4 LA GIURISPRUDEN ZA DELLA CORTE DI STRASBURGO
4.1 Il precedente: caso Sulejmanovic c Italia
L’articolo 3 della CEDU, (Convenzione europea diritti dell’uomo), sancisce che: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Tale disposizione sancisce uno dei valori fondamentali di tutte le società democratiche, ed impone allo Stato di assicurare che le condizioni detentive siano compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della pena non sottopongano l’interessato ad un disagio o ad una prova d’intensità superiore al livello di sofferenza che discende, inevitabilmente, dallo stato di privazione della libertà personale, e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano adeguatamente garantite74.
Sotto questo specifico profilo, acquista fondamentale importanza la posizione assunta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in pronunce che richiamano l’Italia al rispetto, in particolar modo, dell’art. 3 Cedu.
Pronunce che però non costituiscono casi isolati, visto che energiche sollecitazioni erano già state rivolte al nostro Paese dal Consiglio d’Europa e dal Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite75.
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In tal senso, Kudla c. Polonia, Grande Chambre, n. 30210/1996. 75
La gravità della situazione emerge dalla stessa circostanza per cui l’Italia è il principale responsabile dell’arretrato della Cedu, con 1.200 ricorsi solo da parte di detenuti. Alla data dell’8 gennaio 2014 la popolazione delle carceri italiane è stata calcolata in 62.400 reclusi, a fronte di una capacità regolamentare degli istituti penitenziari di 47.599 posti: v. Decreto “carceri”: tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e riduzione controllata della popolazione carceraria,Dossier n. 23 dell’Ufficio Documentazione e Studi (5 febbr. 2014), in www.deputatipd.it; nonché i dati riportati in www.osservatorioantigone.it.
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Prendendo specificamente in esame i giudizi condotti a carico del nostro Paese, si nota che la Corte europea aveva già valutato, in precedenza, alla stregua della disposizione richiamata, il particolare aspetto delle violenze perpetrate a danno dei detenuti all’interno delle carceri: il caso Labita c. Italia76, precisamente, si era concluso con una decisione in cui la Corte non aveva ravvisato la sussistenza della violazione dell’art. 3, perché non ne era stata fornita la prova al di là di ogni ragionevole dubbio. Tuttavia in esso i giudici europei avevano ritenuto integrata una violazione dell’art. 2, per la mancanza di un’inchiesta ufficiale sui maltrattamenti denunciati, con l’argomentazione per cui, quando la prova non è presumibilmente esigibile proprio a causa delle condizioni ambientali, spetta alle autorità svolgere le indagini richieste, fornendo i dati che possano costituire oggetto di accertamento e di valutazione da parte dei giudici internazionali stessi. Uno specifico filone giurisprudenziale ha poi interessato la misura dell’isolamento carcerario, laddove si è posta alla Corte europea la questione relativa alla possibilità di qualificare di per sé la condizione di solitary confinement come trattamento inumano: i giudici di Strasburgo rispondono nel senso di reputare tale condizione, benché altamente indesiderabile, giustificata, purché per ragioni eccezionali. In sostanza, si richiede che l’adozione della misura rifletta un corretto un bilanciamento tra le esigenze di sicurezza ed i diritti fondamentali del detenuto.
La sentenza dell’8 gennaio 2013 della Corte di Strasburgo sul caso Torreggiani e altri. c. Italia (di cui parleremo ampiamente nel prossimo paragrafo) tocca invece lo specifico aspetto del sovraffollamento carcerario, ponendosi come seguito alla decisione emessa nel caso Sulejmanovic v. Italia, 16 lug. 2009, in cui si rileva puntuale ed esclusiva violazione dell’art. 3 Cedu.
La rilevanza di “precedente” rivestita dalla pronuncia Sulejmanovic77
sta appunto nella circostanza che nell’argomentazione che sorregge la decisione
76 Corte EDU, 6 apr. 2000, Labita v. Italia.
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viene reputato sufficiente ad integrare una violazione dell’art. 3 Cedu esclusivamente lo spazio a disposizione del detenuto nella cella. Il dato della misura della superficie fruibile dal recluso rileva infatti di per sé per i giudici europei, senza bisogno di provare la conseguente sofferenza subita, sub specie di danno alla salute mentale o fisica: il passaggio innovativo del giudizio consiste perciò nella circostanza che in esso non risultavano denunciati fattori di sofferenza diversi dalla mera proporzione algebrica tra lo spazio a disposizione nella cella ed il numero dei suoi occupanti.
Si supera in tal modo il pregresso orientamento che assegna rilievo all’esiguità dello spazio personale a disposizione del detenuto congiuntamente ad altri fattori di violazione dell’art. 3 Cedu, (quali ad es. la precarietà delle condizioni igieniche, etc.) – il che sembrava presupporre che tale esiguità di per sé non bastasse a determinare il superamento della soglia minima di gravità idonea a ravvisare la violazione convenzionale – e si pongono le basi di una giurisprudenza che poi è andata consolidandosi, alla stregua della quale appare automaticamente qualificabile come trattamento inumano o degradante il fatto che ciascun detenuto disponga di uno spazio personale pari o inferiore precisamente a tre metri quadri (a fronte dei quattro raccomandati dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa).
È escluso che presunte difficoltà di carattere organizzativo o finanziario possano costituire valida giustificazione della violazione in questione. Il rigore e la serietà con cui i giudici europei applicano in giudizio l’art. 3 Cedu trovano riscontro nella sua formulazione, che presenta una caratteristica che vale a contraddistinguerla dalle altre disposizioni della Convenzione: essa infatti, dopo la solenne enunciazione del divieto, non passa ad elencare alcuna ipotesi fattuale o giuridica idonea a legittimarne la deroga da parte degli Stati contraenti. Questa circostanza, che di per sé ricorre frequentemente nel dettato della Carta dei diritti dell’UE (la quale, proprio per fare fronte alla lacuna appena evidenziata, predispone all’art. 52.3 la nota clausola di rinvio orizzontale alla Cedu), è invece alquanto
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insolita nel dettato della Convenzione di Roma, anzi costituisce un vero e proprio unicum.
Con sentenza del 16 luglio 2009, la Cedu, nel caso Sulejmanovic c. Italia (ricorso n. 22635/03), dove il ricorrente si lamentava delle condizioni della propria detenzione nel carcere di Rebibbia a Roma, ha accertato la violazione dell’art. 3 della Convenzione per sovraffollamento carcerario. Il caso è emblematico e di grande attualità in considerazione della grave situazione di sovraffollamento attualmente esistente nelle carceri italiane. La vicenda riguarda un cittadino bosniaco, Izet Sulejmanovic, condannato per furto, ricettazione e falso, il quale viene arrestato il 30 novembre 2002 mentre si trova a Roma per ottenere un permesso di soggiorno. Il Sulejmanovic deve scontare nel complesso un anno, nove mesi e cinque giorni di reclusione e pertanto viene condotto nel carcere di Rebibbia a Roma.
Nel luglio 2003, questo carcere ospitava 1.560 persone nonostante la sua capacità di accoglienza fosse limitata a 1.271 persone.
Il Sulejmanovic viene recluso in diverse celle, tutte di 16,20 metri quadrati, a cui è collegato un locale sanitario di 5,04 metri quadrati. Il Sulejmanovic dall’inizio della sua detenzione fino al 15 aprile 2003 condivide la cella con altre cinque persone. Pertanto ogni detenuto dispone di una superficie media di 2,70 metri quadrati.
Dal 15 aprile al 20 ottobre 2003, il Sulejmanovic viene trasferito in un’altra cella, condivisa con altre quattro persone. Pertanto ogni detenuto dispone di una superficie media di 3,40 metri quadrati.
Durante il suo periodo di detenzione il Sulejmanovic trascorre le giornate nel modo seguente: alle 18:00 chiusura della cella; alle 6:30 distribuzione della prima colazione, consumata, come tutti gli altri pasti, in cella, non esistendo alcun locale di ristorazione; alle 8:30 apertura della cella con la possibilità di uscire nel cortile del penitenziario; alle 10:00 distribuzione del pranzo, alle 10:30 chiusura della cella; alle 13:00 apertura della cella con la possibilità di uscire nel cortile del penitenziario; alle 14:30 chiusura della
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cella; alle 16:00 apertura della cella con la possibilità di circolare nei corridoi; alle 17:30 distribuzione della cena. Ne risulta quindi che il Sulejmanovic rimane rinchiuso in cella quotidianamente per diciotto ore e trenta minuti, circa, a cui si deve aggiungere un’ora per i pasti. Il Sulejmanovic può quindi uscire di cella 4 ore e 30 minuti al giorno.
Il Sulejmanovic chiede inoltre per due volte di poter lavorare durante il suo periodo di detenzione, ma invano. Il 20 ottobre 2003, il Sulejmanovic, dopo aver beneficiato di uno sconto di pena, viene rimesso in libertà. Queste le condizioni descritte dal Sulejmanovic e riportate dalla Cedu nella sentenza. La posizione assunta dalla Corte (La Cedu ha condannato l’Italia a risarcire al ricorrente la somma di 1.000 euro per danni morali) non è stata condivisa dal giudice italiano Zagrebelsky e dal giudice Jocienè, secondo i quali non era stato violato l’art. 3 perché mancava la necessaria gravità generalmente richiesta per ritenere sussistente la commissione di trattamenti disumani e degradanti. In effetti, la giurisprudenza della Corte è ormai assestata, come risulta dalla prassi in materia di art. 41 bis ord. penit., nel senso di ritenere violato l’art. 3 solo se risulta sorpassata una soglia minima di gravità. E’ vero, poi, che lo spazio di detenzione costituisce un elemento di particolare importanza, ma non può essere considerato in modo esclusivo. D’altra parte, nella sentenza Valasinas c. Lituania del 24 luglio 2001, Ricorso n.44558/98, Sentenza Sez.III, la Corte ha ritenuto che non fosse stato violato l’art. 3 nonostante lo spazio a disposizione del detenuto fosse compreso tra 2,70 e 3,20 metri quadrati. Si consideri, inoltre, che per i giudici che hanno espresso l’opinione dissenziente, la soglia minima richiesta non sarebbe stata superata anche per l’età del ricorrente e in ragione del periodo relativamente breve di detenzione. Si intuisce, pertanto, che i gli stessi giudicanti, ai fini dell’accertamento della violazione dell’art. 3, richiedano una valutazione globale della vita carceraria e, tale posizione, ci sembra condivisibile posto che la Corte ha assolto l’Italia per il periodo di detenzione del ricorrente successivamente all’aprile 2003, ritenendo che andassero considerati anche altri elementi come la possibilità di utilizzare
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toilette in modo privato, un’adeguata aerazione, l’accesso alla luce e all’aria naturale, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base. A partire dall’aprile 2003, non è che vi fossero stati cambiamenti particolarmente rilevanti posto che, se è vero che il ricorrente aveva usufruito di più spazio con il trasferimento in altra cella, è pur vero che lo spazio concesso era di poco superiore e certo non eguagliava le dimensioni richieste dal Comitato contro la tortura. Per la Corte, però, in quel periodo, in via generale, la capacità di accoglienza massima del carcere di Rebibbia era stata superata di una quota compresa tra il 14,5% e il 30%.
Questo vuol dire, secondo i giudici europei, che il problema del sovraffollamento “non ha raggiunto, nel periodo in causa, un livello di proporzioni drammatiche”. Tale conclusione è poi motivata alla luce della valutazione dei criteri individuati dalla Corte Europea stessa. Invero, il ricorrente, dal 2003 non aveva più denunciato problemi relativi al riscaldamento o all’uso dei servizi igienici. A ciò, si aggiunga, che il detenuto aveva goduto anche di diversi periodi fuori dalla cella, usando il cortile, alcune strutture ricreative interne al carcere e diversi momenti di contatto con altri detenuti. La Corte Europea, pertanto, traccia una netta linea di demarcazione: nel periodo in cui il detenuto è stato ristretto a vivere in uno spazio di appena 2,70 metri quadrati vi è stata violazione dell’art. 3 che può essere accertata anche senza alcuna altra valutazione; quando, invece, a partire dall’aprile del 2003, la situazione è migliorata – seppure non di molto – la violazione non si è verificata, malgrado non fossero state rispettate le raccomandazioni del Comitato contro la tortura. dei quali in custodia cautelare e ad altri in via di esecuzione definitiva.
In definitiva, riguardo alle caratteristiche dei locali in cui i detenuti devono soggiornare disposte in diritto interno la CEDU richiama l’articolo 6 della legge più volte richiamata n. 354/1975 nonché gli articoli 6 e 7 del Decreto Presidenziale n. 230 del 30 giugno 2000. Per quanto riguarda il piano internazionale, la Cedu fa espresso riferimento all’articolo 18 delle Norme Penitenziarie Europee.
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I principi generali richiamati dalla Cedu nel caso in esame permettono di ripercorrere la giurisprudenza sviluppatasi in materia.
La Cedu, facendo riferimento alle sentenze di Grande Camera nei casi Saadi c. Italia, sentenza del 28 febbraio 2008 e, come anticipato, Labita c. Italia, sentenza del 6 aprile 2000, ricorda innanzitutto che l’art. 3 della Convenzione consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche in quanto proibisce in termini assoluti la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti, quali che siano i comportamenti della vittima.
La Cedu ricorda inoltre che l’articolo 3 della Convenzione impone allo Stato di assicurare che tutti i prigionieri siano detenuti in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione del provvedimento non provochino all’interessato uno sconforto e un malessere di intensità tale da eccedere l’inevitabile livello di sofferenza legato alla detenzione e che, tenuto conto delle necessità pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati in modo adeguato (Kudla c. Polonia, sentenza di Grande Camera del 26 ottobre 2000).
Si ricorda anche che il CPT, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o delle pene inumani o degradanti del Consiglio d’Europa, ha fissato a 7 metri quadrati per persona la superficie minima suggerita per una cella di detenzione (si veda in merito il secondo rapporto generale, CPT/Inf) e che un sovraffollamento carcerale grave pone di per sé un problema sotto il profilo dell’articolo 3 della Convenzione78
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La Cedu stabilisce anche che non può dare la misura, in modo preciso e definitivo, dello spazio personale che deve essere attribuito a ciascun detenuto secondo la Convenzione, dato che questa questione può dipendere da numerosi fattori, come la durata della privazione di libertà, le possibilità di accesso alla passeggiata all’aria aperta o la condizione mentale e fisica del detenuto .
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In certi casi la mancanza di spazio personale per i detenuti era talmente evidente da giustificare, di per sé, la constatazione della violazione dell’articolo 3. In questi casi, in linea di principio, i ricorrenti disponevano individualmente di meno di 3 metri quadrati79.
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(si vedano i casi, tutti contro la Russia, Aleksandr Makarov c. Russia, n. 15217/07, 12 marzo 2009 ; Lind c. Russia, n. 25664/05, 6 dicembre 2007 ; Kantyrev c. Russia, n. 37213/02, , 21 giugno 2007 ; Andreï Frolov c. Russia, n. 205/02, 29 marzo 2007 ; Labzov c. Russia, n. 62208/00, 16 giugno 2005, e Mayzit c. Russia, n. 63378/00, 20 gennaio 2005).
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