anche comodamente versatili. Ce ne sono di tre varietà: creste (appuntiti), cuspidi (simili a pale) e solchi (a metà fra gli altri due tipi). All’esterno c’è lo smalto, la sostanza più dura del corpo umano, ma è uno strato davvero sottile, e se danneggiato non si può sostituire. Ecco perché se si hanno carie bisogna andare dal dentista. Sotto lo smalto c’è uno strato molto più spesso di un altro tessuto mineralizzato chiamato dentina, che invece può rinnovarsi. Al centro c’è la polpa, che contiene terminazioni nervose e vasi sanguigni. Essendo così duri, i denti sono stati definiti
«fossili preconfezionati».254 Quando tutto il resto è già diventato polvere o si è dissolto, l’ultima traccia fisica della nostra esistenza sulla Terra potrebbe essere un molare fossilizzato.
Siamo in grado di mordere con una certa forza, che si misura in unità dette newton (in onore della seconda legge del moto di Isaac Newton, non della ferocia della sua bocca): in media un maschio adulto255 arriva a circa quattrocento newton di forza, il che è davvero notevole, anche se non è niente in confronto a quella di un orango, che può mordere con il quintuplo del vigore. Se però pensate a quanto siamo bravi a rompere un cubetto di ghiaccio (provate a farlo con il pugno e vedete che succede), e a quanto poco spazio occupano i cinque muscoli
della mascella, apprezzerete l’abilità della masticazione umana.
La lingua è un muscolo diversissimo dagli altri. Tanto per cominciare è davvero molto sensibile – è in grado di stanare con destrezza un corpo estraneo finito per sbaglio in un boccone, tipo un frammento di guscio d’uovo o un granello di sabbia – ed è coinvolta in attività vitali come l’articolazione del linguaggio e la degustazione del cibo.
Quando mangiamo, la lingua guizza come un ospite ansioso durante una festa, controllando il sapore e la forma di ogni boccone per prepararsi a spedirlo in gola. Come tutti sanno è ricoperta dalle gemme gustative, gruppetti di recettori del gusto che si trovano nelle papille. Hanno tre forme diverse – circumvallate (o arrotondate), fungiformi (a forma di fungo) e foliate (a forma di foglia) – e sono fra le cellule del corpo che si rigenerano con maggiore frequenza,256 ogni dieci giorni.
Per anni persino i libri di testo hanno riportato la mappa della lingua, con i sapori di base che occupavano una zona ben definita: il dolce sulla punta, l’aspro ai lati, l’amaro in fondo. In realtà è una falsa credenza che risale al manuale257 del 1942 di un certo Edwin G. Boring, psicologo di Harvard che fraintese l’articolo scritto da un ricercatore tedesco quarant’anni prima. In totale abbiamo circa diecimila gemme gustative distribuite perlopiù intorno alla lingua, perché al centro non ce ne sono. Altre gemme si trovano sul palato e poco oltre, motivo per cui sentiamo l’amaro di alcuni medicinali quando li ingoiamo.
Ma il corpo ha recettori del gusto anche nell’intestino e in gola258 (per individuare sostanze avariate o tossiche), che però non sono collegati al cervello come quelli della lingua, e per un buon motivo: meglio non sentire ciò che sente lo stomaco. I recettori del gusto sono stati inoltre trovati259 nel cuore, nei polmoni e persino nei testicoli, ma
nessuno sa a cosa servano. Siccome però inviano al pancreas segnali per regolare la produzione insulinica, è possibile che siano collegati a questo.
Si pensa che i recettori del gusto si siano evoluti per due scopi pratici: aiutarci a trovare alimenti ricchi di energia (come la frutta dolce e matura) ed evitare quelli pericolosi.
Va però detto che non sempre ci riescono alla perfezione. Il capitano James Cook, il grande esploratore britannico, lo imparò a sue spese nel 1774 durante la seconda epica traversata del Pacifico. Un membro dell’equipaggio catturò un pesce carnoso e sconosciuto. Fu cucinato e offerto con orgoglio al capitano e a due ufficiali, che però avevano già
Va però detto che non sempre ci riescono alla perfezione. Il capitano James Cook, il grande esploratore britannico, lo imparò a sue spese nel 1774 durante la seconda epica traversata del Pacifico. Un membro dell’equipaggio catturò un pesce carnoso e sconosciuto. Fu cucinato e offerto con orgoglio al capitano e a due ufficiali, che però avevano già