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Di particolare importanza, ai fini di quest’analisi, è il Made in Italy nel settore dell’alimentare. Sugli alimenti e sul vino non dovrebbero esserci dubbi: se si dice “Made in Italy” significa che quel particolare prodotto è fatto in Italia. Tuttavia, ciò non equivale a dire che ai consumatori interessi realmente conoscere la provenienza del prodotto che mangiano o bevono. Spesso accade che il consumatore non presti particolare attenzione alla provenienza del prodotto o che, comunque, si fidi del supermercato nel quale è solito recarsi. D’altro canto, però, si registra un numero crescente di acquirenti sensibili ai problemi che riguardano la salute propria e della famiglia che s’informano costantemente sulla provenienza e che consumano, ad esempio, prodotti biologici.

Più in generale, si può dire che il settore del Food&Beverage italiano sia ben visto dal grande mercato globale. La cucina italiana, infatti, si colloca tra le più alte posizioni nelle classifiche mondiali sia per la sua storia, sia per la qualità, la varietà, la naturalezza e il gusto degli ingredienti. Se si pensa come l’Italia sia soltanto un piccolo paese confrontata a grandi continenti come la Cina e gli Stati Uniti, la molteplicità dei prodotti agricoli coltivati sul suo territorio ha dello straordinario.

Da sempre cibo e bibite rappresentano in tutto il mondo un vero e proprio consumo di massa. Basti pensare a Nestlé, Unilever, Kraft, Coca-Cola company, McDonald’s, Danone, Heinz che sono soltanto alcuni nomi delle più grandi multinazionali che, non a caso, appartengono al settore del food&beverage. Anche in questo settore, però, l’Italia non è stata in grado di creare imprese globali dotate delle risorse e competenze necessarie a competere sui mercati globali. La difficoltà a pensare e agire globalmente ha portato anzitutto alla cessione di alcuni brand italiani come Buitoni, Motta, Galbani, Perugina, Santa Lucia, Locatelli, Carapelli, San Pellegrino, Berio, …, ai grandi gruppi

globali mantenendo solo Barilla, Ferrero e pochissime altre aziende di proprietà italiana. In secondo luogo, non si è stati capaci di sfruttare pienamente prodotti con un potenziale di successo enorme. Un esempio per tutti è l’espresso italiano noto in tutto il mondo per il gusto e le sue molteplici varianti, dal cappuccino al latte macchiato, al marocchino. Nonostante ciò, è stato l’americano Howard Schultz ad aprire migliaia di Starbucks nel mondo partendo dall’osservazione del format tipicamente italiano del bar. Negli ultimi anni anche Nestlé con Nespresso si sta facendo spazio nel campo del caffè espresso italiano. Lo stesso vale per la pizza. È stata industrializzata da un’azienda americana di fast food, Pizza Hut, e surgelata da Findus di Unilever.

Le aziende italiane hanno dimostrato una forte incapacità di raggiungere il grande pubblico di massa attraverso il marketing classico di origine americana per competere sui mercati globali e imporre i propri marchi. D’altro canto è esistita per molti anni anche un’incompetenza a livello politico e istituzionale di differenziare le proprie eccellenze.

Infatti, la politica agro-alimentare italiana non ha mai sviluppato adeguate strategie di difesa del proprio territorio e dei propri prodotti a differenza degli altri paesi. “Com’è possibile invece che nessuno possa chiamare Champagne uno spumante fatto fuori dalla regione specifica francese?” “O che il Tocai del Friuli, che esiste da sempre, sia stato interdetto all’uso del nome perché l’Ungheria, appena entrata nel mercato comune, ha rivendicato che in una sua regione che si chiama Tokaj si fa un vino completamente diverso da quello italiano?” Col risultato che i produttori italiani hanno dovuto cambiare il nome in Friulano. “E com’è possibile che esista regolarmente in commercio, anche in Italia, un aceto balsamico di Modena fatto a Salisburgo?” (Bucci 2011).

Senza tralasciare, inoltre, che il Made in Italy del cibo e bevande è il caso più colpito dai prodotti falsi. Solo per ricordarne alcuni dei più clamorosi, si cita il caso dell’olio d’oliva e del parmigiano. La contraffazione dei prodotti italiani è un fenomeno che agisce in due direzioni: da un lato, l’utilizzo in Italia di materie prime importate da vendere come italiane e dall’altro, la pirateria internazionale che usa parole, località, immagini, denominazioni italiane per prodotti che non hanno nulla d’italiano.

Negli ultimi anni, qualcosa sembra che fortunatamente stia cambiando. Il fenomeno più rilevante si è manifestato con la nascita dei consumi postmoderni segmentati e con l’affermazione della cultura estetica e sensoriale che hanno innescato reazioni contro

l’appiattimento del gusto, l’omologazione e la massificazione dei consumi. L’Italia si è certamente messa alla guida di questo processo di lento ma progressivo cambiamento. Tra tutti, deve essere citato il movimento Slow Food per forza d’impatto a livello mondiale. In verità, esso ha incontrato e anticipato il mutamento che già dagli anni ottanta stava intervenendo nelle coscienze di molti consumatori alla ricerca del piacere e sapore del cibo e delle bevande, alla tutela della salute, alla difesa della naturalità, dell’etica e dell’ecologia.

Ciò lascia presuppore che per il Made in Italy alimentare, essenzialmente proveniente da aziende di dimensioni medie e piccole, si possano aprire nuove prospettive di crescita e promozione sui mercati globali. Tuttavia, è necessario che le Pmi italiane facciano propria la formula delle vere multinazionali: “think global, act local” (Bucci 2011). La strada è di seguire il trend inverso all’omologazione: pensare a un prodotto locale, differenziato e non imitabile e promuoverlo sui mercati globali seguendo gli esempi di successo delle grandi multinazionali nella gestione dei media e delle modalità di distribuzione.

CAPITOLO III

PROSPETTIVE E STRATEGIE COMPETITIVE PER LE

IMPRESE DEL MADE IN ITALY NEL MERCATO DI

SINGAPORE: IPOTESI, METODOLOGIA E RISULTATI

DELLA RICERCA