I concetti di ‘patient empowerment’ e ‘patient engagement’ sono utilizzati in letteratura perlopiù in senso idealistico e valoriale (Andreassen & Trondsen, 2010); sono trattati come condizioni a cui si dovrebbe giungere o perlomeno mirare e se ne mettono in evidenza gli aspetti positivi che dovrebbero caratterizzare l’esperienza di malattia da parte dei pazienti. In effetti, l’empowerment come «trasferimento di risorse di potere» (Weidenstedt, 2016, p. 1) nei confronti di un soggetto è generalmente impiegato con connotazioni positive in relazione al miglioramento della vita delle persone in svariati ambiti, miglioramento dovuto appunto all’acquisizione di controllo e potere su una determinata condizione di vita. Allo stesso modo, il patient engagement, come piena partecipazione al processo di cura e attivo coinvolgimento nelle decisioni riguardanti la propria salute (Graffigna & Barello, 2017; Lupton, 2013b), è presentato in letteratura come una condizione ideale che permette al paziente di prendere decisioni consapevoli, adottare comportamenti di autocura e migliorare la propria esperienza di malattia, o perlomeno renderla, come si è visto, meno gravosa mediante il raggiungimento della consapevolezza che la malattia cronica è parte non solo della propria quotidianità ma altresì della propria identità. Non solo. I due concetti, adottando una prospettiva macro, sono impiegati nelle narrazioni di redistribuzione in senso democratico del potere che porterebbe quindi ad una riduzione delle disuguaglianze sociali (Andreassen & Trondsen, 2010).
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L’analisi in senso positivo di tali concetti è certamente incoraggiata e supportata da una serie di studi che mostrano come in condizioni di engagement ed empowerment vi siano migliori risultati in termini di soddisfazione personale e salute dei pazienti (cfr. Birnbaum, Lewis, Rosen, & Ranney, 2015; Johnson, 2011; Weidenstedt, 2016). Poco, invece, è stato scritto sugli aspetti critici relativi a tali concetti. Trattandosi infatti di condizioni ideali a cui sarebbe opportuno mirare – non solo per il miglioramento delle condizioni di salute dei pazienti ma anche per una migliore organizzazione dei sistemi sanitari in termini di adeguata e più efficiente allocazione di risorse – si tende a concentrarsi sui benefici che tali condizioni verrebbero ad apportare, sottostimando invece alcune criticità. I concetti di patient empowerment e patient engagement, infatti, sono poco problematizzati e la letteratura sociologica in questo senso risulta ancora povera di contributi critici (Andreassen & Trondsen, 2010; Weidenstedt, 2016).
Occorre precisare che la maggior parte delle riflessioni critiche sono state formulate in relazione al concetto di empowerment. Tuttavia, nonostante, come si è visto, empowerment ed engagement presentino delle peculiarità che li contraddistinguono, in questo paragrafo essi verranno trattati congiuntamente in quanto è possibile applicare alcune considerazioni ad entrambi i concetti: la caratteristica comune, infatti, è quella per cui il risultato di un processo di empowerment e di un processo di engagement è un cittadino capace di prendere decisioni consapevoli in autonomia.
Come si è visto nel paragrafo relativo all’empowerment, alcuni autori pongono l’accento sulla visione individualistica che fa da substrato al concetto, mentre vengono sottostimate le condizioni sociali e strutturali che possono causare discriminazioni, ad esempio, nell’accesso al sistema di cure (Agner & Braun, 2018; J. M. Anderson, 1996; Johnson, 2011). Ancora, è stato notato come gli aspetti identitari relativi all’esperienza di malattia vengano scarsamente considerati nelle riflessioni sull’empowerment (Aujoulat et al., 2008); tale critica, peraltro, viene ricomposta nel modello di engagement proposto da Graffigna e Barello (2017) che include considerazioni relative ad aspetti soggettivo-identitari del malato cronico.
Si è visto, inoltre, che la spinta per una maggiore responsabilizzazione ed autonomia nella gestione della malattia da parte dei pazienti cronici proviene non solo da una sempre crescente preparazione dei pazienti rispetto alla patologia da cui sono affetti, ma anche – a livello istituzionale – dalla necessità di contenimento dei costi che i sistemi sanitari nazionali si trovano a dover gestire. In questo senso, Nancy Tomes (2007) pone in luce un effetto paradossale dell’empowerment. Secondo l’autrice, infatti, rafforzare l’autonomia nel ruolo dei pazienti non si sta dimostrando una soluzione per i problemi della medicina moderna nei paesi sviluppati. In primo luogo, Tomes evidenzia come l’innegabile espansione della sfera decisionale dei pazienti, unitamente all’ottenimento di sempre maggiori tutele, riguardi soprattutto cittadini istruiti e benestanti, ponendo quindi al centro un problema di disuguaglianze. In secondo luogo, la spinta verso una sempre crescente responsabilizzazione avviene proprio in un periodo storico nel quale, paradossalmente, proprio a partire dalla scarsità di risorse economiche riservate alla spesa sanitaria, le scelte di medici e pazienti devono necessariamente essere limitate (Tomes, 2007). Se da un lato, quindi, il paziente è sempre più in grado di prendere scelte consapevoli rispetto alla propria salute, il ventaglio di possibilità entro il quale si inseriscono tali scelte è sempre più scarso, dato il particolare periodo storico-sociale nel quale ci troviamo: i più efficaci trattamenti medici che rappresentano in molti casi la scelta migliore da compiere, sono anche quelli più costosi e vengono quindi esclusi dal ventaglio delle possibilità.
Aujoulat et al. (2008), inoltre, pongono in luce un altro aspetto paradossale relativo al controllo sulla malattia che si tenta di far acquisire ai pazienti cronici. Tale controllo, che mira ad allineare l’ambiente esterno con i desideri del malato, può risultare inefficace laddove si tende a sottostimare l’importanza di situazioni incontrollabili. I pazienti ‘empowered’, in questi casi, si sentono impotenti rispetto alla situazione specifica. Ecco perché gli autori propendono per una definizione di empowerment che consideri la capacità di comprendere quando una situazione richiede che si ‘prenda il controllo’ o, alternativamente, che si ‘perda il controllo’, affrontando serenamente anche le crisi che non dipendono dalla gestione autonoma
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della malattia. Sulla stessa linea, Johnson (2011) inserisce tra le caratteristiche di empowerment ed engagement la capacità del malato di essere «tollerante nei confronti dell’incertezza» (Johnson, 2011, p. 269), mettendo in luce come il controllo sulla malattia sia da affiancare alla consapevolezza di non poter governare ogni aspetto della stessa.
Weidenstadt (2016), attraverso una riflessione teorica che pone l’accento sulla dimensione comunicativa – piuttosto che su quella strutturale – del trasferimento di potere che caratterizza i processi di empowerment, evidenzia alcuni degli effetti negativi che intercorrono nella relazione tra il soggetto che deve cedere parte del suo potere (sotto forma di conoscenze, responsabilità, autonomia, etc.) e il soggetto che la riceve. Il presupposto è che il processo di empowerment, come ogni altra forma di comunicazione, si svolge attraverso una relazione che coinvolge una serie di significati sociali che debbono essere interpretati dai soggetti coinvolti affinché la relazione abbia un buon esito. Si presuppone, inoltre, che l’empowerment di un individuo avvenga attraverso la cessione di potere da parte di un soggetto più potente nei confronti di un soggetto che possiede meno potere. Nel nostro caso, il medico (o il sistema medico) trasmette al paziente una serie di informazioni e di competenze che permettono allo stesso di gestire in autonomia parte della propria condizione di salute. Tale potere, prima del processo di empowerment, è demandato esclusivamente ai professionisti sanitari. Ecco che, quindi, si verifica la perdita di potere (o di sfera d’azione) da parte del medico in favore del paziente cronico. Tuttavia, sostiene l’autrice, il differenziale di potere necessario alla buona riuscita dell’interazione, può provocare nel soggetto più debole una varietà di sentimenti negativi ed una sensazione di inferiorità. Il processo di empowerment, dunque, «può comunicare un atteggiamento paternalistico che può portare a delusione, indebolimento e posizione di svantaggio, piuttosto che di rafforzamento del potere» (Weidenstedt, 2016, p. 8).
Riassumendo, pertanto, le prospettive evidenziate dai diversi autori che hanno adottato un approccio critico dei concetti presi in esame nel presente capitolo, i costi di empowerment ed engagement possono essere considerati di due tipi. Da un lato,
infatti, si parla di costi di natura sociale poiché di fatto la tendenza verso la responsabilizzazione ed il coinvolgimento dell’individuo amplificherebbe sia le disuguaglianze sociali esistenti alla base che una visione neoliberista della salute, attraverso l’estremizzazione dell’individualismo. Dall’altro lato, adottando la prospettiva del paziente, è stato evidenziato come gli effetti paradossali dell’empowerment riguardino il benessere emotivo e la consapevolezza di controllo sulla malattia ma anche, secondo l’approccio comunicativo, la relazione interpersonale tra medico e paziente.