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IL GIAPPONE: L’EMERGERE DELLA DEPRESSIONE

La nuova destinazione sembra essere il Giappone, benché il paese non fosse mai stato preso in considerazione né da Tiziano né da Angela. Prima di trasferirsi definitivamente nella nuova sede passa qualche mese in Giappone, tentando senza successo di imparare la lingua e di entrare in confidenza con gli le abitudini quotidiane dei giapponesi; tuttavia il corso di lingua si rivela fallimentare e la comprensione dei costumi e dello stile di vita dei giapponesi non è affatto immediato.

Il più vivo punto di interesse è legato all’orrore atomico, un evento unico al mondo, subito dal paese durante la Seconda Guerra Mondiale: gli interessa conoscere e analizzare in che modo quella sconvolgente esperienza abbia cambiato i giapponesi e gettato in loro i semi di una nuova, vera, cultura pacifista.

Finalmente, nel settembre 1985 si trasferisce definitivamente a Tokyo con tutta la famiglia in un grazioso ed ordinato appartamento al primo piano, da cui si gode di una bella vista sul monte Fuji. La prima reazione al nuovo ambiente è di un continuo confronto con la Cina, della sua immanente grandezza (“Era grande la Muraglia, era grande la sua dimensione, era grande la sua tragedia, erano grandi le sue carestie, erano grandi i suoi assassinii; la cultura era grande, lo spirito degli uomini era grande. Tutto in Cina era grande!”1) e la dimensione del microscopico, del dettaglio, della precisione alla base della cultura giapponese, che si esprime anche con un grande ricorso a macchinari elettronici atti a sostituire i contatti umani, come le odiate macchinette per i biglietti del tram, per la distribuzione di bibite e i grandi centri commerciali che interagiscono con fredde voci metalliche.

A causa del profondo amore per la Cina e i suoi abitanti ha un blocco verso la lingua giapponese che non riuscirà mai a imparare, aggiungendo così il problema linguistico a una già difficile comunicazione con una popolazione con cui non riesce ad entrare in sintonia. Terzani afferma di voler diventare giapponese, di volersi “giapponizzare”, ma di non esserne in grado e descrive questo suo soggiorno come “un grande fallimento, forse l’unico della mia carriera giornalistica”2

Il suo compito nella nuova sede è indagare e scrivere della rampante economia giapponese, impegnata nel confronto con l’Occidente per l’egemonia economica e produttiva, di un paese piccolo ma che possiede mezzi di produzione e di sviluppo all’avanguardia, e che preoccupa non poco le affermate potenze mondiali. Lo sviluppo economico è un tema per cui Terzani non ha mai

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Ivi, pp. 253-234.

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dimostrato un particolare interesse, se non in modo collaterale, e difatti anche in questo caso la maggioranza dei suoi articoli fanno riferimento a tematiche sociali e culturali più che economico- finanziarie, benché sia obbligato a trovare un compromesso tra le sue inclinazioni e le esigenze di “Der Spiegel” e “Repubblica”.

L’atmosfera giapponese si fa spesso troppo opprimente, così passa dei lunghi periodi nelle Filippine, documentando la rivolta di Cory d’Aquino contro il regime dittatoriale di Marcos.

I primi articoli sul Giappone nascono dallo sconcerto di Terzani riguardo allo stile di vita della maggior parte dei giapponesi medi, i così detti salari-men, ossia il gran numero degli impiegati statali o nelle grandi aziende del paese; costoro abitano in case piccolissime ed essenziali, lavorano molte ore al giorno, con orari inconcepibili e molte ore di straordinario richieste dall’azienda e non sempre retribuite, hanno diritto a pochi giorni di ferire, che solitamente usano quando sono impossibilitati ad andare al lavoro per malattia. La dedizione al lavoro è assoluta, costituisce l’onore del singolo, al punto tale che vi sono diversi casi di suicidio dovuti a fallimenti o ritardi sul lavoro, l’impiego determina la piramide sociale: quando due giapponesi si presentano, il primo gesto che compiono è lo scambio dei biglietti da visita, solo così infatti è possibile sapere con certezza chi dovrà mostrare maggior rispetto all’altro.

Lo scrittore non riesce a stringere alcun tipo di rapporto di amicizia o anche solo di simpatia, poiché ogni persona non si presenta come tale, ma come il ruolo che svolge nella società, e quindi tutti i rapporti sono limitati all’ambito lavorativo.

Questo alienante stile di vita diurno fa da contrappeso alle abitudini notturne dei salari-men giapponesi, che vengono descritte in modo grottesco tra il disprezzo e l’ironia: ci sono molti e devianti intrattenimenti erotici (come i love hotels, i vari lupanari arredati con temi diversi in base a gusti e necessità, i cinema che trasmettono esclusivamente pornografia) ed altri intrattenimenti, sicuramente più innocenti, ma che testimoniano il profondo disagio sociale e psicologico delle persone. Sono molto diffusi infatti i bar karaoke, dove, dopo essersi esercitati per mesi, i giapponesi hanno il loro momento di gloria sulle note delle canzone che preferiscono e vengono così applauditi dai colleghi. Molto diffusi sono i rinomati bar salotti, ampi ed eleganti spazi, arredati come i tipici salotti buoni occidentali, dove i giapponesi si ritrovano a bere the e parlare in compagnia, permettendosi così il lusso di sognare ambienti e uno status sociale che nessuno di loro potrà mai raggiungere.

La caratteristica fondamentale di questi luoghi la cui funzione è quella di “vendere sogni”3 e che non sono mai avulsi dal contesto lavorativo: gli avventori di questi locali sono tutti colleghi,

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impiegati nelle grandi aziende, che al termine dell’orario lavorativo si ritrovano per trascorrere insieme il loro yoka, il tempo libero, quello dedicato alla svago; tutti gli intrattenimenti sono pagati dalle aziende, che ritengono fondamentale concedere del divertimento ai propri impiegati, specialmente se il divertimento ha la conseguenza di rafforzare i legami interpersonali tra colleghi e le fedeltà verso l’azienda. Il frequentare bar e locali notturni diventa quindi parte della routine giornaliera e la casa si trasforma in una sorta di dormitorio in cui si trascorrono solo poche ore. Le conseguenze di queste abitudini sono una grande penalizzazione del piano familiare (secondo un’indagine un impiegato passa con la sua famiglia mai più di un’ora al giorno) e una grande diffusione dell’alcolismo.

L’analisi di questi elementi porta Terzani a descrivere la società giapponese come una macchinario, nel quale non è importante il singolo individuo, ma il gruppo

Lungo questa strada dei sogni il giapponese si diverte? È felice? Siamo noi occidentali, più che i giapponesi, a porci queste domande, per l’uomo medio di questo paese, oggi, il fatto stesso di sognare è una sorta di dovere, un modo per ricaricarsi e rendere di più come rotella dell’ingranaggio della macchina produttiva. Il fatto è che, anche nell’evadere, il giapponese non è mai solo, non è mai un individuo, ma immancabilmente il membro di un gruppo.4

Terzani fa risalire questa auto percezione del giapponese medio come parte del gruppo alla formazione scolastica, già a partire dalla primissima infanzia. A suo dire la causa del successo del Giappone non è da ricercare nelle grandi fabbriche, ma nelle scuole, da dove ogni anno escono milioni di diplomati e laureati, affidabili, ben preparati e assolutamente standardizzati.

Molti bambini iniziano gli studi a tre anni e si trovano subito immersi in una realtà che tende a controllare e uniformare ogni dettaglio della vita degli studenti: la foggia e le misure della divisa scolastica sono definite nel minimo dettaglio (anche il numero dei buchi per i lacci delle scarpe e fisso in tutte le scuole giapponesi) e ogni tentativo di differenziarsi, soprattutto a livello intellettuale, è causa di duro biasimo, al punto tale da spingere a prendere in considerazione il suicidio. Le punizioni sono dure, molto spesso anche fisiche.

L’essere diplomato o laureato in un istituto rinomato è la garanzia per un lavoro di prestigio, perciò fin dall’asilo le migliori scuole adottato severi criteri di ammissione. È necessario aver frequentato un asilo elitario per poter essere iscritto a un’eccellente scuola dell’infanzia, che a sua volta permetterà l’iscrizione presso un’ottima scuola media, e così via fino all’università. Se un ragazzo non è ammesso in una buona scuola elementare non ha possibilità di trovare un buon lavoro. Esistono quindi scuole parallele di sostegno, che con corsi pomeridiani e serali garantiscono un’istruzione tale da permettere l’accesso a qualsiasi istituto superiore e universitario, con il

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risultato che tutti gli studenti appaiono a Terzani continuamente sotto pressione, esauriti dalle lunghe ore di studio.

Negli anni di studio ai ragazzi e alla ragazze non viene insegnato a valorizzare la personalità e le diverse inclinazioni, ma ad essere un individuo omologato ad altri, adatto a vivere nella società; tutto ciò viene incoraggiato dallo Stato, che continua a produrre e a distribuire un libretto intitolato

L’immagine del giapponese desiderato, dal 1964. In questa funzionale ma fredda efficienza a cui

tutti i giovani giapponesi vengono educati Terzani riconosce il punto di forza, ma anche e soprattutto la maggior debolezza della società giapponese, che non riesce a incoraggiare la creatività e l’originalità, producendo ottima macchinari ma pessimi esseri umani.

Oltre alla grande delusione riguardo allo spirito umani si aggiunge quella per lo sviluppo del concetto di pacifismo in seguito al bombardamento atomico: la speranza che la tragedia atomica potesse essere rielaborata in un vero e profondo concetto applicato di pacifismo è presto delusa in seguito a una visita alla città di Hiroshima; la parola pace risuona vuota e abusata, scritta su tutte le pareti e i cartelloni, è la base su cui si fonda un museo che, testimoniando l’orrore dell’attacco nel minimo dettaglio, tralascia però gli interventi aggressivi e violenti del Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale. In fin dei conti, Terzani ritiene che il bombardamento sia usato come copertura per i crimini di guerra giapponesi e come espediente per far passare il Giappone come una nazione vittima dell’ultima guerra.

Analizzando la via di sviluppo intrapresa dal Giappone percepisce una maledizione che sembra gravare sul mondo intero: in questo clima pesante, circondato da persone infelici e inconsapevoli di esserlo, dove sembra di non poter avere nemmeno un’ora di felicità in anni di permanenza, la sua stabilità emotiva viene pericolosamente minata ed inizia a sentirsi sempre più depresso e svogliato. Si sente intimorito da questo popolo che, a suo parere, dietro la maschera dell’estrema gentilezza e rispetto nasconde in realtà una profonda crudeltà e freddezza.

Già nel luglio del 1895 nei suoi diari, recentemente curati dalla moglie Angela e pubblicati per Longaresi, esprime i primi dubbi sul modello sociale giapponese

Imparare dal Giappone? Nemmeno a pensarci. Anzi dobbiamo conoscerlo bene per non averci niente da imparare, per averlo da temere. Educhiamo i nostri figli alla fantasia, alla libertà e fregheremo i giapponesi, ma soprattutto faremo delle generazioni felici.5

Il punto è che non dobbiamo diventare giapponesi noi stessi per tener testa a loro. Al contrario, dobbiamo trovare un modo, qualunque esso sia, di difendere il nostro modo di vivere, dobbiamo difenderci dalla giapponesità e dobbiamo difendere i nostri week end, dobbiamo lasciare che la gente vada a sciare, anzi che scii di più, che la domenica dipinga, cha faccia cattedrali, che scriva poesie.6

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T. TERZANI, Un’idea di destino, a cura di A. Loreti, Milano, Longanesi, 2014, p. 77.

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Tra il 1989 i il 1990 la situazione psicologica di Terzani precipita: l’assoluta mancanza di rispetto verso l’ambiente, l’esasperata automazione e la percezione di una grande mancanza di umanità lo spingono in una depressione clinica profonda, che si ripresenterà più volte nel corso della sua vita e che sconfiggerà definitivamente soltanto negli ultimi anni di vita.

Tra il 1988 e il 1989 è testimone dell’agonia e poi della morte dell’imperatore Hirohito, sul trono dal 1926.

Si prende qualche mese di pausa dal lavoro, dedicandosi alle letture e al relax, come un pellegrino d’altri tempi, si rasa completamente e si prepara all’ultima cocente delusione riguardo alla tradizione e alla spiritualità giapponese: la scalata del monte Fuji. Dall’esperienza ricava un pungente ma triste articolo su come un così importante simbolo religioso e spirituale sia stato devastato dal turismo di massa e dall’impiego della tecnologia. L’ombra della depressione sembra affievolirsi, ma non è scomparsa.

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