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P ARTE S ECONDA

3. Vissuti di stigma

Una parte importante che riguarda i vissuti con la malattia cronica, come affermano diversi autori (Charmaz, 1983; Scambler, 2009; Scambler & Hopkins, 1986), è quella relativa allo stigma e al discredito che emerge nelle situazioni di interazione con gli altri. Dall’analisi del materiale empirico emerge che questo sentimento si rivela soprattutto durante l’adolescenza, sia che l’esordio sia avvenuto proprio in quel periodo, sia che, invece, l’esordio sia avvenuto in età infantile:

Da piccola sono andata al campo per diabetici dove mi son trovata molto bene, ci spiegavano, ci mettevano a nostro agio (…) e noi dicevamo magari cosa non sapevamo fare o se non ci sentivamo a nostro agio con altre persone. Io infatti, anche ora, non mi sento molto a mio agio… magari sono con i miei amici, prendo molto sottogamba la situazione. Non la sto vivendo molto bene…ho un odio verso la mia malattia (…). (Alice, 19 anni, TD1, esordio a 6 anni).

Essendo io quattordicenne [al momento della diagnosi] non l’ho vissuta benissimo all’inizio, nel senso che tendevo a non dirlo ai miei compagni di scuola e tendevo a non manifestare questo mio limite in pubblico, quindi… poi però adesso dopo 16 anni siamo amici io e il diabete quindi non ho nessun problema a comunicarlo sia a chi viaggia con me o a chi vive con me o ai miei colleghi. (Marta, 30 anni, TD1, esordio a 14 anni).

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È interessante, a proposito dello stigma, riportare una storia raccontata da Grazia, che utilizza termini forti per descrivere il suo rapporto con gli altri in relazione ai primi strumenti disponibili per l’iniezione dell’insulina:

[quando usavo] le siringhe [per l’iniezione dell’insulina] era il tempo dei tossici e mi ricordo che mi vergognavo molto a girare con le siringhe perché abbiamo sempre fatto una vita…non mi sono rinchiusa nella mia patologia… si andava in giro con i bambini insomma e siringarmi con l’insulina, una volta non ho chiuso la porta del bagno, un bambino è entrato e si è spaventato perché stavo facendomi una pera, per dire. Quello era abbastanza scocciante. (Grazia, 62 anni, DT1, esordio a 21 anni)

Nel caso di Grazia si potrebbe parlare di un episodio, con i termini di Charmaz (1983), di ‘mortificazione pubblica’ in quanto lo sconvolgimento e lo shock provato in quella occasione ha fatto sì che utilizzasse, per descriverlo, la metafora del soggetto ‘drogato’. La siringa, infatti, in quegli anni era simbolo di eroina e ciò ha fatto sì che, in quei pochi secondi nei quali il bambino ha visto la scena, si sentisse considerata come una tossicodipendente.

Spesso, invece, il disagio non si manifesta nel confronto con gli altri ma, la vergogna nel rivelare di essere affetti dal diabete, proviene dal disagio personale, quello che Charmaz (1983) definisce discredito proveniente dal malato stesso o che altri autori (Lively & Smith, 2011) classificano come narrazioni di sconfitta o limitazione. Alcuni degli intervistati, infatti, in diverse occasioni hanno scelto di non rivelare di essere malati:

Alle elementari e alle medie era tutto tranquillo, lo sapevano tutti. Alle superiori invece ho avuto un po’ vergogna a dirlo in giro all’inizio, poi quando ho iniziato a stringere un po’ amicizia, ho iniziato anche a scherzarci sopra, a prenderlo anche un po’ più sul ridere, infatti dopo mi hanno accettato comunque tutti, anche se io pensavo di no (Nicoletta, 20 anni, DT1, esordio a 2 anni)

Alle elementari lo sapevano tutti [che fossi diabetica] e mi son trovata benissimo. Alle medie ho avuto un po’…mmm…. “non lo dico a tutti”, solo alcuni lo sapevano o lo sono venuti a scoprire, quindi già lì tendevo più a non dirlo, alle superiori l’hanno scoperto un po’ tutti perché ho fatto un po’ più amicizia e durante la lezione lo faccio [misurazioni e iniezioni di insulina] comunque in classe (Teresa, 18 anni, DT1, esordio a 8 anni)

Lo stesso tema emerge in un post su Facebook nel quale un’utente, chiede per quale motivo non si dovrebbe rivelare la propria malattia agli altri:

Buongiorno a tutti. Stamattina ho un quesito, per quanti vorranno rispondere… Vorrei sapere quanti di voi tengono nascosta la propria malattia alle persone con cui lavorano, studiano, abitano e se si il motivo. Questo per capire i motivi che spingono a non dire...Sono diabetica da 26 anni questa cosa non l'ho mai fatta. Tutti quelli che mi conoscono, anche poco come i genitori dei compagni di classe di mio figlio, lo sanno. Non ho nessun problema a dirlo e a spiegare cos'è ma dato che ho incontrato persone che mi hanno detto che solo i familiari più cari lo sanno vorrei capire i motivi che hanno spinto a non dirlo e quali sono i motivi che ancora spingono a tenerlo nascosto. Grazie a tutti. (utente gruppo FB N. 6, donna)

Il post ha ottenuto 44 commenti, la maggior parte dei quali da parte di utenti che dichiarano di rivelare la propria condizione senza problemi alle persone con cui condividono la quotidianità, in casa o in ambiente lavorativo e, in alcuni casi, all’inizio della conoscenza. Questi utenti mettono in evidenza l’importanza di comunicare la propria malattia poiché chi sta loro vicino dovrebbe essere a conoscenza dei comportamenti da attuare in caso di malore o di crisi ipoglicemica o iperglicemica. Tuttavia, emergono casi in cui gli individui scelgono di non dire di essere malati, per diversi motivi. Eccone alcuni esempi:

Io sono riservata.. non lo dico appena conosco qualcuno, viene fuori poi con il tempo e conoscendo la persona.. non lo tengo nascosto ma aspetto il momento più

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opportuno per parlarne.. sono tipo 1 da 30 anni e non ho mai avuto problemi agendo così.. personalmente mi da un po' fastidio chi è un po' troppo spavaldo.. in 30 anni ho sempre trovato un posto discreto ad esempio per fare insulina e non capisco chi sembra quasi volersi mettere in mostra nel farlo davanti a tutti... ma è un mio parere personale non me ne vogliano quelli che invece fanno così.. (risposta, utente gruppo FB N. 6, donna)

Io diabetica da 25 anni, all'inizio e, non so neanche io il perché non lo dicevo a nessuno, da un bel po’ di anni lo dico...però, non so a voi, quando lo dico mi sembra di notare uno sguardo di commiserazione in alcune persone, paroline dette e non dette, come per dire: poverina. ..é malata. .e non mi piace (risposta, utente gruppo FB N. 6, donna)

Occorre specificare, tuttavia, che la maggior parte degli intervistati – e ciò emerge anche dall’osservazione dei gruppi Facebook – dichiara di gestire la propria malattia senza curarsi del giudizio altrui, anche se capita, come si vedrà, che i sensori indossabili e i microinfusori, poco conosciuti a livello sociale, provochino nell’altro un senso di curiosità per cui i pazienti si trovano a dover spiegare, talvolta senza volerlo, di cosa si tratta.