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LA PORTA PROIBITA: L’ATTENZIONE PER LA DESCRIZIONE

LE OPERE E L’EVOLUZIONE DELLO STILE

II.3. LA PORTA PROIBITA: L’ATTENZIONE PER LA DESCRIZIONE

Dopo l’esperienza vietnamita, Terzani si confronta con la Cina, meta amata e desiderata fin dalla gioventù, quando soggiornò per un anno a New York studiando la lingua e la cultura di un paese che rappresenta, a questa altezza, ancora un grande mito per il comunismo italiano. È uno dei primi giornalisti stranieri ad essere ammesso stabilmente nel paese, grazie anche al suo lavoro in Vietnam, che lo accreditava come un simpatizzante della politica comunista. Risiede a Pechino con la famiglia per quattro anni, scrivendo un gran numero di articoli, principalmente per “Der Spiegel”, ma anche per qualche testata italiana, articoli che andranno poi a costituire il libro La porta

proibita, pubblicato nel 1985. Terzani si trasferisce in Cina nel 1980, quattro anni dopo la morte di

Mao, avvenuta nel settembre 1976, durante il governo di Deng Xiaoping, un generale ottantenne salito saldamente al potere dopo aver eliminato i naturali successori di Mao, tramite la condanna inflitta al “gruppo dei quattro”, ritenuti colpevoli di tutti i crimini commessi durante la rivoluzione culturale.

Deng si è trovato a gestire un paese in gravissima difficoltà economica, con la masse contadine scontente, i cittadini impauriti e disorientati, una classe intellettuale inesistente e un’economia fortemente rallentata. Per tentare di stabilizzare la situazione politica, Deng si allontana dal sogno utopico maoista di una nuova società, composta da uomini nuovi, giusta ed egualitaria e, pur mantenendo saldo il principio ideologico marxista-leninista alla base del governo, apre la Cina verso un modello economico di tipo occidentale. Iniziano a sorgere aziende private, il commercio è più libero, la cultura meno vincolata al partito e sono ammessi, in piccolo numero i primi stranieri all’interno del paese. Terzani è uno di questi pochi fortunati e si trova a ritrarre una Cina ormai ben lontana dal mito comunista in cui sperava, disorientata perché privata di tutta la cultura tradizionale distrutta dalla politica culturale di Mao e impoverita a livello economico. Come egli stesso afferma nell’introduzione a La porta proibita

La vecchia Cina è morta, la nuova Cina di Mao non è mai nata e quella di Deng, avendo rinunciato ad essere un universo a sé, lotta ora per diventare, al massimo, una copia del resto del mondo.1

La Cina si presenta quindi come un sogno infranto e un’antica e preziosa cultura distrutta agli occhi di un sempre più deluso e disilluso Terzani, che, dopo vent’anni di tentativi, riesce finalmente a recarsi nel luogo tanto studiato e sognato all’età di quarant’anni.

Il governo comunista e la rivoluzione culturale hanno modificato l’assetto urbanistico di tutte le maggiori città, ma in modo particolare di Pechino, che con la sua struttura concentrica, le

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alte mura e la città proibita al centro, era lo specchio del potere imperiale. Per rendere l’antica città più in linea con le nuove esigenze politiche e per farne un simbolo della rivoluzione, gran parte delle sue costruzioni furono distrutte: i templi furono riconverti in fabbriche o in sedi per i vari organi di governo, subendo spesso distruzioni o sconvolgimenti, i monaci vennero cacciati, le mura furono abbattute, le eleganti abitazioni con giardino saccheggiate e occupate da più famiglie, gli archi di trionfo in legno colorato che adornavano le vie principali rimossi, i negozi tradizionali con le loro porte colorate chiusi, demoliti e sostituiti da grattacieli in cemento di unità abitative. Quando Terzani arriva a Pechino tutto ciò è già avvenuto e solo le persone non più giovani ricordano l’assetto originario della città. Egli si impegna in una lunga e approfondita indagine sulle quantità e l’entità delle distruzioni, basandosi su testimonianze e consultando volumi antecedenti a Mao. Ne trae una serie di articoli in cui descrive con precisione (e disperazione) il cambio dell’assetto cittadino. Vediamo ora il primo di questa lunga serie.

C’era una volta, in un paese lontano, una bellissima città. Aveva ricchi palazzi, splendidi templi, coloratissimi archi di trionfo, magici giardini e migliaia di armoniose case grigie […] tutto attorno per ventisei chilometri aveva alte mura, imponenti. Le mura avevano magnifiche porte, a guardia delle quali stavano dei leoni di pietra. Era una città sacra, costruita sul bordo di un deserto, secondo un progetto che era venuto direttamente dal cielo.2

L’apertura di questo lungo articolo, il primo che racconta degli stravolgimenti urbanistici di Pechino, ha un avvio favolistico da Mille e una notte, presentando, secondo il tradizionale incipit delle favole popolari, la descrizione di una città magica, voluta dagli dei, ricca di decorazioni straordinarie e colorate. L’apertura magica, romantica, solletica il gusto orientalista del lettore, che dopo aver letto sui problemi economici della Cina gioisce nel ritrovare una dimensione più etnica e fantastica del paese. Gli elementi descrittivi, accostati uno all’altro senza eccessivi approfondimenti descrittivi, come il genere della favola richiede, presentano, seppur coperti da un velo di magia, tutta una serie di strutture architettoniche presenti a Pechino, confinate ormai nell’ambito della memoria e della storia, come il classicissimo incipit “c’era una volta” sottolinea. Questo attacco poetico non è una lode o una descrizione fedele, è un’elegia funebre, una sorta di epitaffio composto da un giornalista che diventa un nostalgico poeta di una città che anche per lui è leggendaria, non avendola mai vista prima del passaggio di Mao, ma di cui ha letto molto nei libri antecedenti al suo governo.

Si instaura, con le prime parole del testo, un costante dialogo tra il passato e la sua distruzione, tra il “c’era una volta” del passato poetico e scomparso e la divorante attualità con i suoi mutamenti. Tutto ciò che c’era di bello e magico viene distrutto nel testo, come è stato distrutto

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nella realtà, da dure e secche frasi e dalla pesante anafora, che hanno per l’immaginario del lettore lo stesso effetto che devono aver avuto i colpi di martello e piccone per gli antichi templi.

Non è più così. Pechino muore. Le mura sono scomparse, le porte sono scomparse, gli archi sono scomparsi. Scomparsa è la maggioranza dei templi, dei palazzi, dei giardini […].3

L’andamento descrittivo e narrativo della favola, dolce e fluido, ricco di immagini spettacolari, si scontra con la terrificante realtà, rappresentata sulla pagina da una scrittura altrettanto dura. Il primo parallelismo tra passato e presente, iniziato nell’incipit, ma portato a compimento solo ora, diventa il filo rosso che tiene unito tutto l’articolo, sempre basato su due forze divergenti che devono però coesistere, con effetto distruttivo, in una stessa città ed in una stessa cultura: una lunga serie di proposizioni disgiuntive, introdotte da “mentre”, sottolineano come le due principali tendenze presenti in città durante la permanenza di Terzani non riescano ad integrarsi e risultino dannose: da un lato vi è la volontà di alcuni urbanisti ed architetti di salvare ciò che di storico è rimasto in città, dall’altro la rivoluzione, anche dopo la morte di Mao rivendica lo spazio per i suoi operai e impiegati.

Un ultimo breve ma conciso parallelismo chiarisce la situazione della città: “Dove un tempo c’erano armonia e perfezione, ci sono confusione e caos.”4 Il lessico usato per riferirsi al passato è tutto di ispirazione divina: si parla di perfezione, di una geometria celeste, di equilibri divini, frutto di una saggezza che si contrappone durante alla lunga serie di errori del presente. L’utilizzo della parola “errore” in modo ripetitivo e martellante riprende i tratti della prosa distruttiva cha abbiamo analizzato poco sopra e assume dei connotati fortemente polemici ed accusatori, creando uno sfogo alla rabbia, malcelata fin dall’inizio

Errori. Errori, dei dieci anni di rivoluzione culturale che hanno mandato […] a spezzare, bruciare, distruggere tutto ciò che era vecchio, ora si dice: “Sono stati un errore”. […] Fu un errore distruggere le mura di Pechino, un errore buttar giù le porte della città, gli archi di trionfo, i templi. Dal 1949 una serie ininterrotta di errori ha fatto di questa città, un tempo magnifica, un agglomerato senza fascino di baracche.5

Il tono polemico ed accusatorio di queste righe rappresenta l’aspra critica che Terzani muove al piano urbanistico del partito comunista, prima di iniziare una lunga e dettagliata lista, frutto della sua indagine, di tutti i monumenti che sono stati distrutti. La parola “errore”, che probabilmente è stata la spiegazione udita più volte dalle autorità riguardo ai molti scempi artistici, risuona qui accusatoria, e rimarca all’interno del discorso la lunga serie delle distruzioni. Ogni elemento

3Ibidem. 4 Ibidem. 5 Ivi, p. 665.

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elencato nell’incipit come proprio della “città magica” qui viene riportato in vita solo per essere nuovamente demolito.

Errore su errore la vecchia Pechino crolla ancora, e ciò che rimane è solo una desolata visione di baracche che non hanno più nulla da dire. I toni sono forti, i colpi della distruzione espressi mediante le reiterazione della parola “errore”, sempre posta in posizione rilevante o isolata nella frase e attraverso l’accumulo di elementi verbali che rappresentano da un lato i metodi bruti della distruzione (“spezzare, bruciare, distruggere”) e dall’altro, come se si trattasse di una liste delle vittime, tutte le bellezze di cui la città ora e priva (“porte delle città, archi di trionfo, templi”). Questi elementi sono a tre e tre in opposizione e rappresentano la continuazione della struttura logica che costituisce l’articolo: passato e presente sono uno contro l’altro, fin dalla pima parola dell’incipit, e continuano ad contrapporsi in un costante confronto, in cui il passato è raccontato con tono nostalgici, fiabeschi ed è sublimato in una perfezione artistica e spirituale che è persa per sempre. Il presente risulta così una realtà più povera, più dura, che è stata capace di tanta distruzione (come la continua ripetizione di predicati di quel campo semantico ci ricorda) che si oppone al passato, oltre che dal punto di vista dei contenuti anche da quello dello stile, che come abbiamo visto, si fa duro, secco, accusatorio, ben distante dai toni da fiaba e nostalgici che descrivono le bellezze perdute di Pechino.

Terzani, nel corso dei quattro anni che passa in Cina, viaggia il più possibile attraverso il territorio, visitando anche il Tibet e entrando in contatto con le diverse realtà di una nazione ampia e con zone molto differenti l’una dall’altra: passa dalla Manciuria, industrializzata e petrolifera, alla regione fortemente agricola e tradizionalista della Shandong, alla Siberia, a varie città coloniali di fondazione europea. La situazione cinese è molto complessa dal punto di vista del riassetto sociale e politico e soffre ancora delle grandi ferite inferte al sistema economico e culturale dal governo comunista e dalla Rivoluzione Culturale, ma risulta tranquilla e stabile rispetto agli ambienti di guerra in cui Terzani si è mosso finora. In Cina non vi sono battaglie, scontri, evacuazioni o bombardamenti da descrivere, non vi sono ribaltamenti di fronte da un giorno all’altro, colpi di stato o attacchi aerei nel pieno della notte. Non prende parte ad azioni pericolose, a sparatorie, a scene di morte e non vi sono importantissime notizie dell’ultimo secondo da trasmettere al più presto in Europa. La scrittura si adatta così alle nuove condizioni; se da un lato perde l’immediatezza comunicativa che abbiamo visto essere tipica del giornalista che deve trasmettere velocemente quante più notizie possibili, dall’altro assume i connotati di una prosa più descrittiva e più adatta a ritrarre la Cina: si tratta di un paese di antichissime tradizioni, con secoli di storia e cultura che, nonostante i tentativi di obliterarle, vivono ancora nella popolazione e stanno riemergendo. È un

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paese ferito, impaurito, disorientato dalla perdita della tradizione e coinvolto in un sistema di valori politici da cui inizia a disconoscersi.

Per riuscire a comunicare in modo efficace la situazione delle zone che visita, Terzani deve necessariamente tenere conto di questi fattori e ricorrere così a una scrittura che permetta di analizzarli e riportarli in modo chiaro e utile: la raccolta di questi articoli porta la produzione di Terzani al massimo livello di tensione descrittiva e di narratività, che prenderanno forma attraverso stili e tendenze diverse. All’interno del volume è possibile, a mio parere, rintracciare tre principali impronte stilistiche il cui fine è quello di presentare una descrizione accurata e permettere la miglior comprensione possibile della situazione, sempre mantenendo un linguaggio alto e con un occhio di riguardo per la bellezza della scrittura e la godibilità del testo.

La prima tendenza, più sensazionalistica e di ispirazione letteraria, viene impiegata nella descrizione di referenti di particolare interesse storico, valore artistico o bellezza (come nel caso di templi o palazzi, paesaggi, oggetti di antiquariato). Spesso Terzani usa questo linguaggio più alto e raffinato in apertura del pezzo, come per restituire al lettore il meraviglioso colpo d’occhio di cui anch’egli ha goduto oppure per creare un marcato confronto tra le bellezze del passato e la mediocrità del presente, associando a queste aperture liriche descrizioni asciutte e fredde della situazione contemporanea. Il secondo metodo descrittivo, adoperato per raccontare le realtà osservata quotidianamente, che non rappresenta niente di straordinario, è quello più vicino allo stile giornalistico: asciutto, paratattico, molto incline all’accumulo di elementi descrittivi giustapposti e con un lessico molto preciso. La terza e ultima tecnica narrativa è quella che riguarda la ricostruzione di tipo storico: molto spesso, per rendere il discorso più completo o per un approfondimento, Terzani ripercorre la storia di una regione o una particolare tradizione popolare e lo fa con un linguaggio semplice, riassuntivo, ricco di subordinate incidentali ed incisi, allo scopo di rendere il testo più conciso possibile. In molti casi inserisce citazioni testuali tratte dalla propria documentazione libraria o porta esempi artistici o archeologici.

Prenderemo ora in considerazione alcuni brani particolarmente significati tratti da La porta

proibita, in cui queste articolazioni della pratica descrittiva sono ben rappresentate. Iniziamo con le

descrizioni che fanno rifermento a referenti particolarmente degni di nota.

Impressionante. Maestoso. Inquietante. Il Potala, fortezza di pietra, paglia e oro arroccata su una montagna di roccia, sorge, come un incantesimo, nel mezzo della valle di Lhasa, simbolo dell’umano desiderio di arrivare al cielo […]. Da secoli milioni di pellegrini, invasati dalla sola speranza di questa visione, hanno viaggiato per mesi e mesi a piedi pur di vedere questa valle, e molti sono morti prima di raggiungerla. Missionari e venturieri occidentali, che avevano solo sentito parlare di questo mitico posto al di là di inaccessibili montagne di ghiaccio, si misero in cammino affascinati da questa sacra, isolata lontananza volendo svelare l’ultimo mistero dell’oriente.6

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Questa descrizione si riferisce al Palazzo del Potala, residenza del Dalai Lama e importante luogo di culto che Terzani ha occasione di conoscere quando, accompagnato da una scorta di soldati cinesi, visita Lhasa, capitale del Tibet. Il palazzo si presenta come una grande costruzione composita, che troneggia sopra una collina rocciosa in una verde valle.

Il colpo d’occhio che una visione simile rappresenta per un viaggiatore che ha attraversato la valle deve essere talmente impressionante da lasciare senza parole; difatti l’attacco del pezzo è lapidario, come se Terzani non riuscisse a esprimere con un periodo complesso lo stupore di ciò che vede. La triade di aggettivi in apertura si prefigge di comunicare la bellezza e la grandiosità della visione nel modo che più si avvicina alle sensazioni provate da chi ne ha avuto esperienza; il punto fermo tra un aggettivo e l’altro, oltre a rendere omaggio all’importanza e alla maestosità del luogo, rispecchia gli istanti in cui Terzani rimane senza parole, il momento di silenzio e pura contemplazione prima di riuscire a dare una descrizione di ciò che sta vedendo. Mentre i primi due aggettivi seguono lo stesso ordine di significato, e danno una visione di crescente maestosità e imponenza, che ci si aspetterebbe mantenuta anche nell’ultimo elemento della triade, la chiusura di questi tricolon introduce un nuovo elemento qualitativo, che si pone in una sorta di contraddizione con gli elementi precedenti. Lo stupore sembra proseguire anche nella frase che segue, che pur non essendo scandita da punti fermi, risulta spezzata da un uso delle virgole atto a porre in evidenza gli elementi principali. Il primo elemento “il Potala” compreso tra un punto fermo e una virgola, riprende, anche graficamente grazie alla lettera maiuscola, l’andamento del tricolon precedentemente analizzato, ma, essendo seguito da una virgola e non da un punto fermo, si pone in particolare evidenza e si rivela come soggetto del discorso. Il testo continua accostando senza alcun connettivo, se non delle virgole, tutti gli elementi descrittivi che si riferiscono al Potala, dando così a ogni singolo dettaglio il massimo risalto e creando una struttura descrittiva che risulta, anche dal punto di vista formale, all’altezza del soggetto.

Lo squilibrio presente negli aggettivi della prima triade, dove la corrente ascensionale viene interrotta dall’utilizzo dell’ultimo elemento in contraddizione con quelli precedenti, continua con il successivo sintagma di tre elementi dove viene descritto il palazzo. Senza fare alcun accenno preciso alla struttura architettonica, alla posizione o all’aspetto della costruzione, la sua immagine viene suggerita dalle peculiarità dei materiali con cui è costruito: “pietra, paglia e oro”. Anche qui la valenza degli aggettivi non è compatta, e tra la forza della pietra e l’opulenza dell’oro emerge un elemento discordante, la paglia, che con il suo differenziarsi si pone sullo stesso piano dell’inquietante”, creando un velo d’ombra sullo straordinario palazzo.

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La componente della pietra risulta dominante anche nella conformazione naturale, e grazie al gioco di parole che richiama la roccia, la sensazione finale è di forza e resistenza e di un certo misticismo che, introdotto dalla parola “incantesimo”, funge in qualche modo da spiegazione degli elementi che abbiamo visto essere in opposizione. Oltre alla maestosità e alla forza della costruzione è esplicitata la seconda grande caratteristica del palazzo del Potala: la sua natura religiosa e magica, creata dalle testimonianze di viaggiatori del passato e all’importanza del luogo per una delle religioni più antiche e spirituali del mondo. Da questo punto in poi la dimensione fisica del Potala, suggerita a malapena dai materiali di cui è composto e da qualche aggettivo, viene completamente dimenticata e l’interesse si focalizza sulla sua aura spirituale; il palazzo, posto in mezzo a una meravigliosa natura, viene dipinto come uno dei luoghi spirituali più agognati e famosi al mondo, in una continua tensione tra il divino, irraggiungibile e mistico Potala e gli sforzi degli inadeguati esseri umani per raggiungerlo.

La grandezza dell’“umano desiderio di arrivare al cielo” e il valore spirituale della ricerca sono espressi da varie locuzioni di tempo che permeano il testo e ne suggeriscono il misticismo: una ricerca che dura da secoli, che coinvolge milioni di persone, in viaggi lunghi mesi e a volte mortali sono gli elementi che definiscono le distanze temporali tra la prospettiva umana e quella spirituale, facendo risaltare quest’ultima nella sua immensità. Il fatto che l’aspetto fisico del Potala sia stato appena accennato, contribuisce a incastonarlo sempre più saldamente della dimensione religiosa e di ricerca spirituale, facendolo quasi scomparire come entità fisica, al punto da diventare, nella frase successiva, un’”isolata lontananza” e “l’ultimo mistero d’oriente”: due definizioni che, poeticamente, sottolineano la grande funzione spirituale del luogo, non accennando alla complessa situazione politica del Tibet occupato dalla Cina e all’esilio del Dalai Lama.

Lo stile essenziale, che si regge su un lessico carico di significato più che su un’elaborata struttura discorsiva, con uno scarso uso di verbi e di connettivi, è il mezzo principale per rappresentare questa evanescenza fisica e la grande importanza spirituale, comunicando tramite poche immagini potenti l’importanza del palazzo.

La grandiosità può risiedere anche in paesaggi o esseri umani al di fuori dell’ordinario, che con la loro maestosità, forza o purezza risultano in alcuni casa essere degli elementi del tutto