P ARTE S ECONDA
2. Il momento della diagnosi come rottura biografica
La prima parte delle interviste, che aveva lo scopo di introdurre l’argomento oggetto di studio attraverso una narrazione dei pazienti rispetto al vissuto con la propria patologia, ha spesso evidenziato il primo impatto che i malati hanno avuto con la malattia quando ne sono venuti a conoscenza. La prima fase, quella dell’esordio e della comprensione che ci si trova davanti ad una malattia che non si può guarire ma solo gestire (Bury, 2005), è spesso traumatica.
Infatti, il primo problema che i diabetici si trovano ad affrontare è quello relativo al momento della diagnosi che rappresenta per loro un momento di svolta, in cui prevale il senso di smarrimento, in cui si mettono in discussione le abitudini e le certezze fino ad allora acquisite. Si tratta, come direbbe Bury (1982) di una ‘rottura biografica’, sia per chi conosce da vicino la malattia, che per chi non ha idea di cosa voglia dire conviverci:
Da figlia di diabetici mi tenevo sotto controllo (…), mi tenevo in allerta, ecco. Sapevo che prima o dopo sarebbe arrivata molto probabilmente anche per me la diagnosi e quando, a seguito di un controllo (…) la cardiologa che mi ha visitato ha visto le analisi e mi ha detto “ma lo sa che lei è diabetica?”. In quel momento è stato forte l’impatto, perché appunto il ricordo di quello che è stato il diabete all’interno della famiglia mi ha proprio scioccato, pur essendo pronta. (Silvia, 55 anni, DT2, esordio a 54 anni)
Allora il mio esordio di diabete è il ’78, ero in gravidanza al 5° mese. Non ho accettato molto, non conoscevo il diabete, non sapevo cosa fosse, per cui ho fatto molta fatica ad accettarlo (Grazia, 62 anni, DT1, esordio a 21 anni)
Come sostiene Jutel (Jutel, 2009, 2011) il momento della diagnosi può rappresentare la legittimazione di un malessere o di uno o più sintomi precedenti, come nel caso di Agnese che mi ha raccontato di aver scoperto di essere diabetica collegando autonomamente alcuni sintomi percepiti alla malattia:
Il diabete me lo sono autodiagnosticato. Praticamente, all’inizio, sono partita con il fatto di aver scoperto di avere il diabete per il fatto della perdita improvvisa di tanti chili, poi bevevo tantissimo (…) era una sete inspiegabile. Quindi sono andata subito a fare le analisi dalle quali è risultato che effettivamente era il diabete. (Agnese, 29 anni, DT1, esordio a 18 anni)
Nel caso di Simona, invece, i sintomi percepiti hanno creato una preoccupazione che ha condotto ad approfondire la situazione con il suo medico di base:
anzitutto è stato un fulmine a ciel sereno, perché non c’era nessuna familiarità nella mia famiglia con il diabete. Io ho cominciato a perdere peso, dormivo poco la notte, continuavo a bere, avevo sempre fame ma continuavo a dimagrire. Per cui spontaneamente sono andata dal mio medico di famiglia, il quale al mattino alle 8
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mi prova la glicemia e avevo un qualcosa come 600 a stomaco vuoto; quindi, lui stesso ha chiamato l’allora direttrice della diabetologia (…) e sono corsa praticamente in ospedale. (…) purtroppo, si sono accorti che il mio diabete non era di tipo alimentare, ma era di tipo 1, quindi mellito di primo grado, piuttosto scompensato chiaramente perché lo avevano appena diagnosticato. (Simona, 52 anni, DT1, esordio a 37 anni)
Per alcuni degli intervistati, il percorso della diagnosi è stato più complesso, poiché i sintomi percepiti venivano collegati ad altre cause, come nel caso di Daniele:
Beh, sicuramente è stato un risveglio poco piacevole…Tutto perfetto nel senso che si pensava peggio inizialmente, perché la scoperta è stata conseguenza di sintomi anomali rispetto a quello che era la vita quotidiana; quindi, il primo segnale, che è stato quello più allarmante era svegliarmi di notte per fare la pipì, che in tutta la mia vita non era mai capitato…quindi, quella era stata la prima sintomatica che qualcosa non funzionava. Poi, una pesantezza agli occhi importante, un affaticamento, e lì per lì si era pensato allo stress, perché purtroppo lavorativamente [ero] molto in tensione…si era dato colpa a quello. Quando, dopo gli esami, è saltato fuori che il problema era il pancreas che non sprigionava più insulina, da lì è cominciato l’approccio vero e proprio a convivere con la malattia. (Daniele, 50 anni, DT1, esordio a 35 anni)
Nel caso di Francesco, invece, l’esordio è stato asintomatico:
ho iniziato, ho esordito, diciamo, male, non nel senso mio personale, ma perché mi è stata riscontrata una glicemia altissima, quasi 500, e mi è stato detto dopo varie settimane. Durante una visita di lavoro (…) perché noi tutti gli anni [lavorando in una ditta chimica] facciamo uno screening di esami… e avevo fatto l’esame del sangue e tutto… e dopo circa 20 giorni mi chiama il medico che mi aveva questo…che leggendo gli esami, mi diceva “lei si sente bene?”, “mi sento benissimo”, fa “perché qui c’è un’alterazione degli zuccheri nel sangue molto alta!
Ha sete, si sente spossato”…no, io mi sentivo benissimo, però mi ha detto “no, è meglio che venga subito qui che facciamo un altro controllo” e nell’altro controllo avevo 440 di glicemia e mi ha mandato al centro diabetico… (Francesco, 59 anni, DT1, esordio a 20 anni)
Come spiega Agnese, tuttavia, lo stravolgimento di vita dovuto all’intervento della malattia, è traumatico per coloro che hanno avuto l’esordio in età adolescenziale e adulta:
[bisogna] cambiare completamente lo stile di vita. Questa cosa ovviamente non è avvenuta. Cioè, all’inizio non avviene così, non è così meccanico. Sì, anche se la regola è quella, però noi facciamo più fatica ad adattarci quando siamo più grandi. Un conto è che quando sei piccola cresci con quell’educazione, anche alimentare, un conto è che sei già grande e devi subito modificare tutto. Quindi, diciamo che quella è la parte traumatica della malattia. (Agnese, 29 anni, DT1, esordio a 18 anni)
Questo aspetto emerge dalle parole degli intervistati che hanno avuto l’esordio durante l’infanzia:
la diagnosi di diabete io l’ho avuta che ero piccolissimo, non parlavo e non camminavo ancora. Per cui, il tipo di impatto che questa cosa ha avuto su di me…nel senso per me non c’è stata una vita prima del diabete e dopo il diabete. Perché è iniziata subito con il diabete. (Giulio, 43 anni, DT1, esordio a 1 anno)
All’inizio non l’avevo presa troppo duramente perché comunque i miei mi hanno subito insegnato tutto, della serie tutto tranquillo a fare le mie cose con calma, ad essere indipendente. Quindi all’inizio è stato ok perché mi seguivano molto. Cioè, io facevo le insuline da sola e tutto però loro erano lì accanto, se avevo bisogno mi aiutavano, sono cresciuta così (Teresa, 18 anni, DT1, esordio a 8 anni)
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Diciamo che (…), non avendo avuto una vita cosciente e consapevole senza la patologia è stato, diciamo così, una evoluzione… (Enrico, 57 anni, DT1, esordio a 2 anni)
Vi è poi un’altra categoria di persone per le quali la diagnosi ed i primi momenti con la malattia non hanno rappresentato uno stravolgimento per la loro vita. Per loro, rendersi conto di cosa significasse avere la malattia è stato un processo che ha richiesto diverso tempo:
Allora, quando mi è stato diagnosticato il diabete, il cambio è stato relativo, nel senso che il diabete lo conosci negli anni. Quindi, inizialmente si tratta di un cambio di abitudini: iniezioni, prove della glicemia, cambio dell’alimentazione, cambio dell’attività fisica…che sono cambi assolutamente sopportabili e superficiali. Poi, dopo alcuni anni, invece, ti accorgi di cosa significa il diabete di tipo 1 e dello stravolgimento di vita… totale! (Claudia, 46 anni, DT1, esordio a 14 anni)
Allora, mi è stato diagnosticato che avevo 18 anni, quindi ero in quinta superiore, in realtà quando mi è stato diagnosticato io avevo già perso molti chili, ero sempre molto nervosa e stanca, quindi in realtà la presa di coscienza è stata abbastanza graduale e quindi non eccessivamente traumatica. O meglio, non traumatica in un primo impatto, perché poi per assestarmi un attimino sia a livello fisico che psicologico mi ci è voluto almeno un annetto. (Eleonora, 33 anni, DT1, esordio a 18 anni)
Se per il primo gruppo di persone, dunque, la diagnosi di diabete si è rivelata una ‘rottura biografica’, per il secondo gruppo che comprende chi ha ricevuto la diagnosi durante le prime fasi dell’infanzia, si può parlare di ‘continuità biografica’ (S. J. Williams, 2000). Questa osservazione può essere estesa anche a coloro che, pur avendo ricevuto la diagnosi di malattia in età adolescenziale o adulta, non hanno vissuto tale momento come uno stravolgimento, bensì sono arrivati alla consapevolezza della malattia col passare del tempo. Come afferma Williams
(2000), infatti, l’incertezza costante che caratterizza la vita degli individui prevede già un processo di continuo ripensamento della propria identità. È in questo senso che possono essere interpretati i casi in cui l’avvento della malattia per alcune persone non ha rappresentato una vera e propria rottura rispetto alla quotidianità.