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LA DIGNITA' UMANA E LA SUA TUTELA ALL'INTERNO DEL CARCERE.

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INDICE

1 INTRODUZIONE ... 3

1.1 Dignità umana: origini storiche, tra filosofia e religione ... 3

1.2 Dignità: valore o principio?... 8

1.3 La dignità, così come intesa nella nostra Costituzione ... 12

1.4 Origini del carcere e mutamento delle pene ... 23

2 LE FONTI DELL’ORDINAMENTO INTERNO ED IL SISTEMA PENITENZIARIO ITALIANO ... 34

2.1 La Costituzione ... 34

2.1.1 Gli articoli a tutela dei diritti del detenuto ... 34

2.1.2 La Giurisprudenza della Corte Costituzionale ... 49

2.2 L’ordinamento penitenziario italiano: la Legge n.354/1975 ... 55

2.3 La Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati .... 64

3 LE FONTI INTERNAZIONALI E COMUNITARIE VOLTE ALLA TUTELA DEI DIRITTI DEI DETENUTI ... 66

3.1 Il Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici ... 66

3.2 La tutela del carcerato in ambito europeo ... 69

3.2.1 La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea ... 69

3.2.2 La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ... 73

3.2.3 La Convenzione Europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti e la Raccomandazione R(2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee ... 74

4 LA GIURISPRUDEN ZA DELLA CORTE DI STRASBURGO ... 78

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4.2 La condanna: sentenza Torregiani e altri c. Italia ... 86

4.2.1 La vicenda ... 86

4.2.2 Il problema del sovraffollamento nelle carceri: riflessioni e numeri 91 4.2.3 Il diritto del detenuto alla salute ... 106

5 GLI INTERVENTI DEL GOVERNO ITALIANO IN RISPOSTA ALLE DECISIONI DELLA CORTE DI STRASBURGO ... 112

5.1 Primi passi verso una riforma del sistema carcerario ... 112

5.2 Il Decreto svuota-carceri ... 115

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3

1 INTRODUZIONE

1.1 Dignità umana: origini storiche, tra filosofia e religione

L’oggetto di questa argomentazione è la “dignità dell’internato” , argomento decisamente delicato in quanto appartenente al tema della “dignità della persona” .

La definizione del concetto dignità umana appare decisamente problematica, essenzialmente in ragione della sua ambiguità, che si apprezza in primo luogo come conseguenza del fatto che di dignità può parlarsi non solo in ambito giuridico (ambito che ovviamente interessa la seguente trattazione) ma anche in chiave etica e filosofica.

Non possiamo perciò prescindere, per quanto ovviamente saranno soltanto brevissimi cenni, dall’iniziare la nostra argomentazione da quelle che sono le origini di quello che intendiamo essere il concetto di dignità, dando uno sguardo di carattere storico-filosofico sull’evoluzione nell’ambito della cultura occidentale che tenga conto del contributo della tradizione classica e di quella ebraico-cristiana nelle loro reciproche interazioni, con l’unico obiettivo non tanto di fornire delle risposte, quanto delle coordinate filosofiche e culturali, all’interno delle quali è nata la riflessione sulla natura umana e sul concetto oggetto della nostra trattazione.

Se ci accingiamo a considerare il tema della dignità umana nell’ambito della civiltà greca, ci accorgiamo immediatamente che lo scenario è decisamente articolato, il concetto stesso di genere umano non è ancora dato per acquisito bensì è il frutto di un affinamento culturale e di un graduale superamento di pregiudizi e discriminazioni1.

1 A questo problema fa riferimento in particolare H.C. BALDRY, The Unity of Mank ind in

Greek thought, Cambridge 1965, tr. it. di C. Bolognini, L’Unità del genere umano nel pensiero greco, Bologna, 1983.

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In questa epoca non vi è un’idea di uguaglianza, cosi come “lo schiavo o il barbaro non potevano essere uguali al greco”2 cosi la stessa idea del prototipo di cittadino aveva valenza diversa a seconda del contesto politico-sociale che faceva da sfondo, a Sparta svettava l’andreios , il coraggioso, mentre ad Atene dove l’elevazione dello spirito prevaleva sulla cultura del corpo l’uomo virtuoso era soprattutto il dikaion, il giusto.

E’ quest’ultimo l’ideale greco arrivato fino a noi oggi, essendo stato recepito dai romani con il termine dignitas, l’equivalente greco dell’axia3. Due grandi poemi epici scandiscono il punto di partenza di questa riflessione, l’Iliade e l’Odissea, dai quali emergono due prospettive che caratterizzeranno lo sviluppo della cultura greca: la consapevolezza del carattere mortale dell’uomo (il problema della morte sta al centro della visione omerica dell’uomo ed è avvertito in tutta la sua tragicità, che non lascia spazio ad alcuna entusiastica celebrazione di una possibile dignità degli esseri umani, intesa come loro valore intrinseco rispetto al piano della realtà)4 e la ricerca di una conquista personale, dalla quale emergono per la prima volta concetti quali il valore, l’onore e la gloria (aretè, timè, kleos) che rappresentano i tre cardini costitutivi del codice eroico dei guerrieri omerici5.

2 S.TZITZIS, De la valeur de l’autre à l’autre comme Valeur, in Les droits de l’Homme en

èvolution. Mèlanges en l’honneur du professeur Petros J. Parra 2009, p. 516.

3 Cfr. S.TZITZIS, op. cit., p. 517 e ss. 4

Ricorre anzi spesso una concezione pessimistica dell’uomo, che trova uno dei suoi topoi più ricorrenti nel paragone tra uomini e foglie (“Le generazione degli uomini sono come le foglie: le fa cadere il vento […]”, Omero, Iliade, introduzione e traduzione di M.G. CIANI,

commento di E. Avezzu’, Venezia 2002 (3), vv. 146 e ss., p. 279).

5

Come è stato giustamente rilevato, “il termine di confronto, per ciascuno di questi concetti, è la morte. La morte è la misura del valore perché ogni scontro è per la vita o per la morte. La morte è il prezzo dell’onore, perché l’onore rappresenta per il guerriero – al di là del riconoscimento sociale – la più alta realizzazione del suo individualismo. La gloria è il superamento della morte poiché il miraggio di una sopravvivenza eterna nella memoria collettiva vince l’amore per la vita” (vedi Omero, op.cit, p. 32, in M.G.CIANI, op.cit.).

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5

Platone con la sua teoria metafisica configura l’anima individuale dell’uomo come “centro vivo dell’universo, di origine divina”, ancora lontano quindi dal concetto di dignità comune ai nostri giorni; analogamente Aristotele, sebbene frequenti sono i richiami del filosofo all’uomo come “il più divino degli animali”, ecco che affiora un’idea di una più elevata facoltà di cui l’essere umano è dotato, ossia la razionalità.

Il termine dignitas compare per la prima volta nella cultura latina, soprattutto negli scritti di Cicerone6, però con un’accezione diversa da quella che prenderà poi con il passare del tempo; la dignitas intendeva una precisa connotazione sociale e politica presentandosi in diretto rapporto con le cariche pubbliche, configurandosi come qualità essenziale degli uomini politici ovvero indicando direttamente l’ufficio e la carica in sé.7

Un cambiamento decisivo nell’utilizzo del termine dignitas si realizza con l’avvento della cultura ebraico-cristiana, poiché a differenza dei romani che non separavano forma e contenuto, in quanto la prima non solo ha la stessa importanza ma anzi si identifica in pratica con il contenuto stesso, nel pensiero cristiano la forma si stacca dal contenuto che si innalza ad un livello superiore; la dignitas in senso di incarico lascia il posto alla dignitas come virtù interna, legata alla morale della persona umana.

6

Per il quale si rimanda in particolare a T.PISCITELLI CARPINO, Dignitas in Cicerone.

Tra semantica e semiologia, in “Bollettino di Studi Latini”, IX, 1979, p. 253-267.

7 Si arriva cosi ad un punto in cui “non esiste una chiara distinzion e tra dignitas come un incarico politico per sé ed una dignitas come le qualità morali presupposte per il giusto adempimento di questo incarico” (M.MINKOVA, Spostamento dei concetti politici nel

lessico cristiano: dignitas in Boezio, in G.Urso (a cura di), Popolo e potere nel mondo antico, Cividale del Friuli, 23-25 settembre 2004, Pisa 2005, p. 249). A questo riguardo è

particolarmente significativo un passo del De inventione (2, 166), in cui Cicerone definisce la dignitas come “l’autorità onesta di qualcuno e degna di essere considerata, onorata e rispettata…”. Qui dunque Cicerone fornisce “una definizione positiva, in cui si mescolano

dignitas come incarico (posizione) e dignitas come una rappresentazione di honestum” –

ossia, potremmo dire, di “ciò che è moralmente buono” (E.NARDUCCI, Una morale per la

classe dirigente, in M.T. Cicerone, I doveri, tr.it.di A. Resta Barrile, Milano 2007 (11), p.

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Vi è un legame indissolubile fra dignità e umanità8, basato sul racconto della Genesi e sull’incarnazione di Dio nel Cristo: poiché Dio ha creato gli uomini a sua immagine e somiglianza e li ama tutti in egual modo, al punto da aver ammesso il sacrificio del Figlio per salvarli, allora a tutti compete lo stesso rispetto e la stessa considerazione. La tradizione ebraico-cristiana ha dato un decisivo apporto al valore assoluto di ciascun essere umano, sostenendo che egli è creato a immagine e somiglianza di Dio stesso ed è destinato alla comunione eterna con il Padre, in virtù di quell’eternità divina immessa in lui - l’anima - capace di fargli valicare la morte per entrare nella gloria dell’intimità di Dio9

, un messaggio, questo, che porta l’uomo ad essere considerato come un fine in sé stesso e mai come mezzo. Riflessione che ci permette di azzardarci in uno stimolante confronto con una più moderna teorizzazione filosofica, quella di Kant che enuncia “agisci in modo da trattare l’umanità, cosi nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre insieme col fine, mai semplicemente come mezzo”.10 Nel pensiero di San Tommaso, l’anima razionale conferisce unità dinamica all’organismo umano ed è il fondamento di quella dignità (ontologica, innata) che appartiene ad ogni uomo per la sua natura intellettuale e non viene sminuita o distrutta neppure dal peccato, l’elemento razionale è determinante per esercitare il dominium sulle proprie emozioni ed acquistare la dignità esistenziale che è propria solo dei giusti.

Finiamo la nostra breve introduzione storico-culturale evidenziando che è solamente con l’avvento dell’età umanistico-rinascimentale che si ha una definitiva consacrazione del concetto di dignità. La svolta è data dal voler

8

Sulla tradizione ebraica, cfr.: Y.M. BARILAN, Dignità umana e tradizione ebraica, a cura di E. FURLAN, Bioetica e dignità umana. Interpretazioni a confronto a partire dalla

Convenzione di Oviedo. Milano, 2009, p. 163 e ss .; Vedi anche A.ARGIROFFI-P.

BECCHI-D.A NSELM O, Colloqui sulla dignità umana, Roma, 2008, p. 61 e ss.;

9 Vedi G. RAVASI, L’anima nella tradizione biblica, in V. Possenti, L’anima, Annuario di filosofia 2004, Milano 2004, p. 156.

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porre l’uomo al centro dell’intera realtà, trovando appunto nell’idea di dignità umana la sua fondamentale fonte d’ispirazione.

Il tema della dignità umana è venuto a trovare la sua consacrazione in quello che molti considerano il vero e proprio simbolo della cultura rinascimentale, cioè la celebre Oratio de hominis dignitate (1486) di Giovanni Pico della Mirandola. In quest’opera l’autore esalta l’uomo come “magnum miraculum” sostenendo che nell’universo egli, creato da Dio a sua immagine e somiglianza, non è allo stesso piano delle altre creature viventi ma ad un livello superiore, oltre ad essere artefice ed inventore di se stesso. Molte altre sono le sfaccettature storico-filosofiche del concetto di “dignità”, non è però questa la sede più idonea a trattare in maniera approfondita l’argomento, interessando a noi il concetto in esame cosi come è inteso ai giorni nostri, in particolare il legame che esiste fra la dignità e la libertà nel contesto della vita carceraria, che è quello su cui andremo a svolgere il resto del nostra trattazione.

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8

1.2 Dignità: valore o principio?

Un fattore che appare fondamentale è capire se la dignità deve essere considerata come valore, ovvero come un principio. Depongono nel senso della dignità come valore la storia millenaria e l’alta pregnanza etica del concetto, le scelte “sono oggetto di percezioni e propensioni non giustificabili razionalmente”11. Il valore è un riferimento capitale, i cui caratteri, però, possono essere delineati - a seconda delle impostazioni - in termini empirico-soggettivistici e storicizzati, quindi dipendenti dagli uomini e dal divenire storico, o metafisico-assolutistici, cioè universali e fuori dal tempo. Non è comunque necessario, in questa fase, prendere netta posizione a favore dell’una o dell’altra; infatti, sebbene sotto angolazioni diverse, entrambe le prospettive si adattano al nostro concetto di dignità, che può essere riguardata sia come standard ottimale, disegnato secondo le aspirazioni dell’individuo e condizionato dalle contingenze (dignità pratica), sia come essenza ideale immutabile dell’essere umano (dignità ontologica). Se osserviamo invece dal punto di vista della dignità-principio, si osserva che ha una natura niente affatto peculiare, non essendo suscettibile di bilanciamento nel più delle realtà degli ordinamenti.

Infatti, se davvero la dignità risultasse intoccabile di per sé, non sarebbero giustificabili una serie di misure pur necessarie per garantire la pacifica convivenza e verrebbe travolto l’intero edificio del diritto penale, i cui strumenti investigativi e sanzionatori entrano in evidente tensione appunto con la dignità. A ben vedere, la dignità non è bilanciabile se la si dilata al punto da farne un sinonimo dell’ordine pubblico, operazione che, però, la

11

G. ZAGREBELSKY, Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune, Torino, 2009, p. 63. Per ulteriori indicazioni sul punto, si rinvia a: N. ABBAGNANO,

Dizionario di filosofia, III ed. aggiornata ed ampliata da G. Fornero, Torino, 1998.; E.

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9

trasforma da singolo principio a formula riassuntiva delle caratteristiche complessive dell’ordinamento12

.

Del resto, sostenere che anche la dignità rientra nel bilanciamento non significa operare una deminutio, ma portare l’attenzione sulla portata del principio stesso e di come in realtà questo viene applicato in un ordinamento. Insistendo, inoltre, sulla natura di principio che si inserisce in un ordinamento democratico, risulta errato assumere la dignità a parametro unico13 o andare alla ricerca di una sua collocazione gerarchica. È, poi, riduttivo farne il contenuto di un singolo diritto ovvero di un gruppo di diritti ed operare una forzatura cercando di ricavare da essa regole rigide da applicare direttamente e invariabilmente ad una fattispecie piuttosto che ad un’altra, secondo il criterio del “bianco o nero”. Il bello e l’utile dei principi risiede proprio nella sfida che essi propongono al fine di articolarne di volta in volta il contenuto di dettaglio senza tradire il significato complessivo ed anzi cercando di realizzarlo “nel miglior modo possibile, tenuto conto delle

12

Si veda in proposito G. SILVESTRI, Dal potere ai principi. Libertà ed eguaglianza nel

costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari, 2009, p. 86 e ss., secondo cui «porre il

valore della dignità (non dimentichiamolo, come sintesi dei valori fondamentali) fuori dall’ordine giuridico, in funzione di legittimazione e sostegno dell’intero ordinamento, implica il riconoscimento dell’anteriorità dell’uomo rispetto allo Stato. (…) La supremitas della dignità la innalza a criterio di bilanciamento dei valori, senza che essa stessa sia suscettibile di riduzioni per effetto di un bilanciamento. Essa infatti non è effetto di un bilanciamento, ma è la bilancia medesima».

13

Estremamente attenti in questo senso, in ambito bioetico, J.D. RENDTORFF-P. KEMP (eds.), Basic ethical principles in European Bioethics and Biolaw, vol. I, Autonomy,

dignity, integrity and vulnerability, Centre for Ethics and Law: Copenaghen, Institut Borja

de Bioetica: Barcelona, 2000, per i quali la dignità è uno dei principi rilevanti, non l’unico né il più importante, ed è chiamato a raccordarsi con gli altri secondo logiche non predefinite. Peraltro, si può aggiungere che istanze di tipo fondazionalista monista non appaiono vantaggiose per il discorso pubblico, sia perché lo impoveriscono, sottraendo strumenti preziosi, sia perché lo espongono al rischio di deriva dei contenuti ove sia contrastato l’unico canone di riferimento.

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possibilità giuridiche e fattuali esistenti”14. Vi è una sorta di duttilità che deve accompagnare, caso per caso, il principio ad una morale comune, in un certo senso oggettivamente comprovata.

Per la dignità, però, tale duttilità è sovente sconfessata e si contrappongono due atteggiamenti antitetici: negarle qualsivoglia portata orientativa o farla prevalere su ogni altra istanza per scongiurare il relativismo morale (in senso astratto) e l’arbitrio (in senso pratico).

La correttezza di un tale approccio, peraltro, appare implicitamente confermata dal fatto che tanto gli atti giuridici quanto l’argomentare di dottrina e giurisprudenza accompagnano sempre la dignità ad altri principi, in modo esplicito ovvero implicito a seconda dei casi. Quest’ultimo aspetto vale, poi, a sdrammatizzare un’altra questione avvertita come problematica, ossia quella inerente alla difficoltà di porre un netto distinguo rispetto ad altri concetti di ampia portata, quali quelli di libertà e di uguaglianza. Tracciare una chiara linea di demarcazione, infatti, è fondamentale ove si voglia impostare una gerarchia di valori, produttiva, a sua volta, delle regole di prevalenza, mentre non lo è ove si discuta di principi rispetto ai quali la presenza di aree di convergenza vada anzi apprezzata in senso sicuramente positivo.

La dignità può esser riguardata, come ripetuto molteplici volte, in diverse prospettive, la si può considerare una dote (che spetta all’uomo in quanto tale) a seconda - o meno - del valore dei suoi atti ovvero può esser considerata come meta (da intendersi come una sorta di conquista da parte del singolo individuo). Se si considera la dignità come elemento caratterizzante di ciascun individuo, la si affianca senza ombra di dubbio al principio della personalità, quindi un libero sviluppo accompagnato da una serie di doveri (solidarietà politica, economica, sociale, etc..) il cui adempimento contribuisce alla realizzazione dell’uomo in diversi contesti (civile, familiare, politico, etc..); doveri il cui adempimento caratterizza il

14 Così R. ALEXY, Teoría de los derechos fundamentales , 2007, p. 86, il quale definisce i principi come «precetti di ottimizzazione».

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processo di formazione dell’identità incidendo sul principio stesso in quanto riguardata come risultato dell’azione umana15

.

Come si può porre questa affermazione in relazione alla pari dignità da doversi riconoscere a tutti gli individui? Semplicemente negando un concetto unitario di dignità. Vi sarà una “dignità innata” - che spetta come tale a ciascun individuo - ed una “dignità acquisita” - che può esser perduta e riconquistata16. La dignità innata fa si che verso le persone non possano mai esser giustificati determinati tipi di atteggiamenti, siano essi morali o fisici; quindi si può solo accettare, ma solo da un punto di vista della dignità acquisita, una differenziazione tra gli individui, frutto del valore - o del disvalore - delle loro azioni in una sorta di processo di autodeterminazione17.

15

Cosi M. RUOTOLO, Dignità e carcere, Napoli, 2011, p. 25. 16

L. GORMALLY, La dignità umana: il punto di vista del cristiano e quello laicista , a cura di J. De D. Vial Correa, E. Sgreccia, La cultura della vita: fondamenti e dimensioni , Città del Vaticano, 2002, p. 49 e ss.

17 Viene tutelato dal principio di dignità anche colui le cui “prestazioni di dignità” non abbiano successo: F. BARTOLOMEI, La dignità umana come concetto e valore

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1.3 La dignità, così come intesa nella nostra Costituzione

“Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione”18.

In quest’ottica, che è stata fatta propria dal costituzionalismo moderno, la Costituzione, intesa come insieme delle regole e dei principi fondamentali relative all’organizzazione di una società politica, è tale soltanto se afferma i diritti degli individui verso le autorità e stabilisce regole per l’esercizio del potere, di un potere, dunque, regolato e diviso tra più autorità.19

Il sogno del costituzionalismo, tuttavia, non si ferma a quella fondamentale tappa che è stata appunto la Rivoluzione Francese, nel ‘900 abbiamo una sorta di ricerca continua ad una giustizia sociale, un ampliamento dei soggetti che godono di diritti civili e politici, con una conseguente graduale diminuzione delle discriminazioni basate su sesso e censo.

Una trama che non può non concentrarsi sulla centralità della persona umana e sulle tutele che garantiscano dignitose condizioni di vita; una necessità di uguaglianza formale che vada a tutelare ogni cittadino, indipendentemente da razza, religione o sesso.

Tuttavia, contrariamente a quanto avviene nelle costituzioni di altri paesi ed in molti atti di diritto internazionale, manca nella nostra Costituzione una definizione del concetto di dignità ed una sua collocazione nell’ambito dell’ordinamento giuridico; manca un’affermazione di ordine generale come possiamo invece riscontrare nel modello dell’art. 1 della legge fondamentale tedesca “la dignità dell’uomo e’ intangibile” e che “è dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla”.

Proprio questa fonte ci apre le porte per una riflessione, il principio di ragionevolezza su cui si basa la nostra - ed altre – carte costituzionali, principio che viene considerato come onnivoro in tutti o quasi gli ordinamenti, come riesce a bilanciarsi ad un valore come quello della

18 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del 26 agosto 1789.

19 M.RUOTOLO, Eguaglianza e pari dignità sociale. Appunti per una lezione. Padova, Centro culturale Altinate/San Gaetano, Auditorium, 15 febbraio 2013.

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dignità? Come si rapportano questi due concetti? Anzitutto, ragionevolezza e dignità sono cose che si giudicano per lo più in modo positivo e si riconoscono come “valori” condivisibili con altri e quindi morali oltre che giuridici. La ragionevolezza ha a che fare con il modo in cui una persona agisce, la dignità con il modo in cui viene trattata o tratta se stessa. Si può giudicare “ragionevole” o “irragionevole”, ma anche “più o meno” ragionevole una condotta, una scelta o un giudizio concreto di una persona, ma anche le capacità e le doti di una persona, valutando il suo agire complessivo, o l’organizzazione e le procedure di un’istituzione20

; si giudica invece lesivo della dignità , o anche solo più o meno dignitoso, il modo di esistere di una persona, la dignità è totalmente legata alla persona, tant’è che al contrario della ragionevolezza può essere offesa e difesa; Il giudizio di ragionevolezza si basa peraltro in primo luogo su criteri razionali, il giudizio di dignità su sentimenti.

Il significato giuridico della dignità umana nelle varie costituzioni, fra cui la nostra, è controverso, specialmente in Germania dove abbiamo visto che addirittura è ritenuta espressamente intangibile , La dignità è una qualità di soggetto insopprimibile, inalienabile ed irrinunciabile, ma può essere violata nella sua pretesa di rispetto e di protezione, pretesa che peraltro ha giustificato anche la configurazione di appositi reati.

Nel solco della precedente giurisprudenza costituzionale bavarese e nelle tradizioni del rinascente giusnaturalismo degli anni cinquanta, il Bundesverfassungsgericht ha qualificato la dignità umana come il “valore costituzionale supremo” del sistema dei valori sottesi ai diritti fondamentali, un “principio costitutivo” dell’intero ordinamento.

Pur riconoscendo il carattere di diritto soggettivo fondamentale autonomo, ha sempre collegato la garanzia della dignità con gli altri diritti fondamentali, in primis il diritto alla vita ed incolumità fisica (art. 2 co. 2 LF) e la libertà generale di agire della persona (art. 2 co. 1 LF),

20 J. LUTHER, Ragionevolezza e dignità umana, Dipartimento di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLIS, Periodico mensile n.79/2006.

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collegamento che ha sortito peraltro un “diritto generale della personalità” sviluppato dalla giurisprudenza comuni. L’uso della garanzia costituzionale della dignità solo tramite un “combinato disposto” ha consentito di valorizzarla come un “controlimite” al potere del legislatore di porre limiti ai diritti fondamentali, quindi di configurarlo come una sorta di “valore aggiunto” nella verifica dei bilanciamenti, in grado di restringere o escludere del tutto i margini di ponderazione del legislatore, anche in presenza di una norma costituzionale di lo abilita a disporre sacrifici ad es. del diritto alla vita o all’incolumità fisica (art. 2 co. 2 per. 3 LF). Tuttavia, la garanzia della dignità non è mai stata usata come un “valore” che possa trovarsi da solo sulla bilancia per essere ponderato con il valore di un altro diritto fondamentale, questo “perché la dignità umana come radice di tutti i diritti fondamentali, non è suscettibile di bilanciamento con nessun altro diritto o valore, qualunque esso sia. Questa impostazione complessiva è da sempre criticata dalla dottrina che ha proposto ricostruzioni alternative. Secondo il commentario di Adalbert Podlech, la dignità non è una dato o una dotazione ma un obiettivo, per Robert Alexy, la garanzia costituzionale della dignità implica non un principio assoluto ma una combinazione di una regola con un principio suscettibile di bilanciamento. Il bilanciamento del principio serve al giudice per stabilire il contenuto della regola, che è sempre violata se nel bilanciamento tra principi concorrenti il principio della dignità viene considerato prevalente. La giurisprudenza in questo caso avrebbe individuato una serie consistente di casi e condizioni nei quali la dignità prevale e deve ritenersi violata.

Il commentario di Horst Dreier preferisce invece la teoria di Hofmann, che concepisce la dignità come un fenomeno di comunicazione fondata sul riconoscimento sociale e sull’accettazione di pretese di riconoscimento individuandone i principi ispiratori nell’eguaglianza, libertà e solidarietà sociale.

Christian Starck distingue la dignità umana dal nucleo essenziale dei diritti fondamentali perché ritiene che vi siano anche diritti fondamentali non

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fondati sulla dignità; inoltre ritiene che “la situazione nella quale si trova l’uomo non può non influenzare quanto comanda o vieta la garanzia della dignità umana”. Tanto più sarebbe distrutta la soggettività, ad esempio, di un malato di mente, tanto più difficile diventerebbe la garanzia della sua dignità. La garanzia della dignità opera come controlimite alle limitazioni dei diritti e tollera dei bilanciamenti solo quando entrano in conflitto le dignità di soggetti diversi.

Una posizione intermedia è sostenuta da Peter Häberle secondo cui l’essenza della garanzia della dignità umana è quella di garantire nei vari ambiti dei diritti e doveri, l’essere persona e l’identità personale. Pertanto i vari diritti fondamentali si riferiscono in modo più o meno intenso alla dignità e la tutela della stessa dignità è graduabile solo in quanto anticipata rispetto alla nascita e posticipata rispetto alla morte.

Queste ed altre posizioni del ricco dibattito dottrinale dimostrano innanzitutto che l’interpretazione della dignità umana dipende sempre dal background filosofico, nel caso tedesco soprattutto da Kant e Hegel.

La dottrina tedesca dimostra che non è impossibile trovare interpretazioni della dignità almeno parzialmente convergenti, la garanzia costituzionale della dignità è leggibile come fondamento di un valore che per un parte è considerabile assoluto, per l’altra relativo, cioè da un lato astrattamente separabile e superiore rispetto ai valori degli altri diritti fondamentali, dall’altro lato concretamente spendibile sempre solo insieme agli altri diritti fondamentali i cui principi impongono nel loro insieme il relativismo.

Chi crede in valori assoluti, deve riconoscere che assoluto è semmai solo quello della dignità e anche quello può essere preso solo in un contesto concreto e in combinazione con un diritto fondamentale specifico. Chi crede nel relativismo dei principi, deve riconoscere che almeno quello della dignità è relativamente superiore e viene applicato come una regola.

Quali conseguenze si possono trarre per i rapporti tra ragionevolezza e dignità ? Il “relativista” potrà sempre dire che quello che si considera “contenuto” della dignità è in realtà il frutto della verifica di un

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bilanciamento che ha individuato il sacrificio sproporzionato del principio ispiratore di un diritto fondamentale concreto. Se il relativismo dei principi significa che nei bilanciamenti nessun principio può essere sacrificato integralmente, il divieto del sacrificio sproporzionato può essere sempre interpretato come equivalente o assorbente rispetto alla tutela di un “ambito” di dignità umana. Funzionalmente, il richiamo alla dignità è simile a un argomento che definisce il “contenuto essenziale” del diritto, anzì si potrebbe sostenere che ogni violazione del contenuto essenziale di un diritto fondamentale è anche una violazione della dignità dell’uomo da parte del legislatore. Di contro, l’assolutista potrà sempre dire che quello che si considera il risultato del “bilanciamento” dei principi in conflitto è stato determinato dalla carta vincente della dignità, il cui valore è assoluto e invincibile. Da questo punto di vista, la dignità umana è la sostanza etica, il contenuto essenziale invece un contenuto giuridico e quindi ogni violazione della dignità è sempre necessariamente anche una violazione del contenuto essenziale, ma potrebbero esistere casi in cui la violazione del contenuto essenziale non comporta necessariamente una violazione della dignità. Definizione simile a quella della Legge Fondamentale tedesca troveremo nell’art. 1 della Carta di Nizza, fonte sovranazionale che entra nel nostro ordinamento con la forza di una legge ordinaria, quindi al di sotto della nostra Costituzione.

Nei documenti che abbiamo visto, Legge Fondamentale tedesca e Carta di Nizza, è possibile riconoscere una sorta di avversione contro gli orrori del totalitarismo della shoa, per un verso attraverso il riconoscimento della memoria di ciò che è stato, per altro verso c’è “il rifiuto e l’impegno a che non possano mai più ripetersi quelle forme di abbruttimento e di diniego della dignità umana, che sono cosi efficacemente descritte, ad esempio, nelle pagine di Primo Levi dedicate al campo di sterminio, alle molteplici

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possibilità di offesa alla dignità ed alla personalità, alla riduzione dell’uomo ad oggetto, all’indifferenza verso la condizione umana”21

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Guardare alla dignità umana come ad una cerniera, un collegamento fra passato e futuro, ci permette di evidenziare la perenne attualità della sua riflessione, senza perdere di vista il fatto che questo collegamento altro non è che la persona stessa, con le sue caratteristiche particolari ed irrinunciabili di identità e diversità nell’uguaglianza sostanziale e formale di cui è portatore l’articolo 3 della Costituzione italiana.

Come mai, allora, proprio quest’ultima fonte non racchiude in sé una esplicita definizione di un concetto cosi ampio ed importante?

Ciò che va riscontrato, è che il Costituente italiano ha comunque posto delle garanzie, per quanto implicite, in ordine a quei diritti che nell’ordinamento comunitario si collocano nell’orbita della dignità. Il concetto in oggetto, pur non espressamente menzionato (salvo quanto si dirà a breve) deve comunque intendersi come presente nel tessuto costituzionale in varie norme, attraverso richiami più o meno espliciti.

Il primo di essi è senz’altro il già citato art. 3, che al primo comma cita “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, norma perno del nostro ordinamento, non a caso inserita fra i “principi fondamentali” nella nostra Carta Costituzionale. La norma pone l’accento sul concetto di uguaglianza, che costituisce un principio generale “che condiziona tutto l’ordinamento nella sua obiettiva struttura”22

.

L’uguaglianza in sé è un concetto relazionale, nulla può esser ritenuto uguale in sé, tanto che l’affermazione di uguaglianza da un punto di vista giuridico è assolutamente vuota di significato23.

21

G.M. FLICK, La tutela della dignità nella Costituzione italiana, intervento tenuto presso la Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, Roma, 11 Dicembre 2006.

22 Corte Costituzionale, sentenza n.25/1996.

23 Come confermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.89/1996, secondo cui ”Il

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L’uguaglianza costituisce un limite generale alla legislazione, nel senso di dover sempre garantire il medesimo trattamento a tutti, in qualsivoglia ambito, perlomeno da un punto di vista di uguaglianza formale, ma è in combinato disposto con quanto espresso dalle primissime parole della disposizione in oggetto che il ragionamento si fa interessante, “…pari dignità sociale…”, cosa si intende precisamente con questa espressione? I costituenti si chiedevano come poter garantire, a livello statale, un pari trattamento sociale, senza correre il pericolo di ricalcare il concetto di uguaglianza sostanziale ripetendo divieti di discriminazioni in base a condizioni sociali o personali. Solamente negli anni più recenti alla pari dignità sociale è stato dato il valore di pari dignità umana su tutti i rapporti riferibili ai cittadini, una sorta di corollario della libertà e dell’uguaglianza di tutti, viste come presupposto imprescindibile per il pieno sviluppo della persona umana24. Parità sociale che si pone all’interno del nostro ordinamento in funzione di “ponte” fra il primo ed il secondo comma dell’art. 3, in quanto la dignità dei cittadini è riconosciuta quale dignità sociale nel senso che nello Stato contemporaneo la garanzia e lo sviluppo dei diritti del singolo è possibile soltanto in una dimensione collettiva, che a sua volta ha come presupposto fondamentale l’uguaglianza, intesa sia in senso formale che in senso sostanziale.

La Costituzione, nel declinare il principio di uguaglianza formale, lo lega non tanto nella pari dignità degli individui, intesa in senso astratto, quanto alla pari dignità sociale, segno evidente della volontà di superamento dell’individualismo liberale delle carte ottocentesche, che ci permette di considerare il cittadini come uomo sociale, punto di riferimento individuante la socialità dell’uomo25

. Questo fattore è facilmente astratta, statisticamente elaborata in funzione di un valore immanente dal quale l’ordinamento non può prescindere, ma definisce l’essenza di un giudizio di relazione che, come tale, assume un risalto necessariamente dinamico”.

24 G.FERRARA, La pari dignità sociale (appunti per una ricostruzione) , in Scritti in onore di G.Chiarelli, II, Milano, 1974, p. 1104 ss.

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distinguibile quando osserviamo che la nostra Carta costituzionale, al secondo comma dell’art 3, dichiara espressamente che “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. L’attributo sociale è di importanza fondamentale, oltre che connettere come abbiamo anticipato il primo ed il secondo comma dell’art. 3, anche perché lega lo stesso art. 3 con l’art. 2, costruendo una relazione fra consociati che si fonda su una solidarietà politica, economica e sociale Una relazione che vuole il cittadino (polítēs) partecipe delle sorti della politéia, secondo quanto esplicitato nel Titolo IV della Parte prima della Costituzione, dedicato proprio ai “Rapporti politici”. In esso troviamo: il diritto/dovere di voto (art.48), i diritti di associarsi in partiti (art. 49), di rivolgere petizioni alle Camere (art. 50), di accedere agli uffici pubblici ed alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza (art. 51), nonché i doveri di difendere la Patria (art.52), di concorrere alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva (art. 53), di essere fedeli alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, nonché di adempiere con disciplina e onore le funzioni pubbliche eventualmente affidate (art. 54)26. Di notevole importanza è anche il dovere di cui al secondo comma dell’art. 4 della Costituzione “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”; qui non si ragiona in termini sinallagmatici, non per forza bisogna dare/fare qualcosa al fine di ottenere qualcos’altro, tradotto non necessariamente si parla di prestazioni lavorative.

Al giorno d’oggi, dove l’individualismo è sostituito dal personalismo: al centro c’è la persona con il suo diritto di determinarsi, con la sua libertà di coscienza, con la sua legittima necessità di sentirsi garantiti i suoi diritti, ed

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ancora una volta ciò si desume, anzitutto, dalla lettura degli artt. 2 e 3 Cost. Come può la dimensione dinamica del concetto costituzionale di libertà incidere sulle declinazioni del concetto di dignità? Non c’è alcun dubbio che la nostra Costituzione guardi alla dignità come una sorta di dote, in quanto diritto di ognuno ad essere trattato come uomo, al pari degli altri uomini, in qualsiasi ambito si vada a trattare. Di ciò ne abbiamo conferma anche leggendo l’art. 41 della Costituzione: “L’iniziativa economica […] non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, norma che pone la dignità umana, insieme alla sicurezza ed alla libertà, come limiti alla libertà d’iniziativa economica privata, in bilanciamento con il principio di non contrastare l’utilità sociale.

In un contesto come il nostro di globalizzazione, che negli ultimi anni sta caratterizzando l’economia mondiale, in cui lo sviluppo ed il rispetto della persona rischiano seriamente di restare obiettivi utopistici se messi a confronto con la logica economica di profitto e business, il richiamo esplicito al concetto di dignità umana assume un rilievo molto importante ai nostri giorni, al di là del significato - che non interessa ai fini della seguente trattazione – che volevano attribuirgli i nostri costituenti.

Ma anche la disposizione dell’art. 36 ci porge della basi per una riflessione sulla dignità, citando espressamente “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa […]” esprime una forma di tutela, quella del lavoratore, che forse mai come adesso interessa giurisprudenza e dottrina sotto ogni profilo; il timore di una sua valenza soltanto retorica e di principio astratto, è superato se si tengono presenti le applicazioni sempre più specifiche che ne sono state fatte dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale negli ultimi anni, di cui alcuni esempi saranno riportati nei prossimi paragrafi.

Dignità come dote può esser letta anche nell’art. 32 Cost, dove si dice che “[…]Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario

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se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”. In questo caso non troviamo nessun esplicito richiamo al termine dignità, ma è evidente che laddove si parli di rispetto della persona umana, cosi come dai combinati disposti con le precedenti disposizioni, non si può fare a meno di considerare intrinseco l’argomento oggetto di tesi. Ma questa declinazione di dignità come dote, è veramente l’unica tenuta in considerazione dai nostri costituenti? Oppure al di là di ciò che in qualche maniera è dovuto, possiamo guardarla anche attraverso un’ottica di un qualcosa che l’uomo si è conquistato con le sue azioni? Proviamo a guardare altre disposizioni, come ad esempio l’art. 34 troviamo il riferimento “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno il diritto di raggiunger i gradi più alti degli studi”, quindi sicuramente una risposta in positivo alla precedente questione. Ancora, se guardiamo all’art. 48, ultimo comma, troviamo “il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”, quindi un’accezione sicuramente in negativo stavolta del concetto di dignità. Ciò ci fa capire che il Costituente non aveva come riferimento culturale esclusivo quello della dignità come dote, potendosi a quella dimensione accompagnarsi anche quella della dignità come prestazione, come risultato da raggiungere nel processo di autodeterminazione o di autorealizzazione di ciascuno27.

Si tratta di prospettive che sicuramente non sono inconciliabili, partendo dall’assunto che possano coesistere quelle due dimensioni della dignità che abbiamo visto al termine del precedente paragrafo: la dignità innata, che spetta all’uomo in quanto tale e che non può mai essere condizionata dalle sue azioni o mancate azioni (altrimenti l’uomo sarebbe esposto al diventar cosa) e la dignità acquisita, come retribuzione della virtù, frutto dell’impegno profuso nella vita da ciascuno.

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Ogni individuo, in quanto titolare della dignità “innata”, ha diritto di essere messo nelle condizioni di poter sviluppare la sua personalità, nella misura più ampia possibile, ma chiaramente lo sfruttamento o meno delle occasioni dipenderà dalle sue azioni, delle quali è personalmente responsabile.

E’ ovvio che da un punto di vista costituzionale non sarà mai possibile una completa privazione dei diritti, ma solo una limitazione del loro esercizio che sia proporzionata alla gravità del comportamento tenuto. Non basta, peraltro, concedere la chance di una vita degna, limitandosi a rilevare che se questa non è sfruttata possono seguire sanzioni sul piano morale, religioso e giuridico, occorre che sia sempre data la possibilità di riconquistare la dignità acquisita. Ed è in quest’ultimo senso che può leggersi la funzione della pena come la rieducazione del reo, art. 27 Cost, come impegno a mettere il detenuto nelle condizioni di reinserirsi socialmente e di realizzare cosi la sua dignità acquisita, in tutto o in parte pregiudicata dai comportamenti non conformi alle regole che hanno portato alla sentenza di condanna.

La seguente trattazione continuerà, dopo una piccola parentesi in cui verranno viste le origini del carcere e tutte le fasi successive che hanno portato ai nostri giorni, ad un’analisi di come viene interpretata e sviluppata la tutela della dignità della persona proprio in un ambito quale quello della detenzione.

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1.4 Origini del carcere e mutamento delle pene

"Da millenni gli uomini si puniscono vicendevolmente - e da millenni si domandano perché lo facciano"28.

Non è semplice cercare di circoscrivere le teorie legate alla nascita delle prigioni, sia perché il singolo concetto di carcere non riesce a svolgere la sua funzione, sia per il modo in cui viene gestito lo stesso concetto solitamente. Pensare all'origine del carcere, ai motivi della sua affermazione, è pensare ad un dilemma, ad una contraddizione interna alla nostra società.

Non è sicuramente compito da poco ricostruire la storia delle origini del sistema carcerario, né interessa alla nostra trattazione entrare nello specifico di ogni singolo periodo riformatore in tal senso, occorre però contestualizzare quelli che possiamo definire gli “step” che hanno portato alla attuale definizione di carcere. Nel corso dei secoli, sotto lo stesso nome, sono state accomunate esperienze diverse sia per nome, sia per modalità di funzionamento, sia per caratteristiche della loro istituzione, sia per le finalità che esse intendevano perseguire, sia per le diverse discipline che le caratterizzavano; esperienze che si sono trovate a coesistere anche per lunghi periodi di tempo29 . Il carcere appare oggi una realtà che è sempre esistita e che sarà sicuramente sempre necessaria per un corretto funzionamento del sistema penale. Tale visione, storicamente inesatta, dipende dal fatto che, negli ultimi due secoli, si è assistito al definitivo tramonto delle pene corporali (salvo il caso della pena capitale in alcuni Stati) ed al progressivo affermarsi della pena detentiva - graduabile e

28

E. WIESNET, Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto tra

cristianesimo e pena, Giuffrè Editore, Milano, 1987, p. 13.

29 Si pensi, in primo luogo, alla particolare, per l'epoca, forma di carcere adottata dalla chiesa cattolica.

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proporzionabile in ragione del tempo- come la principale tra le sanzioni criminali"30.

Che cosa è stata dunque, cosa è e cosa sarà in futuro la prigione? Il carcere non è sempre stato il carcere che conosciamo, sia nella forma “materiale”, sia nei contenuti istituzionali.

Sino alla seconda metà del 1700 le prigioni non erano difatti concepite come "istituzioni totali, finalizzate alla pacifica e fruttuosa convivenza di tutte le componenti del mondo carcerario e al recupero sociale dei detenuti"31, ma erano considerate come "meri strumenti di afflizione e di reclusione"32; il carcere era, insomma, un luogo di custodia dell'imputato o del debitore, mentre nell'epoca moderna il carcere diventa la principale modalità di esecuzione della sanzione penale. Durante lo svolgimento del processo, la privazione della libertà personale dell'accusato ne impediva la fuga, permettendo di istruire la causa e di pervenire alla decisione; dopo la condanna, garantiva l'esecuzione della sentenza. Si può probabilmente sostenere che l'origine del carcere moderno non si trovi in quei luoghi di custodia, ma in un insieme di istituzioni chiuse pensate per altri scopi sociali: ospedali, ospizi, alberghi per poveri, case di correzione. Non è un caso, infatti, che il carcere moderno nasca e si sviluppi insieme alle fabbriche, alle banche, agli ospedali e ai manicomi. Tornando un po’ indietro nel tempo, possiamo notare come il diritto romano cominciò a intendere il carcere come forma di grave afflizione da riservarsi ai criminali peggiori, perché iniziassero a soffrire prima ancora della materiale esecuzione della condanna capitale. Ancora, nel periodo dell’Alto medioevo "non era tanto il carcere come istituzione ad essere ignorato dalla realtà feudale, quanto la pena dell'internamento come privazione della libertà"33,

30

G. TESSITORE, L'utopia penitenziale borbonica, Dalle pene corporali a quelle

detentive, Milano, 2002, p.22.

31

G. TESSITORE, Op. Cit., p. 22. 32 G. TESSITORE, Op. Cit., p. 22.

33D. MELOSSI e M. PAVARINI, Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario

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per tutto il periodo feudale si poteva quindi parlare di carcere preventivo e carcere per debiti, ma non si poteva "affermare che la semplice privazione della libertà, protratta per un periodo determinato di tempo e non accompagnata da alcuna sofferenza ulteriore, fosse conosciuta e quindi prevista come pena autonoma ed ordinaria"34. Con lo spostamento della gestione del potere penale dalla comunità locale a un organismo centrale sempre più influente, la pena pecuniaria si era trasformata da una compensazione della parte offesa in un metodo per arricchire giudici e funzionari di giustizia riservato ai soli benestanti, mentre le pene corporali diventarono la tipica sanzione da comminare nei confronti di coloro che non erano in grado di ottemperare a certi obblighi35. Anche per tutto il Basso medioevo la funzione del carcere era quella di "luogo di custodia provvisoria per gli imputati in attesa di giudizio o dell'esecuzione dell'estremo supplizio o delle pene corporali”36

. Fu il diritto penale canonico che per primo, in un periodo che risale ai secc. V e VI, per opera della chiesa romana, gotica e visigotica, adottò la pena carceraria nella forma di reclusione in monastero; monasteri e prigioni vescovili erano destinati principalmente ai chierici che avevano commesso reati ed agli eretici, chierici o laici; la storia degli istituti penitenziari della chiesa si intreccia con quella dell'inquisizione. Il regime carcerario del diritto canonico era estremamente duro e prevedeva espressamente, a scopo di espiazione e penitenza, la sofferenza fisica del condannato, che era tenuto in isolamento assoluto, in locali stretti ed impervi, senza poter fare nulla ed a rigoroso digiuno. La situazione economico-sociale cambiò di nuovo verso la metà del XVI secolo: l'offerta di lavoro si fece più scarsa, sia in conseguenza dell'allargamento dei mercati sia a causa delle guerre e delle epidemie, che

34

D. MELOSSI e M. PAVARINI, Op.Cit., p. 21. 35

D. GARLAND Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale., Il Saggiatore, Milano, 1999, p. 137.

36 G. NEPPI MODONA, Istituzioni penitenziarie e società civile, in La costruzione sociale

della devianza, a cura di M. Ciacci e V. Gualandi, Società editrice il Mulino, Bologna,

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causarono una drastica riduzione della popolazione. Cominciò così un periodo di acuta carenza di manodopera. "I salari dei lavoratori salirono e le condizioni di vita delle classi inferiori migliorarono notevolmente. Gli uomini divennero preziosi e pigri: prima di mettere a disposizione la propria forza lavoro ci si pensava bene. I guadagni degli imprenditori scesero, l'economia decadde. Si cercò allora di sostituire la carente pressione economica con la coercizione"37. Questo è il sistema del Mercantilismo; in tale situazione di scarsità della forza-lavoro sarebbe stata una crudeltà economicamente insensata continuare a punire i delinquenti. La pena della privazione della libertà prende il posto delle pene corporali e capitali, l’umanità prese il sopravvento sulla gratuita crudeltà; al posto dei luoghi di supplizio si eressero case di correzione. Questa nuova forma di 'umanità' era difatti assai redditizia. Non è un caso nel periodo moderno si affermano tre particolari forme di sanzione, quali la servitù sulle galere, la deportazione ed i lavori forzati, tutte attività che comportano lo sfruttamento della forza lavoro dei condannati. Oziosi, ladri, vagabondi e autori di reati minori vengono così sottoposti al lavoro obbligatorio e ad una rigida disciplina. Nel corso dello sviluppo di tali istituzioni, furono internati anche condannati per delitti gravi e pene lunghe, giungendo in larga parte a sostituire con il carcere gli altri tipi di punizione. Per molto tempo tuttavia non vi fu alcuna rigida classificazione e separazione delle varie categorie umane e giuridiche internate. Si assiste al passaggio dalla società medievale a quella industriale; cominciò a formarsi, seppure a livello embrionale, quella classe che in seguito sarà appellata col termine proletariato. In questo periodo l'internamento coatto assunse la funzione di mezzo di addestramento della forza lavoro alle esigenze dei nuovi meccanismi di produzione. Con la formazione degli stati assoluti si intensificarono le pene corporali, sia per quanto riguarda il loro numero, sia per quanto riguarda la loro crudeltà; lo

37 G. RUSCHE, Il mercato del lavoro e l'esecuzione della pena., Riflessioni per una sociologia della giustizia penale, in Dei delitti e delle pene: Rivista di studi sociali,, storici

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stato assoluto "si autorappresenta e si legittima come tale nel momento dell'esecuzione della pena, ricorrendo a una inquietante ostentazione della propria potenza militare e appellandosi a un diritto e ad una autorità proveniente da Dio. In questo contesto politico, l'esecuzione della pena è una delle tante cerimonie utili ai sudditi e al sovrano per misurare concretamente la distanza che li separa, e per mostrare la forza dell'autorità. L'esecuzione pubblica diviene uno spettacolo teatrale in cui il potere assoluto del sovrano è mostrato pubblicamente sul corpo del condannato" 38. Fu durante questo lasso di tempo che la giustizia penale fece il passo decisivo, dal settore privato al settore pubblico. La penalità divenne un aspetto dell'autorità statale, e ciò portò ad inasprire le pene, che assunsero il ruolo di esemplarità, sia perché la percentuale di crimini era in aumento, sia perché il crimine assunse un carattere classista. "Man mano che il sistema di giustizia penale si allontanava dalla sua forma originale, cioè di mezzo per risolvere controversie tra eguali, esso diventava sempre più un sistema a base classista. Quindi cominciarono a scomparire i vincoli legali e morali all'uso della forza fisica nelle punizioni" . Fu in questo periodo che gli illegalismi diffusi, che nelle epoche precedenti avevano permesso al sistema economico e sociale di mantenersi stabile, cominciarono a venire mal tollerati dalla classe borghese emergente. Ma se il sistema delle case di correzione apportò benefici economici alle classi che posero in essere tali misure, pure tale redditizio sfruttamento venne poco alla volta meno; "il lavoro nelle case di correzione cominciò a scarseggiare, si ricominciò a punire i vagabondi con la frusta e con il marchio anziché con l'internamento; tuttavia la pratica della casa di correzione fece si che sempre più comunemente la punizione predisposta fosse di tipo detentivo e questa assorbì poco alla volta la vecchia...prigione di custodia"39. Il lavoro scomparve completamente dalla prigione, si tornò alla pratica esiziale del profitto privato del guardiano, scomparve ogni tipo di classificazione e

38 D. GARLAND op.cit., p. 309.

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differenziazione, per quanto grossolana potesse essere stata praticata in precedenza. I fragili equilibri sociali precedenti vennero sconvolti da una "eccezionale accelerazione del ritmo di sviluppo economico, il fenomeno della rivoluzione industriale". Al grande incremento del pauperismo corrispose, necessariamente, un ampio acutizzarsi del problema della gestione di una criminalità dilagante. Le istituzioni internanti assunsero quindi in questo periodo un carattere prettamente terroristico; esse non servivano più per ottenere manodopera a buon mercato in presenza di carenza di forza lavoro; adesso il loro scopo era quello di convincere le classi subalterne ad accettare qualunque condizione di lavoro offerta loro dal mercato, pur di non finire rinchiusi in luoghi che di umano conservano ben poco. La rivoluzione industriale ha ormai reso "obsoleto e inutile il lavoro forzato nelle carceri e semmai più pressante una aperta esigenza di intimidazione e di controllo socio-politici"40. Fu in questo periodo che si impose il noto concetto di less elegibility41ed è pure in questo periodo che le aspirazioni di controllo e di intimidazione si concretizzarono, almeno a livello teorico, nel progetto architettonico di Bentham, il Panopticon, che oltre ad essere un luogo di esecuzione della pena fu luogo di osservazione per il prodursi di un sapere clinico riguardante i detenuti; tale attitudine, come ha rilevato Foucalt, sarà applicabile a un ampio numero di istituzioni sociali. Il carcere cominciò a proporsi come soluzione applicabile al posto delle innumerevoli punizioni corporali che avevano accompagnato l'umanità sin dalle sue origini; il carcere è visto finalmente come organizzazione esclusivamente destinata alla punizione dei trasgressori della legge penale. In questo contesto si inserisce, e ne determina il realizzarsi, l'opera dei

40

D. MELOSSI e M. PAVARINI, Op. cit., p. 77. 41

"Il principio della less elegibility, formulato soprattutto dagli scrittori sociali inglesi del diciottesimo secolo, richiede che il livello di esistenza garantito dalle istituzioni carcerarie (o dalla assistenza) sia inferiore a quello della fascia sociale operaia più bassa, in modo che il lavoro sottopagato sia comunque preferibile alla condizione carceraria o all'assistenza, ciò al duplice scopo di costringere al lavoro e salvaguardare la deterrenza della pena". (G. RUSCHE, Op. Cit., p. 12).

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pensatori Illuministi, il cui più illustre e famoso rappresentante, Cesare Beccaria, interpretando e sintetizzando in modo lucidissimo il pensiero dell'epoca, segnò il decisivo superamento delle pene corporali e infamanti, oltre che del larghissimo ricorso alla pena di morte, che aveva caratterizzato il diritto penale durante l'Ancien regime. Vi fu una razionale e calcolata critica nei confronti della eccessiva severità delle pene, fino ad allora mantenuta al fine "di inculcare un sincero senso di rispetto per l'autorità nelle classi inferiori"42.

La detenzione divenne pena principale, secondo lo storico Jacques Leauté43, a partire dalla Rivoluzione Francese del 1789 e dalla successiva formalizzazione del codice penale, prima inesistente, approvato nel 1791. In precedenza, esistevano una prigione e una privazione della libertà individuale, non statuita, che la rivoluzione francese codificò nel sistema penale- penitenziario moderno.

Ma secondo quali criteri, misure, codici, un essere umano poteva essere privato del bene più prezioso? Secondo quali teorie o arbitri un essere umano poteva decidere della vita – e conseguentemente di tutti quei valori che oggi definiamo “costituzionali” – di un altro essere umano, privandolo della libertà e della sua “dignità”?

In Francia e nel resto d'Europa, la pena detentiva, alla fine del 1700, e dopo l'approvazione del "code penal" del 1810, divenne il mezzo di espiazione e di guarigione dei criminali.

Nel corso della Restaurazione, sotto i Borboni, accogliendo le idee da oltreoceano, che consideravano il carcere come strumento di conversione morale dei prigionieri tramite la preghiera e il lavoro, la cella divenne un luogo di isolamento e penitenza. Il che portava spesso i reclusi alla pazzia44.

42

M. WEISSER, Criminalità e repressione nell'Europa moderna , Bologna 1989, p. 117. 43 J. LEAUTE’, Les prisons, PUF, Paris 1968.

44 Sulle prigioni protestanti del nuovo mondo, cfr. A. TOCQUEVILLE e G. DE BEAUMONT, La democrazia in America, Rizzoli, Milano 1992.

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Quello che a noi interessa è sicuramente il rapporto che lega a doppio filo la “cella” e le modalità di detenzione con quella che è l’integrità psico-fisica del carcerato.

La funzione della cella, non è sempre stata quella di privare il colpevole della libertà a titolo di punizione principale, recludere gli accusati era semplicemente un modo per controllarli prima e durante il giudizio, una sorta di quella che oggi chiamiamo misura cautelare. In Francia durante l'Ancien Regime, il condannato veniva rinchiuso prima di essere consegnato al boia. In generale dunque non si pensava che la cella potesse essere una pena capace di privare gli uomini della loro libertà e della loro dignità. Prima del 1789, la reclusione temporanea o fissa in una casa di forza, non era che una delle tante pene possibili. Le prigioni erano grosse sale comuni di un edificio pubblico. Tuttavia, la promiscuità, l'ozio, la sporcizia, il freddo e la malattia non risparmiavano nessuno, neanche le donne e i bambini. Di qui a poco infatti, l'orrore delle prigioni suscitò per reazione un movimento di carità, promosso da san Vincent de Paul. In alcuni paesi si incominciarono a costruire prigioni con prospettive più umane, concepite come un luogo in cui i colpevoli potevano essere trasformati in persone migliori.

Espiazione dei "peccati", esempio per la società, miglioramento e neutralizzazione degli individui, queste sono le quattro funzioni attribuite alle sanzioni penali, le quali hanno variato di importanza nel corso della storia delle prigioni. Divenne dunque necessario creare dei luoghi in cui fosse facilitata la conversione morale dei malfattori.

Michel Foucaul45 è tra gli studiosi che hanno descritto l'improvvisa e massiccia crescita delle case di internamento nel XVII sec. In pochi decenni, migliaia di esseri umani furono rinchiusi in grandi istituzioni, che in Francia presero il nome di "ospedali", in Germania e Olanda di "penitenziari", e in Gran Bretagna di "case di correzione". Chi fu internato? Fonti storiche relative a diversi paesi d'Europa, indicano che si tratta di poveri vagabondi,

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mendicanti, gente senza lavoro e fissa dimora, che commetteva delitti contro la proprietà.

A Londra, venne trasformato un palazzo, il Bridwell, in officina di lavoro, obbligatoria ed educativa per i vagabondi. Ad Amsterdam, venne costruita una prigione in cui appunto il lavoro e l'educazione religiosa, contribuivano alla trasformazione dei detenuti. Sessant'anni dopo, nell'Italia cattolica del 1667, un monaco di Firenze, Filippo Franci, costruì un centro destinato agli adolescenti; egli stabilì un regolamento fondato sul rispetto della disciplina e del silenzio. La tappa successiva, viene situata fuori dall'Europa. Nel 1682, sotto la guida di William Penn, i quaccheri, puritani inglesi sbarcano in Pennsylvania. In un codice penale , redatto ben prima della Rivoluzione francese, essi trasformano la pene carceraria a rango di pena principale. La privazione della libertà deve essere scontata in case destinate a migliorare i detenuti (houses of correction).

Questi "progressi" non toccano però le prigioni laiche. A questo proposito il monaco francese Mabillon, si trova a tracciare le linee principali di tale situazione in una parte delle sue Reflexions sur les prisons des ordres religieux: "Nella giustizia secolare, si è cercato principalmente di conservare e restaurare l'ordine e di imprimere il terrore ai malvagi. Nella giustizia ecclesiastica, invece, si è guardato alla salute dell'anima. Nella giustizia secolare, è la severità e il rigore che presiedono gli ordinamenti; tuttavia è lo spirito di carità, di compassione e di misericordia che deve avere il sopravvento nella giustizia ecclesiastica"46.

Montesquieu per primo, poi Rousseau e Voltaire ed altri enciclopedisti, manifestarono la necessità di intervenire sullo spirito pubblico. Reclamavano una riforma della giustizia criminale e denunciavano l'arbitrarietà e la crudeltà delle pene. Qui si riallaccia il pensiero illuminista del nostro Cesare Beccaria, che, come anticipato, all'età di ventiquattro anni, pubblicò il Trattato dei delitti e delle pene, proponendo una nuova concezione del diritto criminale. La vecchia ricerca della sofferenza, deve

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