L’interesse per il fenomeno del Made in Italy si è notevolmente sviluppato negli ultimi anni. Utilizzata in quotidiani nazionali e internazionali, focus di dibattiti e oggetto di ricerche scientifiche, l’espressione “Made in Italy” ha raggiunto una forte diffusione a indicare in sostanza tutto ciò che è prodotto in Italia.
Che cos’è esattamente il Made in Italy? Secondo una definizione di Fortis del 1985 ulteriormente raffinata negli anni 1996 e 1998, in un volume curato da Ampelio Bucci, Vanni Codeluppi e Mauro Ferraresi "Il Made in Italy" (2011), per Made in Italy è da intendersi “l’insieme dei settori operanti nelle aree moda, arredo-casa, tempo libero, alimentazione e meccanica”. Altri autori definiscono il Made in Italy designando più semplicemente quelle che sono considerate le tre “F” del Made in Italy, in altri termini food, fashion e furniture. Infatti, tessile, abbigliamento e accessori; arredamento e design; alimentari e bevande sono i tre settori primari del Made in Italy.
Il Made in Italy comincia a muovere i primi passi già dagli anni cinquanta con la progressiva emancipazione della moda italiana rispetto al modello parigino affiancato dal graduale sviluppo del settore dell’arredamento e del design. Furono gli anni sessanta, invece, a vedere nascere il Made in Italy del settore alimentare, che certamente operava anche prima, ma che soltanto in quegli anni è stato capace di guadagnare visibilità e riconoscimento.
Ciò che sembra essere davvero interessante riguarda le condizioni sociali e culturali che hanno permesso e stimolato la nascita e la crescita del Made in Italy. Una delle principali ipotesi afferma che nel nostro Paese c’è sempre stata una forte vocazione al fare impresa tale da generare oggi in Italia il tasso d’imprenditorialità più alto d’Europa: 8,8% d’imprese manifatturiere per 1000 abitanti, un risultato che è il doppio di quello francese e addirittura il quadruplo di quello inglese (Censis 2008).
Anche l’atteggiamento di grande apertura verso gli altri popoli che caratterizza da sempre la cultura italiana ha influito positivamente sullo sviluppo di moltissime attività
imprenditoriali volte molto spesso al commercio con l’estero. In generale, si può affermare che gli italiani si sono sempre sentiti “cittadini del mondo”, probabilmente anche perché a casa propria non si sentivano troppo bene, poiché l’Italia è storicamente una realtà molto frammentata e conflittuale. Basti pensare che, come ha sostenuto lo storico Pascal Morand, “le regioni italiane, prima dell’Unità, commerciavano più con altri Paesi che tra di loro” (Bucci 2002). É ancora Morand (Bucci 2002) a sostenere che l’industria italiana non ha mai rinnegato le proprie origini artigianali e non le è stato difficile punture su quello che oggi viene definito l’artigianato industriale. Il primo miracolo economico italiano, nel corso degli anni sessanta, non ha comportato una tendenza verso un’adesione irreversibile al taylorismo. In un certo modo, l’Italia ha saltato questa fase per passare direttamente nell’epoca della differenziazione del prodotto e della flessibilità (Codeluppi 2011).
I benefici derivanti da differenziazione di prodotto e flessibilità sono stati sicuramente molto elevati. Tuttavia, il processo sopra descritto ha avuto come conseguenza inevitabile una reale impossibilità del sistema economico italiano a sviluppare, ad eccezione di rari casi, i grandi gruppi industriali che concorrono oggi sul panorama internazionale, accaparrandosi ingenti quote di mercato e capaci di promuovere a pieno il prodotto nazionale.
Il fenomeno dei distretti è stato senz’altro un altro dei principali stimoli alla nascita e all’affermazione del Made in Italy. La frammentazione e la dispersione della popolazione sul territorio che hanno da sempre caratterizzato lo stato italiano hanno avuto come effetto positivo la nascita dei distretti che rappresentano un modello unico al mondo caratterizzato dalla specializzazione produttiva, dalla flessibilità e dalla collaborazione. Il modello del distretto ha permesso alle piccole aziende italiane di unire i propri sforzi e affrontare la sfida dell’internazionalizzazione.
Inoltre, “l’Italia è particolarmente sensibile a una certa arte del vivere” afferma ancora Morand (Bucci 2002). Questo è probabilmente uno dei fattori più importanti che hanno consentito lo sviluppo del Made in Italy. La società italiana, infatti, ha saputo affermare e condividere un particolare e distinto stile orientato verso l’arte del ben vivere, basato sulla capacità di godere dei piccoli piaceri della vita e verso il gusto alla socializzazione, mettendo al centro il ruolo fondamentale della famiglia.
É pur vero però che il Made in Italy non avrebbe avuto il successo che ha guadagnato se non fosse stato in grado di essere principalmente molto competitivo sul piano della qualità- prezzo dei prodotti offerti sul mercato. Tuttavia, oggi si trova a dover affrontare nuove e difficili sfide. Infatti, l’odierna globalizzazione ha reso più complesse molte delle dinamiche di mercato, costringendo imprese e persone a confrontarsi in ambienti economici più aperti e competitivi.
In definitiva, la situazione del Made in Italy sta notevolmente cambiando. A fronte di tali cambiamenti, la sua risposta non può più essere basata soltanto sul rapporto qualità- prezzo poiché le imprese italiane non sono in grado di competere con i minori costi del lavoro dei paesi orientali e dell’Est Europa, ma dev’essere fondata sulla creazione di “barriere simboliche in grado di attribuire valore ai prodotti, i quali sono in tal modo sottratti a un terreno di competizione sul prezzo che è estremamente rischioso. Per costruire tali barriere, fattori come la qualità e l’innovazione si collocano senz’altro al primo posto” (Codeluppi 2011). Secondo l’imprenditore Diego Dalla Valle, “è la qualità la prima arma del Made in Italy, ma questa da sola non basta. Tutti ci copiano e migliorano il livello qualitativo, perciò l’obiettivo deve essere la continua innovazione, una parola chiave ancor prima della creatività” (Corbellini, Saviolo 2004). L’Italia può anche puntare su quelle che Aldo Bonomi (2006) definisce come “produzioni complesse caratterizzate da varietà, variabilità e indeterminazione e che hanno bisogno pertanto di lavoro creativo, risorse e strutture flessibili e ampie reti di relazioni, di competenze, di conoscenza dei mercati”.