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L’ordinamento penitenziario italiano: la Legge n.354/1975

2 LE FONTI DELL’ORDINAMENTO INTERNO ED IL SISTEMA

2.2 L’ordinamento penitenziario italiano: la Legge n.354/1975

Non è oggetto della seguente trattazione l’analisi della Legge n.354/1975 riguardante il Regolamento Penitenziario tutt’oggi in vigore, ma alcuni cenni sono necessari. Il primo regolamento carcerario dell’Italia unificata venne promulgato nel 1891 e si accordava con il Codice penale del 1890 (il c.d. Codice Zanardelli, dal nome del ministro della Giustizia che ne fu l’autore). Nel contesto della revisione di tutta la legislazione voluta dal regime fascista, merita particolare rilievo la promulgazione nel 1931 dei Codici penale e di procedura penale (il c.d. Codice Rocco, dal nome del ministro della Giustizia che effettuò l’opera di riforma). I punti qualificanti del Codice penale erano essenzialmente i seguenti: rigidissima separazione tra il mondo carcerario e la realtà esterna, separazione attuata limitando pesantemente i canali tradizionali di cui si servono i detenuti per comunicare con la società libera (corrispondenza, colloqui, visite di persone estranee all’Istituto, libri, giornali); rigorosa esclusione dal carcere di ogni persona estranea all’Amministrazione; riduzione delle attività consentite in carcere alle tre forme fondamentali di trattamento: pratiche religiose, lavoro, istruzione. A queste attività viene assegnato un inequivocabile ruolo strumentale rispetto all’ordine ed alla disciplina; qualsiasi altra attività che in esse non rientri è vietata e punita; attuazione di un sistema disciplinare di punizioni e di privilegi, che mira ad ottenere un’adesione coatta alle regole del trattamento e ad "atomizzare" i detenuti, impedendo loro qualsiasi presa di coscienza collettiva. Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale la realtà ha una forza di pressione non eludibile: ci sono crimini di guerra da punire, fenomeni di banditismo da arginare; gli anni 1945-1946 registrano gli indici di criminalità più alti di tutto il secolo. La popolazione carceraria si gonfia tumultuosamente e dà vita a rivolte drammatiche; è vigorosa la spinta verso una giustizia sbrigativa e repressiva. Il 1° gennaio 1948 entra in vigore la Costituzione repubblicana; nella sua prima parte, dove vengono sanciti i diritti e i doveri dei cittadini.

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Nel 1975, dopo lunghi anni di studio e di sperimentazioni, viene promulgato l’Ordinamento penitenziario, che si adegua pienamente ai trattati ed alle convenzioni internazionali emanati dopo la fine della seconda guerra mondiale; in particolare la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall’Italia con la Legge 4 agosto 1955, n. 848; le Regole minime per il trattamento dei detenuti, approvate dal I Congresso internazionale dell’ONU per la prevenzione del delitto e il trattamento dei delinquenti il 30 agosto 1955; le Regole minime per il trattamento dei detenuti, approvate dal Consiglio d’Europa il 19 gennaio 1973, che riaffermano i principi già enunciati al citato Congresso dell’ONU.

I valori proclamati dall’Ordinamento del 1975 sono essenzialmente: il riconoscimento dei diritti della persona, anche privata della libertà; il principio della differenziazione fra imputati e condannati; la rieducazione del detenuto attraverso un trattamento individuale costituito da istruzione, da lavoro e da attività culturali, ricreative e sportive; l’introduzione di misure alternative alla carcerazione: semilibertà, affidamento in prova ai Centri di Servizio Sociale per Adulti, carcerazione domiciliare; norme particolari a favore degli alcolisti, dei tossicodipendenti e dei malati in gravi condizioni; il controllo della Magistratura di sorveglianza durante l’esecuzione della pena.

L’Ordinamento ritiene indispensabile alla rieducazione del detenuto la vita comunitaria e di rapporto, per cui si evidenzia esplicitamente il ruolo della famiglia (contatti telefonici, corrispondenza, colloqui, permessi, licenze, destinazione dei detenuti in istituti prossimi alla residenza dei familiari) e della comunità (enti locali, volontariato, società esterna). Successivamente all’entrata in vigore della legge del 1975, viene approvato il 29 aprile 1976, con Decreto del Presidente della Repubblica, il relativo Regolamento di

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esecuzione61, che entra in vigore il 22 giugno 1976: preordinato a dare compiuta e precisa attuazione, nella fase operativa, alle norme dettate dalla legge n. 354/1975, il Regolamento contiene nei suoi 125 articoli una serie di disposizioni che disciplinano in modo concreto ed efficace quelle materie per le quali la legge enuncia le linee essenziali ed i criteri direttivi, subendo pochissime modifiche nel corso degli anni fino ad oggi.

Prima di passare ad analizzare gli articoli che qui interessano, una domanda che ci possiamo fare è la seguente: all’interno di un istituto carcerario si può costruire una relazione umana che possa riprodurre la messe di codici e segnali che all’esterno, nella «vita vera», costituiscono la base di una relazione? Non ci sono risposte a queste domande, produrre domande, e non «rieducare il detenuto, può essere l’obiettivo, ambiziosissimo ma non utopistico, da porsi nel quotidiano, che aiuti l’operatore penitenziario a sentirsi vivo e lo aiuti a far sentire vivi i detenuti.

L’alternativa drammatica è che il carcere diventi definitivamente ed inesorabilmente un «luogo per non vivi», una catena di montaggio di spersonalizzazione di operatori ed «utenti», una macchina infernale che mantiene nello stesso calderone tutti coloro che, volontariamente e non, varcano i cancelli d’ingresso del carcere, ma a chi interessa il carcere? L’opinione pubblica, tranne alcuni rigurgiti pietistici circoscritti nel tempo, è distante e con animo sottomesso si ferma al livello di informazione che le viene somministrato. Viene da dire che i primi ad avere un’idea distorta della dignità umana e del diritto al suo riconoscimento sono proprio gli abitanti della comunità esterna, che accettano di conoscere la verità degli altri, senza pretendere il diritto di avere una propria idea: è il c.d. pregiudizio al contrario, un’immagine precostituita del carcere, alla cui contemplazione garantisti e non garantisti si fermano.

61 DPR 29 aprile 1976, n. 431, Approvazione del regolamento di esecuzione della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà.

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Il carcere, in quanto realtà chiusa, rappresenta il paradigma di quello che nella maggior parte dei casi, oggi, è l’approccio dell’opinione pubblica all’informazione ed alla decodifica della realtà: è importante, quindi, non smettere di chiedersi quali effettive prospettive di crescita vengano offerte oggi ai detenuti delle carceri italiane e che margini di cambiamento si possano ipotizzare, mantenendosi – ove possibile – saldamente ancorati al senso di realtà. All’ingresso in carcere il detenuto, sia che si tratti di imputato che di condannato, viene identificato presso l’ufficio matricola, viene compilata una cartella con i suoi dati ed il recapito del parente che intende sia avvisato in caso di necessità, viene privato di tutti gli oggetti di valore (per un duplice motivo: identificherebbero, di norma, l’uomo «di prestigio» e sarebbero quasi inevitabilmente merce di scambio); gli viene data la «dotazione» (un rotolo di carta igienica, la coperta, la gavetta in metallo, posate, una bustina di shampoo ed una di bagnoschiuma, spazzolino e dentifricio, che spesso non avrà più in sostituzione, perché i fondi sono quasi inesistenti); poi, viene «allocato» in cella, di fatto direttamente con altri detenuti e, tenuto conto dell’attuale collasso dovuto al sovraffollamento, quasi sempre senza separazione tra persone alla prima esperienza di detenzione e “veterani”.

L’ordinamento penitenziario definisce trattamento l’insieme di interventi che l’amministrazione penitenziaria deve garantire perché il detenuto condannato definitivo rielabori in forma critica l’antigiuridicità dei propri comportamenti e che includono tutte le attività e le esperienze che fanno parte della vita del detenuto nel carcere, dal lavoro ai rapporti con la famiglia, dalle attività culturali a quelle ricreative, dall’istruzione all’espressione della libertà religiosa.

Ogni detenuto definitivo, dall’inizio dell’espiazione della pena, deve essere sottoposto all’osservazione scientifica della personalità, un’attività complessa che viene avviata con un colloquio con un educatore del carcere e la compilazione di una scheda, e si deve concludere nell’arco di 9 mesi (12 mesi per i detenuti per reati a sfondo sessuale).

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Nell’arco di questo periodo, il detenuto dovrebbe essere osservato da chiunque abbia contatti con lui, ma soprattutto dall’equipe (costituita dal direttore dell’istituto, dall’educatore, dallo psicologo o criminologo, dall’assistente sociale), che poi, al termine del periodo, si riunirà per confrontarsi sul caso ed elaborare la cosiddetta relazione di sintesi, in cui si delinea il profilo psicologico e comportamentale e si elaborano ipotesi sulle prospettive, cercando di individualizzare il più possibile il programma di trattamento.

La delicatezza e l’importanza di questa riunione di equipe sono evidenti: dalla capacità degli operatori di confrontarsi e di mantenere una visione della situazione libera e svincolata dai pregiudizi, dipende il taglio che si dà alla relazione finale ed al programma di trattamento. Dalla relazione il magistrato di sorveglianza trarrà elementi per le sue valutazioni e decisioni, da essa dipende la possibilità per il detenuto di accedere alle misure alternative ed ai permessi-premio.

L’art. 80 dell’Ordinamento penitenziario, non prevede la presenza obbligatoria dello psicologo nell’attività di osservazione, per cui la valutazione psicologica potrebbe essere affidata anche solo al direttore, all’educatore ed all’assistente sociale.

La presenza dello psicologo sarebbe indispensabile anche in tutti i casi di fragilità emotiva e psicologica dei detenuti, a supporto e sostegno, per prevenire suicidi ed atti di autolesionismo, e nel cosiddetto servizio di accoglienza, un complesso di attività e procedure che dovrebbero fungere da fase cuscinetto all’ingresso del detenuto in carcere, se è alla prima esperienza carceraria o se sono trascorsi molti anni dall’ultima volta.

In realtà, per quanto detto sopra, lo psicologo ed il criminologo sono spesso assenti da tutte queste situazioni, per cui nel caso, ad esempio, di un giovane incensurato appena entrato in carcere o di una persona che riceve una brutta notizia da casa o attraversa un momento di sconforto (perché l’avvocato non gli dà notizie o per le lungaggini processuali), può capitare che le uniche persone con cui il detenuto può colloquiare ed avere un confronto siano la

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polizia penitenziaria, l’educatore e il direttore, sempre che la persona detenuta riesca a chiedere aiuto ed abbia le risorse personali per comunicare a qualcuno questo disagio.

Vi è poi lo psichiatra, ora inviato dalla Asl, che dovrebbe intervenire solo nei casi in cui i detenuti abbiano patologie psichiatriche e vadano presi in carico, con tutte le distorsioni che un contesto quale quello carcerario determina relativamente all’evoluzione delle patologie.

A seconda delle Asl e degli orientamenti e relativa loro organizzazione, può essere fornito per un maggiore o minore numero di ore uno psicologo che operi per il Sert (Servizio Tossicodipendenze, che si occupa anche di alcoolismo) o svolga altre funzioni previste dall’ordinamento penitenziario e/o di supporto al servizio psichiatrico.

In questo contesto e con queste prospettive penso sempre che debba essere motivo di orgoglio personale il risultato di continuare a considerare persone i nostri interlocutori, di non farsi stritolare da meccanismi folli che conducono all’assoluta indifferenza rispetto all’essenza umana dei detenuti ed al senso del proprio lavoro.

In questo panorama e con questi mezzi viene attuata l’osservazione scientifica della personalità che, inevitabilmente, si attiene a criteri equiparabili a quelli della «medicina d’emergenza» nel caso di catastrofi e cataclismi: curare i malati più giovani e/o con prognosi più positive.

Si concentrano, quindi, le energie sulle persone che hanno situazioni particolarmente complesse, che non sono mai state osservate che hanno un fine pena più breve: una specie di legge non scritta, che sembra una sorta di antidoto ad un senso di impotenza assoluto e devastante.

Con il detenuto viene poi stilato il patto trattamentale, che - nelle intenzioni iniziali - avrebbe dovuto impegnare, da un lato, l’amministrazione penitenziaria a garantire dei percorsi trattamentali individualizzati all’interno del carcere (e, quindi, a non trasferire il detenuto se non in casi eccezionali), condivisi nelle modalità e negli obiettivi, mentre dall’altro il

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detenuto avrebbe dovuto garantire adesione ai percorsi delineati ed impegno nell’attuazione.

Al di là dei propositi, l’attuazione concreta e sostanziale del patto trattamentale è rimasta lettera morta: in un periodo di mancanza assoluta di fondi e di sovraffollamento estremo come quello attuale, che tipo di garanzia può assicurare lo Stato rispetto agli impegni da assumere, tenuto conto che non vi sono quasi per nulla progetti finanziati e, quindi, non è possibile assicurare percorsi trattamentali, men che meno individualizzati? Non si è mai riusciti ad elaborare strategie e formule vincenti che potessero conciliare le esigenze di sicurezza (risse, minacce, aggressioni, affiliazioni interne), di giustizia (i detenuti quasi sempre devono essere spostati per i processi), disciplinari, di deflazione da sovraffollamento, con le esigenze trattamentali (lavoro, scuola..) dei detenuti, che spessissimo, a seguito del trasferimento, interrompono i percorsi intrapresi .

Ogni anno, poi, a novembre viene elaborato il Progetto pedagogico annuale, uno per istituto penitenziario.

L’idea di mettere tutti gli operatori attorno ad un tavolo a ragionare su quello che si vuole realizzare per l’anno successivo, sicuramente ha offerto l’opportunità ad ogni istituto di non disperdere le energie e di avere uno sguardo d’insieme, una proiezione concreta di quanto prima, invece, avveniva in maniera disorganizzata ed estemporanea, focalizzando l’attenzione su quali progetti trattamentali si intende mettere in cantiere, di quali spazi si dispone effettivamente, con quali interlocutori – istituzionali e non – si intende proseguire o avviare collaborazioni.

Con questa formula, un buon numero di ostacoli dovrebbero essere previsti ed affrontati in anticipo, tenuto conto che direttore, contabile, educatori, comandante del reparto di polizia penitenziaria dovrebbero conoscere il contesto circoscritto in cui si opera ed elaborare un progetto ancorato alla realtà.

Diventa così indispensabile la collaborazione e l’intervento del volontariato, che svolge una funzione sussidiaria rispetto ai doveri cui non ottempera lo

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Stato e rappresenta la variabile impazzita del rapporto carcere-società esterna, l’elemento chimico che si immette nel composto e che può arricchire la formula chimica ed il risultato finale. Per questo, però, non ci si può abbandonare allo spontaneismo, allo spirito di iniziativa di persone volenterose ed animate da sani propositi, perché la mancata conoscenza del contesto può determinare una miscela esplosiva, che innanzitutto va a creare danni ai detenuti.

In un’esperienza di volontariato, probabilmente il volontario cerca delle risposte a domande di senso, una conferma delle proprie capacità, l’acquisizione di nuove competenze, lo sperimentare l’assunzione di responsabilità, ma in carcere, più che in altri contesti, l’attenzione massima deve essere concentrata sui destinatari degli interventi, abbandonando convinzioni predefinite e personali, a vantaggio di equilibrio, sensibilità e rispetto.

“Non è difficile, infatti, avvertire il rischio di una fin troppo facile strumentalizzazione della condizione di fragilità psicologica dei detenuti, o nella migliore delle ipotesi il paternalismo di chi va in carcere a far la predica sul bene e sul male”62

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L’articolo 1 del Regolamento enuncia: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto delle dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. Negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari. I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli

62 A.VIGILANTE, Partecipazione, apertura, vipassana: Kiran Bedi e la trasformazione del

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internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”. In questa previsione troviamo riassunta la filosofia che ispira il vigente regolamento penitenziario, la quale oltre ad essere in piena sintonia con i principi costituzionali fin qui esaminati63, rimane in linea con le Regole penitenziarie europee revisionate nel 2006.

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La previsione dell’art 13 comma IV è stata ritenuta “importantissima” da V.ONIDA nella sua Relazione, in I diritti dei detenuti e la Costituzione, Atti 42° Convegno Nazionale del Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario – SAEC, Roma, 27-29 Novembre 2008, Roma, 2009, p. 61 “perché sancisce non solo la illiceità di condotte di violenza fisica o morale a carico dei ristretti, che proprio per l’esistenza dello stato di restrizione, sono più possibili o facili a verificarsi, ma l’obbligo di sanzionarle”.

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2.3 La Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli