2 LE FONTI DELL’ORDINAMENTO INTERNO ED IL SISTEMA
2.1 La Costituzione
2.1.2 La Giurisprudenza della Corte Costituzionale
La giurisprudenza costituzionale ha fin da subito dimostrato una particolare attenzione al concetto di dignità. La poliedricità di quest’ultimo ha tuttavia influito sulle sentenze della Corte; se inizialmente la dignità è sempre stata collegata alle previsioni costituzionali, a partire dagli anni ’60 il novero dei significati nei quali il concetto è stato impiegato si è ampliato in maniera significativa andando talvolta a coprire l’ambito del principio personalista. La posizione suprema della dignità in un ordinamento costituzionale pluralista, in cui non è possibile stabilire una gerarchia tra i diritti fondamentali – tra i quali occorre sempre ricercare un bilanciamento (sentenza n. 85 del 2013) – conduce alla conseguenza che essa non è suscettibile di riduzioni per effetto di bilanciamento, in quanto è la bilancia medesima, il criterio di misura di tutti i princìpi e di tutti i diritti, oltre che, naturalmente, di tutte le forme di esercizio dell’autorità.
Emerge il principio secondo cui “il detenuto deve godere degli stessi diritti delle persone libere, nella misura in cui l’esercizio di essi non si riveli incompatibile con le esigenze della vita carceraria”53. Grazie al contributo della dottrina, si è superata la fase in cui la normativa e la giurisprudenza costituzionale non traevano spunto dal riconoscimento della finalità rieducativa della pena per ricavarne tutte le possibili conseguenze sul piano della tutela della dignità del detenuto. Tra i principali apporti in questa direzione spicca quello, recentemente ricordato, dato alla tutela delle situazioni giuridiche in carcere da Valerio Onida54, frutto dell’acuta
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M. RUOTOLO, op.cit. p. 7, secondo il quale, di conseguenza, «una diversa – spesso meno garantistica – forma di tutela dovrebbe trovare giustificazione nella peculiarità della situazione detentiva, configurandosi come riflesso dell’impossibilità di riconoscere la “pienezza” della specifica situazione giuridica soggettiva in capo al recluso» (adde ID., Diritti dei detenuti e Costituzione, Giappichelli, Torino, 2002, passim).
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Valerio Onida è stato il primo (forse l’unico) ad avvalersi della facoltà riservata ai giudici costituzionali di visitare gli istituti penitenziari (art. 67, co. 1 , lett. b, della legge 26 luglio 1975, n.354). Ha visitato la sezione del carcere di San Vittore a Milano ospitante i detenuti soggetti al regime differenziato di cui al 41-bis ord. Penit.
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percezione dell’importanza della condizione dei detenuti e della matura consapevolezza che nella realtà sotto esame “tutto dipende dalla legalità: la misura in cui i diritti di un detenuto possono essere incisi è strettamente legata all’esistenza di una detenzione legale, o di una misura legale, e quindi la legalità, per così dire, è la cifra quotidiana del vivere in una situazione di detenzione, molto più di quanto non avvenga in una vita libera, in cui si esercita per lo più una libertà di fatto”55.
Il principio basilare è che colui che sconta una pena non perde tutti i suoi diritti, ma subisce solo quelle limitazioni che sono intrinsecamente o strettamente necessarie per assicurare l’esecuzione della pena o della misura di restrizione se si tratta di una detenzione in attesa di giudizio; principio che ha costituito poi la pietra miliare su cui sono poggiati concreti riconoscimenti, come quello, precedentemente richiamato, del diritto al riposo annuale retribuito (sent.158/2001).
Si sviluppa così una coscienza dei diritti dei detenuti e della loro tutela56, idonea a realizzare il principio irrinunciabile per cui il carcere non deve essere luogo di sopraffazione o di degradazione della personalità, ma luogo in cui persone, rispettate come tali, scontano una pena legalmente inflitta. La nuova sensibilità nell’approccio alla tutela dei detenuti si riverserà nella legge n. 354/1975 sull’ordinamento penitenziario e nelle leggi successive (fino alla l. n. 193/2000, c.d. legge Smuraglia) e troverà larga eco anche nella giurisprudenza costituzionale. Quest’ultima, infatti, porrà l’accento sulla dotazione intangibile dei diritti inviolabili dell’uomo, che devono essere salvaguardati anche durante l’esecuzione della condanna, diritti che meritano di essere assicurati tanto più quanto le condizioni di soggezione pongono l’individuo in una posizione di sovraesposizione riguardo al rischio di una lesione proprio dei summenzionati diritti.
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V. ONIDA, Intervento, in I diritti dei detenuti e la Costituzione, Atti del 41° Convegno Nazionale del Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario – SEAC, svoltosi a Roma nei giorni 27-29 novembre 2008, Herald Editore, Roma, 2009, p. 62. 56 M. RUOTOLO, op. cit., p. 4.
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Di qui si è sviluppata una sequenza di pronunce costituzionali volte a rendere effettiva in misura particolare la tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti (sentt. nn. 26/1999, 562/2000, 341/2006)57.
Inoltre, il principio di umanizzazione della pena acquisterà sempre maggiore rilievo nelle decisioni del giudice delle leggi, andando ad affiancarsi a quello della finalità rieducativa di essa. Prende così corpo all’interno del sindacato di legittimità costituzionale il parametro costituito dal divieto di trattamenti contrari al senso di umanità di cui abbiamo ampiamente parlato nel precedente paragrafo quando abbiamo analizzato gli articoli 13 e 27 della nostra Cost., in particolar modo il quarto comma dell’art 13 secondo cui «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà».
Da quanto detto fin qui appare chiaro che i due profili – quello della tutela dei diritti fondamentali generalmente spettanti a tutti gli esseri umani anche all’interno del complesso e difficile microcosmo carcerario e quello della configurazione della stessa situazione carceraria secondo modalità che ne evitino lo scadimento di per sé ad un trattamento disumano e degradante –, pur attenendo a due versanti giuridicamente distinguibili (tanto da prestarsi, di conseguenza, ad essere trattati in modo del tutto autonomo l’uno dall’altro), finiscono per presentarsi strettamente correlati nella esperienza pratica. Qualsiasi incisione sulle condizioni materiali in cui viene ad essere conformata la sanzione detentiva, infatti, finisce con il ripercuotersi sul godimento delle situazioni giuridiche in astratto riconosciute o rivendicate sulla base delle riflessioni degli studiosi e della più evoluta giurisprudenza costituzionale. Tuttavia, le complesse condizioni nelle quali versano le nostre istituzioni penitenziarie (sovraffollamento, malfunzionamento delle
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V., tra gli altri, A. PENNISI, Diritti dei detenuti e tutela giurisdizionale, Torino, Giappichelli, 2002; M. RUOTOLO, Diritti dei detenuti e Costituzione, Torino, Giappichelli, 2002; M. GIALUZ, Tutela dei diritti dei detenuti: ammesso il conflitto di
attribuzione tra magistratura di sorveglianza e Ministri della Giustizia , in
www.penalecontemporaneo.it; G. BOLDI, La tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti:
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strutture, presenza di tossicodipendenti, carenza di personale, ecc.) non possono costituire l’alibi per l’abbandono dell’obiettivo della legalità.
Facendo un piccolo passo indietro, nella nota alla sentenza n.72/1968 della Corte Costituzionale, Onida parla del problema della disapplicazione dei regolamenti incostituzionali, sostenendo la tesi secondo la quale un regolamento incostituzionale o illegittimo può e deve venir sempre disapplicato, non solo dai giudici ma da ogni autorità.
Nel caso specifico si trattava del Regolamento penitenziario del 1931, il quale prevedeva obbligo di pratiche di culto cattolico per tutti detenuti che, al momento dell’ingresso nelle mura carcerarie, non avessero dichiarato altre appartenenze religiose.
La Corte Costituzionale, pronunciando in via incidentale, ha dichiarato la questione inammissibile in quanto non avente ad oggetto una legge o un atto avente forza di legge.
C’è stata una forte ondata di critiche alla suddetta sentenza, motivate dal contrasto della norma incriminata con gli artt. 2, 13, 19, 21 e 27 della Costituzione, in quanto l’obbligo imposto costituisce una “inammissibile coartazione della coscienza individuale, contraria alla dignità umana, non giustificabile da nessuna esigenza di ordine sociale”.
Si sottolinea che non potrebbero sorgere dubbi circa una conciliazione del rispetto dei diritti costituzionali con le esigenze della vita carceraria, perché lo stato di detenzione comporta ovviamente una restrizione della libertà personale e di conseguenza delle libertà ad essa dipendenti, però non potrà mai verificarsi, in uno Stato sorretto da una Costituzione come quello italiano, un restringimento di alcuni aspetti della libertà quali quelli connessi alla libertà di pensiero, la coscienza individuale o la religione stessa. Le predette considerazioni sono confluite nell’emanazione del nuovo Regolamento Penitenziario - legge n.354/1975 – in un contesto di sostanziale inattuazione legislativa dei precetti costituzionali rivolti a garantire che nella esecuzione della pena sia assicurato il pieno rispetto della persona umana, della sua personalità, della sua dignità.
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La stessa Corte ha “ridotto” il finalismo rieducativo del terzo comma art. 27 Cost. entro il confine del trattamento penitenziario che concretizza l’esecuzione della pena (sent. n. 12/1966), ammettendo successivamente di aver trascurato il “novum contenuto nella solenne affermazione della finalità rieducativa, assunta in senso marginale o addirittura eventuale e, comunque, ridotta entro gli angusti limiti del trattamento penitenziario”, rilevando che in uno Stato evoluto la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione ed alla funzione stessa della pena (sent. n. 313/1990). La Corte (nella sent. 349/1993) ha poi affermato che “chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior delle sue libertà, ne conserva sempre un residuo che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”.
Alla fine degli anni ’90, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che la dignità della persona “è dalla Costituzione protetta attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell’uomo che anche il detenuto porta con sé lungo tutto il corso dell’esecuzione penale”(sentenza n.26/1999), per poi aggiungere che “quanto più la persona, trovandosi in stato di soggezione, è esposta al possibile pericolo di abusi, tanto più rigorosa deve essere l’attenzione per evitare che questi si verifichino (sentenza n.526/2000). Di fondamentale importanza è la posizione assunta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in recenti pronunce che richiamano l’Italia al rispetto dell’art. 3 Cedu58
, pronunce che però non costituiscono casi isolati, visto che energiche sollecitazioni erano già state rivolte al nostro Paese dal Consiglio d’Europa e dal Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite59
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Per un primo commento alla disposizione, v. A. ESPOSITO, sub art. 3, in Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fo ndamentali, a cura di S. Bartole - B. Conforti - G. Raimondi, Padova, Cedam, 2001, p. 49 ss. e P. VAN DIJK e G.J.H. VAN HOOF, Theory and Practice of the European Convention on Human
Rights, The Hague, Kluwer International, 1998, p. 309 ss.
59 La gravità della situazione emerge dalla stessa circostanza per cui l’Italia è il principale responsabile dell’arretrato della Cedu, con 1.200 ricorsi solo da parte di detenuti. Alla data dell’8 gennaio 2014 la popolazione delle carceri italiane è stata calcolata in 62.400 reclusi,
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I giudici europei, nell’arco della loro giurisprudenza, hanno presto chiarito che la nozione di “trattamento inumano o degradante”, benché il ricorso ai due distinti aggettivi richiami una questione di graduazione in relazione alla gravità delle fattispecie, assume prevalentemente un significato unitario, cosicché è stato conclusivamente affermato che «the difference between inhuman treatment or punishment and degrading treatment or punishment is likewise one of gradation in the suffering inflicted, though it should be keptin mind that in several cases the Strasbourg organs do not draw a sharp distinction and use qualifications such as ‘inhuman and degrading treatment’» (dove l’uso della congiunzione and sottolinea la considerazione del concetto as a whole)60. Della giurisprudenza comunitaria parleremo nel dettaglio più avanti.
a fronte di una capacità regolamentare degli istituti penitenziari di 47.599 posti: v. Decreto “carceri”: tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e riduzione contro llata della popolazione carceraria, Dossier n. 23 dell’Ufficio Documentazione e Studi (5 febbr. 2014), in www.deputatipd.it; nonché i dati riportati in www.osservatorioantigone.it.
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