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Gli aspetti sociologici in tema di consumer behaviour e più in particolare le dinamiche dialettiche che si articolano tra i membri delle brand communities, sono divenuti negli ultimi anni argomento di crescente interesse per la ricerca. Dal momento che i precedenti contributi hanno enfatizzato gli aspetti positivi della partecipazione alle comunità di marca in termini di impegno, coinvolgimento e partecipazione, vogliamo adesso esplorare in quale modo la fedeltà contribuisca a creare immagini negative non solo a proposito delle marche rivali ma anche dei relativi fruitori, con conseguenti risvolti in termini di comunicazione.

Studi passati hanno approfondito gli effetti della partecipazione alle comunità di marca in termini di brand loyalty. Schouten e McAlexander (1995) hanno esaminato in particolare come l’adesione alla subcultura “HOG” ( the Harley-Davidson Owners Group) incoraggiasse i membri a collegare il proprio spirito biker al brand americano. Nella fattispecie, se da un lato il comune senso di appartenenza si traduceva in spinte affettive e atteggiamenti di mutuo soccorso verso gli altri membri della community, dall’altro contribuiva al sorgere di spiacevoli discriminazioni nei confronti di altre marche di motociclette, in particolar modo quelle asiatiche (Schouten e McAlexander 1995).

Muniz e Schau (2001), studiando le comunità di marca Macintosh e Saab, hanno posto particolare attenzione al modo in cui tali consumatori si impegnassero a creare e perpetuare il loro culto sulla base di atteggiamenti di responsabilità morale, rituali e tradizioni a sostegno di un forte spirito comune di appartenenza. Molte volte, come nel caso

Apple Newton, tale devozione assumeva tratti talmente estremi da rasentare il fervore

religioso alimentando di conseguenza immagini negative nei confronti di quei gruppi cosiddetti “diversi”. È qui che nasce il cosiddetto “dark side” delle comunità di marca.

Ricerche passate, soprattutto di natura qualitativa, hanno enfatizzato l’attitudine delle

brand communities a plasmare e definire le proprie identità in opposizione a marche rivali.

A tal proposito, Muniz e O’Guinn (2001), sottolineano come la cosiddetta oppositional

brand loyalty rappresenti un’essenziale componente sociale per la perpetuazione della

coscienza di gruppo. Attraverso la continua opposizione alle marche concorrenti, i membri di una comunità di marca, derivano un’importantissima espressione della loro esperienza comune così come un’importante componente del significato di marca. I consumatori tendono in pratica ad enfatizzare ciò che il marchio non rappresenta cercando di allontanarsi

il più possibile da coloro che non rispecchiano i propri valori. Englis e Solomon (1997) e Hogg e Savolainen (1997) hanno osservato come i consumatori scelgano le proprie marche per indicare contemporaneamente la loro inclusione e la loro esclusione da determinati stili di vita. Wilk (1996) ad esempio scoprì che a Belize le persone sono solite definire la propria identità attraverso l’elusione di marche e prodotti piuttosto che tramite l’acquisto degli stessi. Anche in questo frangente, come caso classico di oppositinal brand loyalty, ricorriamo alla Mac community. I cosiddetti Apples sono infatti capaci di trarre l’essenza della propria coscienza collettiva dalla fiera opposizione al colosso Microsoft ed ai suoi utenti. L’esistenza di un comune nemico contro il quale unirsi, rende di fatto questa comunità di marca molto forte e coesa. La causa della discordia, che col tempo ha alimentato l’intensa rivalità, è essenzialmente riconducibile al successo guadagnato da

Microsoft sulle spalle di Macitonsh, in particolare attraverso l’impiego di procedure

presumibilmente copiate dal relativo sistema operativo. Non è affatto cosa rara trovare all’interno delle pagine Web riservate agli utenti Mac , esplicite contestazioni e polemiche sul conto di Microsoft. Una di esse riporta ad esempio un’immagine diabolica di Bill Gates con la scritta “Save us from the Gates of Hell”, oppure “ In a world without walls and fences

who needs Windows and Gates..?”. Altri invece, con affermazioni del tipo “Win95 = Mac 1984”, stigmatizzano l’enorme successo di Windows osservando come tutto ciò che lo ha

reso famoso sia stato indebitamente sottratto a Macintosh. Lo stesso Apple Newton rappresenta un interessante esempio in tema di oppositional brand loyalty: coloro che infatti utilizzavano il vecchio marchingegno Macintosh, successivamente ritirato dal commercio, si distinguevano con orgoglio dagli utenti del più comune palmare rivendicando la propria originalità e competenza tecnologica superiore.

Insomma, nel caso Macintosh, riscontriamo esattamente le tipiche caratteristiche della comunità minacciata: coesione, ansia e rabbia estrema nei confronti della concorrenza.

In misura simile, gli appassionati di vetture Saab condividono una forte avversione nei confronti di Volvo. Sebbene non si presentino gli estremi del caso precedente, le due marche di auto sono spesso confuse per il fatto di essere fabbricate in Svezia, prerogativa che conferisce ad entrambe la qualità di scurezza. I Saabisti tuttavia non accettano di buon cuore tale associazione ed anzi rivendicano il proprio fascino in contrapposizione alla banalità tipica delle automobili Volvo. Anche qui è piuttosto facile trovare pagine web dedicate a questo tipo di rivalità; in molte di esse ad esempio viene ricordato come Saab non si limiti a fabbricare soltanto automobili ma anche aeroplani e jet, il che, differentemente da

Volvo che invece produce trattori, conferisce al marchio ulteriore motivo di prestigio ed eleganza.

Escalas e Bettman (2005) sottolineano come i consumatori siano soliti instaurare intensi legami con quelle marche portatrici di un’immagine affine al proprio gruppo di appartenenza, maturando allo stesso tempo una forte avversione verso quei brand giudicati “lontani” dal loro modo di essere. Lo studio ci mostra in pratica il cosiddetto “dark side” delle brand communities per cui i rispettivi membri sono espressamente in grado di provare sentimenti negativi non solo verso quelle persone con le quali non vogliono essere identificati, ma anche verso quei gruppi ai quali non desiderano essere associati. Un esempio molto interessante a tal proposito è quello della rivalità tra i Mac e gli IBM users. Consideriamo il seguente spunto: “A quel tempo era sin troppo chiaro: gli utenti IBM erano

quelli eleganti che votavano per Reagan, gli Apples erano invece coloro che indossavano jeans e non votavano Reagan”. Anche l’ideologia politica costituisce un fattore

fondamentale nelle scelte di consumo: gli utenti IBM erano in un modo, quelli Apple in un altro ed entrambi facevano molta attenzione a mantenere una propria identità conforme ad una certa filosofia. Nella fattispecie i Mac users mostravano con particolare orgoglio una sorta di apertura mentale che li portava ad essere diversi e lontani dal mainstream.

Henri Tajfel, noto promotore dalla social identification theory, definisce l’identificazione sociale come la “consapevolezza del singolo individuo di appartenere a

determinati raggruppamenti sociali unitamente a valori ed emozioni per lui importanti”

(Tajfel 1972, p.292 come citato in Hogg e Terry 2000). Nel momento in cui si accetta un’identità sociale, si è soliti reputarci migliori rispetto agli altri al di fuori del nostro gruppo. Allo stesso modo, una volta identificatosi parte integrante di una brand community, il consumatore sarà spinto a ricercare informazioni positive sul proprio gruppo e negative sugli altri, dando vita al cosiddetto fenomeno dell’ “inter-group stereotyping”. Mediante tale processo si tende in pratica ad accentuare gli aspetti negativi degli outsiders, molto spesso considerati ostili concorrenti. La minaccia esercitata da una marca nei confronti di un’altra potrebbe tuttavia non essere immediatamente percepibile, ciononostante i consumatori sanno perfettamente che i brand più potenti cercano solitamente di eliminare dal mercato quelli più deboli.

Schnake e Ruscher (1998) affermano che la condivisione e la perpetuazione di convinzioni negative sul conto dei gruppi estranei, giochino un ruolo fondamentale per la costruzione di un gruppo coeso e caratterizzato da un’identità positiva. Studi successivi (Ruscher e Hammer, 1996; Schnake e Ruscher, 198; Beal, Ruscher e Schnake 2001) hanno

confermato come gli in-groups siano fortemente motivati a creare immagini negative sugli

out-groups, le quali a loro volta vengono approvate e rinnovate all’interno della comunità di

marca. Per riuscire a descrivere in maniera più chiara e comprensibile le dinamiche attraverso le quali si concretizzano le dialettiche interne alle brand communities, abbiamo ritenuto opportuno prendere in prestito un termine dal mondo dello sport, ovverosia il trash

talk. Usiamo il concetto di trash talk per sottolinearne la differenza rispetto al negative world of mouth, il passaparola negativo più comunemente usato negli ambienti del

marketing. Negli studi passati quest’ultimo stava ad indicare il risultato di esperienze negative col marchio derivanti dal suo acquisto, dal suo fallimento o dal carente rapporto prestazione – aspettativa; fattori dunque altamente controllabili. Utilizziamo invece adesso il termine trash talk in riferimento ad un processo fondamentalmente sociologico ed incontrollabile secondo il quale i membri di una comunità di marca esprimono propria la disapprovazione a proposito di un brand con il quale né hanno avuto precedenti esperienze né hanno intenzione di averne in futuro.

Anche la componente emotiva è in grado di giocare un ruolo fondamentale all’interno di tali dialettiche. Spesso, le inimicizie che si vengono a creare fra le comunità di marca finiscono per materializzarsi in sentimenti particolarmente duri e contrastanti. In particolare lo schadenfreude rappresenta una tipologia di ostilità sociale definita in termini di malizioso piacere che un individuo o un gruppo prova nell’assistere alle disgrazie di un “nemico influente” (Feather e Sherman 2002; Leach, Spears, Brandscombe e Doosje 2003). Nonostante si rivolga essenzialmente verso gruppi o soggetti esterni, Leach et al (2003) hanno osservato come tale fenomeno sia essenzialmente il prodotto dell’identità di ciascun membro della community. Il tipico esempio che ci viene proposto è quello dei tifosi più esperti della nazionale di calcio olandese i quali, rispetto ai supporters meno interessati, traggono maggior “godimento” dalle sconfitte della nazionale tedesca. In altre parole è la passione discrezionale di ciascun membro a giocare un ruolo decisivo per l’intensità ed il livello di schadenfreude.

La figura 5 ci fornisce lo schema completo del “lato oscuro” della brand community: tutte le relazioni sono considerate positive tranne il caso in cui è espressamente indicato. Il modello comincia, come abbiamo già visto, con la costruzione dell’identificazione sociale. Grazie ai contributi empirici di Hickman e Ward (2007), possiamo dedurre che quei consumatori che si identificano con maggiore enfasi e coinvolgimento nella brand

community, sono quelli che con maggiore probabilità creeranno stereotipi negativi sulle

competenti (Fiske, Cuddy, Glick, Xu, 2002). Il passo successivo è quello del trash talking esterno: i più coinvolti si impegneranno con maggiore enfasi a denigrare i propri rivali, coloro i quali si reputano più competenti ed esperti rispetto ai concorrenti, risulteranno invece meno aggressivi e combattivi per il fatto di percepire in misura assai minore le minacce alla propria identità. Alla stessa maniera i membri più passionali saranno quelli che sperimenteranno maggiormente lo schadenfreude finale.