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Il secolo del vivente: vitalismo materialistico, sensismo e storia naturale

4. Piano della tesi

1.3 Il secolo del vivente: vitalismo materialistico, sensismo e storia naturale

L’organizzazione, questo principio capace di conferire unità e finalizzazione agli aggregati materiali, acquisirà una sempre maggiore centralità nel corso del XVIII

269François Duchesneau, Les modèles du vivant de Descartes à Leibniz, cit., p. 337.

270Philippe Huneman, “Kant vs. Leibniz in the Second Antinomy: Organisms are not infinitely subtle machines”, cit., p. 163, definisce in questi termini la “differenza tra tecnica e tecnica infinita”.

271Cfr. Sergio Moravia, “Dall'«homme machine» all'«homme sensible». Meccanicismo, animismo e vitalismo nel secolo XVIII”, Belfagor, vol. 29, n. 6, 1974, p. 638.

secolo. È a quest'altezza che tale dibattito sullo statuto dei viventi comincia ad affrancarsi dalle istanze della teologia, e dal ricorso a una causa spirituale per la spiegazione della specificità del fenomeno vitale. Il concetto di organizzazione, nonostante l'ambiguità leibniziana, servirà successivamente a catalizzare l’attenzione sulla capacità della materia stessa di acquisire configurazioni dotate di una legalità più complessa di quella concessale dal meccanicismo cartesiano. Nel Settecento viene così a maturazione quello che è stato definito un “materialismo vitalistico”, in cui cioè la differenza irriducibile tra organico e inorganico (che rappresenta l’assunto di fondo di ogni forma di vitalismo) è indagata nelle sue cause materiali. Questo nuovo tipo di problematizzazione rappresenta una delle condizioni di possibilità della nascita della biologia all'inizio del XIX secolo: “Una scienza cui non occorse sacrificare la razionalità per mantenere desta al massimo nella coscienza la specificità del vivente”272

All'esigenza di spiegare i fenomeni vitali senza alcun ricorso a principi metafisici si associa quella di stabilire una soglia di demarcazione netta tra il campo dell'organico e quello dell'inorganico, come segnalerà Diderot in una celebre frase: “ammetterete infatti che vi è molta maggior differenza fra un pezzo di marmo e un essere che sente che fra un essere che sente e un essere che pensa.”273 Pensiero che condensa due aspetti della

polemica contro il cartesianismo che accomunano molte delle filosofie nascenti nel secolo dei Lumi: la critica alla teoria meccanicista dei viventi e quella al razionalismo gnoseologico. La sensibilità rappresenta infatti ciò che accomuna l'animale all'uomo, e distingue ambedue dalla materia inerte. La sensibilità, dirà Diderot poco più avanti, non è tuttavia che il “prodotto dellʼorganizzazione”:274 è cioè in virtù di un processo di

emergenza che la materia viva si differenzia dalla materia inerte.

Vedete questʼuovo? Con questʼuovo si rovesciano tutte le scuole di teologia e tutti i templi della terra. Che cosa è questʼuovo? Una massa insensibile prima che il germe vi sia introdotto; e dopo che il germe vi è stato introdotto, che cosʼè? Ancora una massa

272Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, cit., p. 143. 273Denis Diderot, Colloquio fra d’Alembert e Diderot, in Opere filosofiche, cit., p. 177.

274Ibidem, p. 187. E ancora, nellʼInterpretazione della natura: “Fra la materia morta e la materia vivente si può forse determinare qualche altra differenza, oltre lʼorganizzazione e la spontaneità reale o apparente del movimento?” (Denis Diderot, Interpretazione della natura, Editori Riuniti, Roma 1995, p. 91).

insensibile, perché il germe non è esso stesso che un fluido inerte e grossolano. In che m o d o questa massa passerà a unʼaltra organizzazione, alla sensibilità, alla vita? Mediante il calore. Chi produrrà il calore? Il moto. […] Questo animale si muove, si agita, grida; […] soffre, ama, desidera, gode; possiede i medesimi vostri affetti, è capace di tutte le vostre azioni, le compie. Pretendete forse, con Cartesio, che si tratta di una semplice macchina imitatrice? Anche i bambini si burleranno di voi e i filosofi vi replicheranno che se questa è una macchina, siete una macchina anche voi.275

Lʼuovo è per Diderot l'emblema di un nuovo interrogativo sull'origine della vita indagata nei suoi processi genetici materiali. Nelle teorie dell'epigenesi Diderot trovava dunque una conferma al proprio monismo ontologico, in cui la differenza è solo un passaggio a forme di organizzazione diversa. Rispetto all'uso che Leibniz aveva fatto del concetto di organizzazione, dunque, Diderot ne fornisce una versione profondamente materialistica. Leibniz e Pierre Louis Moreau de Maupertuis sono accusati infatti di aver “plutôt spiritualisé la Matière, que matérialisé l'Âme.”276

Maupertuis, specialmente, aveva ripreso la monadologia leibniziana per applicarla al fenomeno vitale facendo delle monadi “les éléments premiers de la matière, dotés de perception et de force”.277 La monade diveniva dunque il modello teorico di un

atomismo vitalistico che tentava di localizzare le facoltà vitali nelle parti minime della materia.278 Diderot dedica alcune pagine del suo Interpretazione della natura,279 proprio

alla teoria maupertuisiana delle monadi come “minima viventi”:280 non solo per Diderot,

come per La Mettrie, la materia ne risultava spiritualizzata, ma il ricorso a particelle

275Denis Diderot, Colloquio fra d’Alembert e Diderot, in Opere filosofiche, cit., p. 186, corsivo mio. 276Julien Jean Offroy de La Mettrie, L'Homme Machine, Luzac, Leyde 1747, p. 11.

277Pierre Louis Moreau de Maupertuis, “Sur les monades” (Lettre VIII), in Lettres de Maupertuis, Dresden 1752, p. 57.

278Secondo Canguilhem questa traduzione biologica del concetto metafisico di monade ispirò un'idea altamente teoretica dello studio della vita: una sorta di “pitagorismo biologico […] in cui la forma primitiva universale è la sfera e la sfera biologica fondamentale è la cellula”. Alla ricerca delle unità minime della vita, una tale monadologia biologica preparerà a suo modo il terreno per le prime teorie cellulari dell'inizio dell'Ottocento. Cfr. Georges Canguilhem, “Appendice II, Nota sui rapporti della teoria cellulare con la filosofia di Leibniz”, La conoscenza della vita, cit., pp. 262-263.

279Diderot critica Maupertuis nelle aggiunte al suo Interpretazione della natura del 1753, in seguito alla pubblicazione di Maupertuis della sua Dissertatio inauguralis metaphysica de universali naturae

systemate, 1751. Maupertuis a sua volta replica alla critica nell'Essai sur la formation des corps organisés.

280L'espressione “living minima” è di Charles T. Wolfe, “Endowed Molecules and Emergent Organization: The Maupertuis-Diderot Debate”, Early Science and Medicine, n. 15, 2010, p. 39.

materiali intrinsecamente vitali rappresenta ancora una volta una soluzione dualistica al problema della vita. Anziché ricorrere a due differenti sostanze, Diderot preferisce concepire la differenza tra fenomeni organici e inorganici come il frutto di un processo di emergenza e organizzazione.

Nel suo monismo ontologico e gnoseologico, Diderot oltre a ricercare l'origine della vita nella materia inerte, pensa a sua volta lʼorigine della razionalità nella sensibilità, e quella della sensibilità nellʼinsensibilità. Così la materia possiede diversi gradi di sensibilità, che sfumano nel torpore letargico dei vegetali, e perfino nel “tatto ottuso e sordo” della materia inerte che, in quanto facoltà di subire gli urti e il movimento, rappresenta il grado più basso e passivo dellʼinterazione materiale.281 In

questi concetti ossimorici di “sorda sensibilità”, “tatto ottuso e sordo”, “inquietudine automatica” e “sensibilità inerte”282 Diderot esprime forse nella maniera più radicale e

affascinante la tensione e la sfida di fondo del materialismo vitalistico settecentesco: riunire lʼorganico e lʼinorganico in un rapporto di continuità senza riduzione.

A fare della sensibilità il principio fondamentale di un processo di autonomizzazione delle scienze della vita dal meccanicismo delle scienze fisiche è d'altronde, negli stessi anni, Albrecht von Haller che nel 1752 scrive il De partibus corporis humani sensilibus et irritabilibus. In quest'occasione il medico tedesco riprende il concetto d'irritabilità coniato da Francis Gilson nel 1672 nel suo De naturae substantia energetica, per mostrare come l'organismo rompa la simmetria tra stimolo e risposta all'urto, tipica della fisica classica. La sensibilità viene inoltre concepita da Haller secondo un grado ulteriore di complessità: laddove l'irritabilità è un fenomeno sostanzialmente locale e muscolare, la sensibilità agisce in maniera globale e a livello nervoso. Il muscolo può infatti venire stimolato localmente, senza che il resto dellʼorganismo ne risenta, mentre quando sono le parti innervate a essere stimolate si

281“In conseguenza di questa sorda sensibilità, e della differenza fra le varie configurazioni, per una qualsiasi molecola organica sarebbe stata possibile una sola disposizione […]. [L]'animale in generale [potrebbe essere definito] come un sistema di differenti molecole organiche che si sono combinate, – seguendo l'impulso di una sensazione simile a un tatto ottuso e sordo dato loro da colui che ha creato la materia in generale, – fino a trovare ciascuna il posto più conveniente alla propria figura ed alla propria quiete.” (Denis Diderot, Interpretazione della natura, cit., p. 79).

282Diderot distingue tra una “sensibilità attiva” e una “sensibilità inerte” nel suo Colloquio fra

D'Alembert e Diderot, cit., p. 175: “una sensibilità attiva caratterizzata da certi atti significativi

nell'animale e forse nelle piante; e una sensibilità inerte che si rivelerebbe mediante il passaggio ad uno stato di sensibilità attiva.”

scatena una reazione che coinvolge tutto l'organismo. Facendo del movimento della materia viva un fenomeno radicalmente differente da quelli studiati dalla fisica, Haller rivendicava un'autonomia epistemologica della fisiologia rispetto alle altre scienze naturali.

La questione della sensibilità assume dunque una funzione cruciale nel dibattito fisiologico e filosofico settecentesco. Si è visto come Diderot avesse imperniato la duplice critica del sistema meccanicista e razionalista cartesiano proprio sulla sensibilità, che accomuna i viventi e li distingue dalla materia inerte: laddove il vitalismo rivendica la necessità di stabilire una soglia (ontologica o epistemologica che sia) tra organico e inorganico,283 il sensismo insisterà principalmente sulla necessità di

revocare la soglia tra sensibilità e ragione consolidata dal razionalismo cartesiano. Se Étienne Bonnot de Condillac adotta il dubbio metodico cartesiano e la messa in mora del sistema di conoscenze tradizionali, ritiene conseguentemente necessaria unʼindagine sui processi di formazione della conoscenza: “Descartes non ha conosciuto né lʼorigine né la generazione delle nostre idee. A questo bisogna attribuire lʼinsufficienza del suo metodo.”284 È proprio al momento fondativo del cogito, sul quale Descartes aveva

ricostruito l'intero edificio del sapere, che Condillac rivolge la critica più radicale,

283Non si potrà che ridurre a un cenno quello che costituirebbe un capitolo fondamentale del vitalismo settecentesco, che coincide con la scuola medica di Montpellier. È proprio in riferimento alle dottrine fisiologiche dei suoi principali rappresentanti, Théophile de Bordeu e Paul-Joseph Barthez, che risale il conio del termine vitalismo. Bordeu, che influenzerà profondamente la filosofia naturale di Diderot e redigerà per lui alcuni articoli dellʼEncyclopédie di ambito medico, condividerà alcuni aspetti di fondo del sensismo, pur rigettandone altri. Mentre per la medicina iatromeccanica la vita è sostanzialmente movimento, per quella vitalista di Bordeu, essa è infatti sostanzialmente sensibilità. Oltre al modello iatromeccanico di uomo-macchina, Bordeu, e con lui Diderot, criticava però anche il modello sensista dellʼuomo-statua. “A differenza infatti dellʼuomo-statua, lʼorganismo vivente non vive una vita determinata esclusivamente dallʼambiente esterno e dalle modificazioni prodotte da questo. Costituito da centri senzienti e dinamici, lʼuomo di Bordeu possiede anche una sua complessa vitalità interna. I suoi organi svolgono determinate funzioni, producono determinate sensazioni, interagiscono fra loro anche indipendentemente dagli stimoli esterni. Al privilegiamento (talvolta un poʼ generico e superficiale) del milieu compiuto dalla scuola sensistica si contrappone questo recupero dellʼintérieur organico dellʼuomo, che nella seconda metà del ʼ700 parrà a qualche philosophe per più aspetti indispensabile.” (Sergio Moravia, “Dall'«homme machine» all'«homme sensible». Meccanicismo, animismo e vitalismo nel secolo XVIII”, cit., p. 646). La concezione “ambientalistica” di Helvétius, in particolare, che accentuava lʼidentificazione della conoscenza con la passività dei processi percettivi, sembrava a Diderot incorrere nel rischio di un determinismo ambientale che toglieva qualunque funzione alla corporeità intesa come intérieure.

284Étienne Bonnot de Condillac, Saggio sull’origine delle conoscenze umane, in Opere, UTET, Torino 1976, p. 80.

proponendo di sostituire allʼio penso un io sento che permetta di condurre un'indagine empirica sulla genesi del processo conoscitivo. Sulla scorta dellʼempirismo inglese di John Locke, chʼegli introduceva negli ambienti illuministi francesi, anche il sensismo elaborava dunque una teoria della conoscenza che, imperniandosi sulla sensibilità, includeva a pieno titolo gli animali. Come gli empiristi inglesi, Condillac dedicherà dunque pagine tuttʼaltro che marginali al problema della conoscenza negli animali. Il Trattato sugli animali, in particolare, prende le mosse da una polemica nei confronti di Buffon, che secondo il filosofo conserva una concezione sostanzialmente meccanicista dell'organismo, in cui la sensibilità è ambiguamente confusa con il “movimento in occasione di un urto”.285 Quelle che, ancora nella fisiologia meccanicista settecentesca

sono definite scosse o scotimenti, sottraggono, secondo Condillac, alla funzione sensoriale ogni dimensione riflessiva. Per il filosofo del sensismo, come prima per Bayle, non si dà al contrario sensazione senza consapevolezza. Si tratta di un punto cruciale: è sulla base dellʼassenza di questa dimensione riflessiva che Descartes negava agli animali il possesso di unʼanima, e riconduceva la sensibilità a un mero meccanismo.286 Il sensismo, al contrario, negando la scissione cartesiana tra attività

intellettuali e attività sensitive, mette la sensazione all'origine di ogni fenomeno di autocoscienza. Nel suo LʼUomo-Macchina, La Mettrie aveva cercato unʼunificazione monistica nella “riduzione” dellʼuomo allʼanimale, cioè in una spiegazione dei fenomeni psichici in termini meccanici. Al contrario Condillac tenta la strada opposta di una “riduzione” dellʼanimale allʼuomo, che permetta di includere tutti i viventi in una teoria della conoscenza formulata a partire dal modello psicologico e gnoseologico umano. Da qui un consapevole e inevitabile “antropomorfismo”, che permette di comprendere i fenomeni sensoriali e psicologici altrui solo “per analogia” con quelli di cui in prima persona ciascuno fa esperienza diretta ed evidente. Condillac rovescia in questo senso il principio dell'evidenza metafisica del cogito, abilitando un antropomorfismo che permetta di comprendere l'interiorità degli animali in analogia con

285Cfr. Étienne Bonnot de Condillac, Trattato sugli animali, in Opere, cit., p. 586.

286Si ricordi infatti che Descartes fondava sull'assenza di autocoscienza anche in presenza di percezione la differenza uomo-animale, cfr. ad esempio: “Gli animali non vedono come noi, quando sentiamo di vedere, ma solamente come quando abbiamo lo spirito rivolto altrove”. (René Descartes, “Lettera del 3 ottobre 1637, in Tutte le lettere 1619-1650, cit.)

la nostra: “Quando si tratta di ciò che si sente, evidentemente è dimostrato per noi soltanto ciò di cui ognuno ha coscienza. Ma poiché non conosco ciò che sentono gli altri uomini, sarà questa una ragione per metterlo in dubbio? […] C'è dunque altro nelle bestie oltre al movimento: non sono puri automi, provano sensazioni.”287

La rifondazione condillachiana della conoscenza sulla sensazione implica inoltre una critica delle teorie innatiste che, nellʼambito della riflessione sulla conoscenza animale, si erano servite del concetto di istinto. Per Condillac gli animali, come gli esseri umani, non hanno idee innate: quelli che a noi sembrano automatismi (o reminiscenze di una conoscenza più nobile perché innata, come voleva Cureau de la Chambre), non sono che il frutto della fissazione di unʼabitudine. Qualunque abitudine, sia essa umana o animale, deriva da un processo di apprendimento che impiega necessariamente la sensibilità: solo in seguito a una serie di tentativi, orientati dai due poli del piacere e del dolore,288 lʼorganismo potrà, nella ripetizione dei comportamenti

efficaci, instaurare quella “buona abitudine” che gli permette di licenziare il continuo ricorso alla riflessione.

Gli animali devono dunque allʼesperienza le abitudini che attribuiamo a essi come naturali. […] La riflessione provvede […] a far nascere le abitudini, a farle sviluppare, ma, via via che le forma, le abbandona a se stesse, e allora lʼanimale tocca, vede, cammina ecc., senza aver bisogno di riflettere su ciò che fa. Così tutte le azioni dovute allʼabitudine sono altrettante cose sottratte alla riflessione289

Non sarà forse superfluo confrontare, agli opposti, i due modelli di riappropriazione del concetto di istinto allʼinterno di una teoria non riduzionista della conoscenza animale: quello di Cureau de la Chambre e quello di Condillac. Il primo valorizzava il carattere innato della conoscenza animale che si palesava nellʼistinto e che, rovesciando lʼutilizzo consueto di questa categoria, permetteva di assegnare agli

287Cfr. Étienne Bonnot de Condillac, Trattato sugli animali, in Opere, cit., p. 584.

288“Il bisogno di evitare il dolore e di cercare il piacere provvede a istruire ogni senso, spinge l'udito, la vista, il gusto e l'odorato a prendere lezioni dal tatto, da contrarre all'anima e al corpo tutte le abitudini necessarie alla conservazione dell'individuo, fa nascere l'istinto che guida le bestie, e la ragione che illumina l'uomo quando le abitudini non bastano più a guidarlo: in una parola fa nascere tutte le facoltà.” (Ibidem, p. 656).

animali una forma di conoscenza ideale. Condillac, al contrario, vede nellʼistinto la fase avanzata di un processo di apprendimento e instaurazione di unʼabitudine orientata dalla sensazione e dalla polarità piacere/dolore. Sono le posizioni antinomiche di queste due teorie della conoscenza animale che devono essere tenute presenti per capire la sintesi operata dall'etologia nel XIX secolo.

Il principio di continuità, cui il monismo diderottiano dava una valenza ontologica e il sensismo una valenza gnoseologica, trova la propria esplicazione più generale nelle grandi trasformazioni subite dalla storia naturale nel corso del XVIII secolo. Rispetto alla scala naturae antica e medievale, che insisteva sull'aspetto gerarchico del concetto di scala, i naturalisti del Settecento accentuano l'idea di una gradualità impercettibilmente sfumata. Secondo Arthur Lovejoy, era stato Leibniz a rilanciare il “principio della pienezza” già platonico secondo cui natura non facit saltus,290

contribuendo così a riempire di sfumature i gradi dell'Essere. La celebre immagine del nastro colorato percorso da un'infinità cromatica attribuita al padre gesuita Louis Bertrand Castel diventa un topos ricorrente della fase illuministica, e Diderot la utilizza nell'articolo “animal” dell'Encyclopédie per suggerire l'impossibilità di circoscrivere nettamente lo statuto dell'animalità, e corroborare l'idea del continuum di vita e materia. È rispetto a tale principio di continuità radicale dei viventi che la storia naturale si porrà il problema della differenziazione zoologica sulla dimensione temporale. È solo allora che la naturalis historia antica assume una connotazione storica in senso moderno.291

Etimologicamente connesso al verbo vedere, il termine greco istorìa indicava infatti “la conoscenza di qualcosa di cui si è stati spettatori”: essa consisteva pertanto nell'esposizione di tutto ciò che è stato osservato nella natura. Questo sistema di descrizione sincronico aveva trovato nel Settecento il suo ultimo grande interprete, Carl von Linné detto Linneo, che aveva approntato il metodo della nomenclatura binominale.292 La sua tassonomia sistematica rispecchiava una concezione scolastica e

290Arthur O. Lovejoy, La Grande Catena dell’Essere, Feltrinelli, Milano 1966.

291Cfr. su questo Giulio Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura. Saggio su Lamarck, Feltrinelli, Milano 1979.

292Carl von Linné, Systema Naturæ, sive, Regna Tria Naturae systematice proposita per classes,

tradizionale dello studio dei viventi, basata sulle categorie formali e universali di genere e specie, corrispondenti a quelle aristoteliche di genos e eidos. Attraverso un sistema consapevolmente artificiale, come quello di una nuova denominazione di tutti i viventi, la scienza poteva aspirare a restituire attraverso il linguaggio l'articolazione della natura, complessa ma esauribile, in quanto stabilita una volta per tutte dal progetto divino.

A pochi decenni dalla pubblicazione del Systema Naturæ linneano, Georges-Louis Leclerc de Buffon, e con lui Diderot e altri enciclopedisti, intraprendono un'aspra critica del suo impianto tassonomico, a partire dalla sua unità di misura fondamentale: la specie. Buffon definisce infatti “un errore di metafisica” la pretesa linneana di individuare, a partire dai rapporti di somiglianza e differenza tra gli individui, dei gruppi fissi e omogenei di viventi, le specie: un errore che “consiste à méconnoître la marche de la Nature, qui se fait toujours par nuances”.293 Tale critica non impedisce tuttavia a

Buffon di recuperare il concetto di specie e la sua funzione epistemologica cruciale per la storia naturale, a condizione di trasformarne radicalmente il senso. Confrontiamo dunque la definizione ch'egli fornisce del concetto linneano di specie, con quella proposta da lui stesso: per Linneo “[u]n individu est un être à part, isolé, détaché, & qui n'a rien de commun avec les autres êtres, sinon qu'il leur ressemble ou bien qu'il en