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Il sogno nel suo contesto: Terzo Episodio (vv 911-1085)

IL SOGNO IN SOFOCLE

II.4 Il sogno nel suo contesto: Terzo Episodio (vv 911-1085)

capacità cognitiva che è invece prerogativa dell’indovino. Tale distinzione è implicata nell’uso di due verbi pertinenti al campo semantico del vedere. Se infatti δέρκομαι indica l’atto dell’osservare in virtù dell’organo della vista67, βλέπω68 se ne distingue

invece per la capacità di una visione più profonda, perché è quella che appartiene ai veggenti. Significativo, tuttavia, è che nel sogno citato da Giocasta, sebbene l’esperienza onirica sia generalmente concepita come un fatto visivo e profetico, non compare alcun tipo di verbo in connessione con la vista, per quanto tutta la tragedia giochi sul concetto del vedere come esperienza fondamentale per raggiungere la conoscenza e stabilire la verità.

II.4 Il sogno nel suo contesto: Terzo Episodio (vv. 911-1085)

Il riferimento onirico si inserisce all'interno del Terzo Episodio della tragedia, approssimativamente al centro del dramma (vv. 977-983).

A questo punto della vicenda, alla fine del Secondo Episodio, è già emerso un dettaglio sospetto nella mente del protagonista, che ha il timore di scoprirsi assassinio di Laio e vittima della maledizione da lui scagliata in precedenza contro il colpevole (vv. 246-275). In questa circostanza Giocasta ha già rigettato la validità di oracoli e profezie, dopo aver ricortato quella, a suo dire non realizzata, secondo cui Laio sarebbe dovuto perire per mano del figlio, che, invece, è suppostamente morto prima dell’assassinio del padre. I due sovrani dunque rientrando nel palazzo (v. 861), in apparente tranquillità (καλῶς νομίζεις, v. 859, è la risposta con cui Edipo accoglie il ragionamento della moglie69), chiudono questa sezione drammatica, in attesa

dell’arrivo di quel pastore che, testimone del delitto, è l’unico in grado di fugare o confermare qualsiasi dubbio.

67 DELG, s.v. δέρκομαι: exprime l’idée de voir en soulignant l’intensité ou la qualité du regard. 68 LSJ, s.v.: have the power of the sight.

69 Edipo dà il suo assenso anche se in maniera quasi meccanica, ma è concentrato sull’arrivo del pastore: Jebb 1966, p. 94; Dawe 2000, p. 180.

Tuttavia, tra le due scene si frappone un intermezzo lirico, il Secondo Stasimo70

(vv. 863-910), che marca una divisione della tragedia in due parti71

quantitativamente corrispondenti, e in cui la condanna verso la disobbedienza alle leggi divine segnala un apparente cambiamento dal punto di vista tematico.

Dopo la celebrazione della potenza e sacralità dei principi che regolano i comportamenti, posti sotto la tutela di un μέγας θεός (v. 871), il coro introduce la figura del tiranno, caratterizzata dalla dismisura, dall’empietà, dalla prepotenza, dall’ὑβρις e dal κέρδος, il desiderio di guadagno72, ne profetizza la conseguente rovina

e lancia una maledizione su colui che si mostra superbo nei fatti e nelle parole, che non teme la giustizia e che non venera gli dei. Il canto si conclude, infine, con una preghiera a Zeus, tutore delle leggi divine, affinché, se bisogna preservare la religione73, dimostri che gli oracoli non falliscono.

La sezione lirica sembra segnare dal punto di vista narrativo un'evoluzione nella parabola del protagonista che, ritratto inizialmente come un buon re, progressivamente si trasforma fino a degenerare e scoprirsi tiranno. Lo stasimo prepara la rivelazione presentata in questa seconda parte narrativa, nella quale si rende manifesta la tirannia di cui Edipo appare schiavo74 (così egli si definisce,

considerando di essere di umili origini: φανῶ τρίδουλος, v. 1063), condensata in forma simbolica nella menzione dell’incesto onirico, di cui si intuisce la presenza inquietante fin dall’inizio di questo episodio.

70 Sull'importanza del Secondo Stasimo dell'Edipo Re e del suo significato religioso risultano interessanti le osservazioni di Giuliani, il quale rileva come la mancanza di rispetto verso gli dei e l'empietà verso le aree consacrate susciti l'ira del coro al punto tale da spingerlo a porsi degli interrogativi sulla sua funzione (vv. 895-896) e azzardare un provocatorio rifiuto di recarsi presso i grandi templi di Apollo (vv. 897 ss.): cfr. Giuliani 2001, pp. 146 ss. Il canto corale viene messo in rapporto da Diano 1968, p. 157, con l’episodio storico della mutilazione delle erme della quale era stato considerato responsabile Alcibiade. 71 Lanza 1977, pp. 59 ss. 72 Lanza 1977, pp. 59 ss. e Appendice 2, pp. 232 ss. 73 Kane 1975, p. 200. Si presenta, in sostanza, un ritratto del tiranno che dimostra empietà nei confronti degli dei e che non si astiene da atti empi: cfr. Giuliani 2001, p. 147. 74 Nella visione platonica (Plat., Rep., 579 b-e) il tiranno è il più schiavo di tutti gli uomini e l'amara condizione del popolo sotto il tiranno è quella di schiavo di schiavi: Rep., 569 c. Lo stesso Tiresia, quando risponde alle accuse di Edipo di voler cospirare contro il suo potere risponderà di non essere il suo servo, ma del Lossia: οὐ γὰρ τι σοὶ ζῶ δοῦλος, ἀλλὰ Λοξίᾳ (v. 410).

Esso si apre con un ingresso inaspettato, quello di Giocasta75, che entra in scena

recando in mano le stesse corone76 e offerte votive (στέφη λαβούσῃ κἀπιθυμιάματα,

v. 913), con cui si erano presentati in apertura (ἱκτηρίοις κλάδοισιν ἐξεστεμμένοι| πόλις δ΄ὀμοῦ μὲν θυμιαμάτων γέμει, vv. 3-4) i supplici tebani77, implorando agli dei la

fine della pestilenza78 e chiedendo ad Edipo di indagarne le cause. La regina,

vedremo, non è però supplice agli dei per il male che ha colpito Tebe, ma per quello che si è abbattutto su Edipo, per quanto città e re, in maniera ancora inconsapevole, ne condividano il movente, rappresentato dall’incesto, non solo onirico.

La presenza degli oggetti sacri, allora, istituisce un’analogia tra le due scene e ne rievoca con forza la causa scatenante, individuabile nella malattia che ha invaso e annienta la città e che, secondo Giocasta, “si è estesa” in forma psicologica sul re. L’allusione all’epidemia è solo simbolica e si collega sottilmente ad Edipo, per il quale la regina ora richiede un intervento divino. Si affaccia, pertanto, in questo Terzo Episodio il tema dell’incesto, espressione di un atto di violenza sulla madre-patria di cui il re tebano è responsabile, che si traduce nosologicamente in un’immagine di sterilità della terra, degli armenti e delle donne all’interno del contesto cittadino e in un inspiegabile e rovente timore del protagonista.

L’atteggiamento di devozione qui dimostrato dalla regina, rispetto a quello indifferente rivelato in precedenza, denota un cambiamento e un grande stato di agitazione. Accompagnata da alcune ancelle, ella si rivolge al coro79, formato da

χώρας ἄνακτες, i nobili tebani che rappresentano la città (un appello che mette in evidenza il carattere anche politico della scena80), affermando di aver maturato l’idea

75 Il canto lirico che precede, creando un'atmosfera di incertezza, ha indotto lo spettatore ad attendere l'arrivo del servo di Laio (Kamerbeek 1967, p. 181) che però avverrà tardivamente solo nel Quarto Episodio (vv. 1110-1185).

76 Si tratta del rituale dell'eiresione, dedicato alle divinità dispensatrici dei beni della terra (non a caso in apertura del dramma è motivato dalla sterilità dei campi e delle messi), ma è anche un rito di purificazione dal λοιμός (v. 28): cfr. Vernant-Vidal-Naquet 1981, p. 117.

77 Ferrari 2015b, p. 211; Bollack 1990, vol. III, p. 596.

78 Secondo Daux il flagello che si abbatte su Tebe sarebbe non solo sterilità ma anche peste: cfr. Daux 1940, p. 105. 79 Anche Atossa, nel Primo Episodio dei Persiani di Eschilo, entra in scena e si rivolge al coro formato da nobili anziani, raccontando di essere in preda all'angoscia per i suoi sogni: vv. 176 ss. 80 Il significato politico del sostantivo χώρα, contrapposto all'uso della parola γῆ, è anche sottolineato da Segal 1995, p. 200.

di visitare i templi degli dei (δόξα μοι παρεστάθη| ναοὺς81 ἱκέσθαι δαιμόνων, v. 911).

L’espressione, introdotta dal verbo παρίσταται, viene tradotta generalmente dagli editori (Brunck, Bollack, Storr, Mazon, Kamerbeek) con il significato di in mentem mihi venit, secondo una definizione che illustra in questo gesto una spinta irrazionale, impulsiva e sentimentale. Il verbo con questa accezione e nella forma passiva non è attestato altrove nel panorama tragico82, ad eccezione del Reso (καί μοι καθ΄ὕπνον

δόξα τις παρίσταται: v. 780), un'opera erroneamente attribuita ad Euripide, ascrivibile ad un autore anonimo del IV sec. a.C.83, che sembra costituire un caso di

imitazione di Sofocle84. Se però nel dramma pseudoeuripideo siamo in presenza di

una narrazione onirica, quella dell’auriga che vede una profezia simbolica di immediata realizzazione, nel testo sofocleo la mancanza dell'espressione καθ΄ὕπνον, lascia imprecisata questa immagine.

A prima vista, tuttavia, il sintagma δόξα τις unito a μοι – il dativo della persona – riconduce l’esperienza di Giocasta al campo della doxa e si ricollega al verbo δοκέω, frequentemente utilizzato nelle costruzioni sintattiche seguite dall'infinito per esplicitare il contenuto di una visione notturna85. Lo stesso termine παρίσταται, in

Omero86, è la forma abituale adoperata nella descrizione dell'arrivo di un sogno. A ciò

si possono aggiungere le modalità che giustificano l’entrata in scena del personaggio: l’uscita dal palazzo in preda ad un’agitazione interiore e il compimento di un atto religioso sembrano essere una circostanza simile a quelle prodotte da un fenomeno onirico87. 81 Longo 1972, p. 205, fa notare come lnonostante l'espressione sia generica vada in realtà attribuita all'altare di Apollo Λυκείος posto davanti al palazzo. 82 Ellendt 1965, p. 607: unum exemplum exstat. Kamerbeek 1967, p. 182; Bollack 1990, p. 596. 83 Labiano 2010, pp. 37 ss.; Labiano 2011, p. 166.

84 Fraenkel 1965, p. 231; Bollack 1990, p. 596. Il Reso racconta l'uccisione del re tracio omonimo per mano di Odisseo e Diomede. Il sogno, esperito dall'auriga, è in sostanza un avvertimento del delitto che si sta perpetrando nella tenda del re durante la notte: un regicidio.

85 Fernández-Vinagre 2003, pp. 85 ss. 86 Fernández-Vinagre 2003, p. 88.

87 Scene di sacrifici non cruenti e libagioni costituiscono non solo un espediente per motivare l'entrata o l'uscita dei personaggi, ma anche una spettacolarizzazione dell'evento rituale, marcata soprattutto in Eschilo. Questi rituali, rileva Jouanna, sono spesso correlati ad un evento onirico (vedasi anche l'ingresso di Ifigenia nell'Ifigenia in Tauride di Euripide, di Clitemnestra nell’Elettra di Sofocle e di Atossa nei Persiani di Eschilo): cfr. Jouanna 1992, pp. 420 ss.

La scena trova infatti particolari affinità con due episodi tragici tratti dai Persiani di Eschilo e dall’Elettra di Sofocle. Se nel primo caso l’ingresso in scena di Atossa (Aesch., Pers., 176-231), è motivato dalla richiesta di un intervento onirocritico al coro di nobili anziani, dall’altro, l’uscita di Clitemnestra dal palazzo in compagnia delle sue ancelle (Soph., El., 630-659), è giustificata dall’intento di rendere una supplica ad Apollo con funzione apotropaica. La divinità invocata in quest’ultimo passo è proprio la stessa a cui si rivolge Giocasta, con l’epiclesi di Prostaterio/Agyeus, cioè protettore della città e dai mali88, mentre nell'Edipo Re è il Lykeios (menzionato

anche nell'Elettra) nella sua prerogativa di ἀλεξίκακος/ἀποτρόπαιος e perciò ugualmente Agyeus, come affermano Kamerbeek e Dawe89. Tuttavia, ad accostare questo passo ad una scena onirica è lo stato di turbamento misto a paura che sembra caratterizzare l’animo dei due personaggi, di Edipo e della stessa Giocasta (vv. 914-923)90: ὑψοῦ γὰρ αἴρει θυμὸν Οἰδίπους ἄγαν λύπαισι παντοίαισιν, οὐδ΄ὁποῖ ἀνὴρ 915 ἔννους τὰ καινὰ τοῖς πάλαι τεκμαίρεται, ἀλλ΄ἔστι τοῦ λέγοντος, ἢν φόβους λέγηι. ὅτ΄οὖν παραινοῦσ΄οὐδὲν ἐς πλέον ποιῶ, πρὸς σ΄, ὧ Λύκει Ἄπολλον, ἄγχιστος γὰρ εἶ, ἱκέτις ἀφῖγμαι τοῖσδε σὺν κατεύγμασιν*, 920 ὅπως λύσιν τιν΄ἡμὶν εὐαγῆ πόρηις· ὡς νῦν ὀκνοῦμεν πάντες ἐκπεπληγμένον κεῖνον βλέποντες ὡς κυβερνήτην νεώς. (Infatti Edipo è sospeso troppo in alto nell’animo per ansie di ogni genere e, quale uomo assennato, non sembra in grado di interpretare i nuovi fatti 88 Il dio è inoltre la divinità tradizionalmente invocata in occasione delle pestilenze. 89 Kamerbeek 1967, p. 184; Dawe 2000, p. 189. Alle divinità apotropaiche si sacrificava dopo un sogno ominoso: cfr. AA.VV. 1988, introduzione xx e nota 42.

90 Il testo di riferimento è l'edizione di Cambridge, Dawe 2000; tuttavia, viene segnalata con il simbolo dell’asterisco (*) ciascuna lezione che si discosta dalla suddetta edizione. Nel presente caso si è deciso di mantenere la lectio dei codd., in luogo dell’intervento attuato da Wunder ed accolto dall’editore. In favore anche Kamerbeek 1967, p. 184, che considera inappropriata la definizione per indicare gli ἐπιθυμιάματα e Jebb 1976, p. 101; contra Bollack 1990, p. 601.

sulla base di quelli passati, ma è in preda di colui che parla, se possa dirgli cose spaventose. Dal momento che consigliandolo non sono riuscita a fare di più, a te, o Apollo Liceo –infatti ci sei molto vicino– giungo supplice con queste offerte, affinché ci accordi la liberazione dalle impurità, giacché ora siamo spaventati tutti vedendo quello in preda al timore come timoniere della nave).

L’uso della congiunzione esplicativa γάρ esprime bene la motivazione per la quale la regina si è presentata con delle offerte di corone presso l’altare. È il θυμός di Edipo che appare sospeso troppo in alto, come un vento o un respiro affannoso prodotto da forti emozioni. Il sostantivo, spesso ricorrente nella produzione tragica, designa un’entità fisica collocata nella zona del petto e concepita come un agente indipendente che, mediante un processo fisiologico, esercita un influsso a livello psichico91. Accompagnato o meno da qualificativi specifici, il termine si incontra

talvolta in alcuni contesti per indicare il presentimento profetico92. Con questa

accezione appare per esempio in Aesch., Pers., 10: κακόμαντις ἄγαν ὀρσολοπεῖται θυμὸς ἔσωθεν· (un cattivo presagio troppo forte, dentro, agita il cuore d’angoscia); o Ag., 992-993: θρῆνον Ἐρινύος αὐτοδίδακτος ἔσωθεν| θυμός… (il canto luttuoso di Erinni suona da solo, da dentro, nel mio animo…), ad esprimere una sensazione sconosciuta, causa di angoscia o turbamento.

Anche l’avverbio ὑψοῦ93, combinato con il verbo αἴρω, che indica una condizione

fluttuante e di leggerezza dell’essere, che ricorda la consistenza tipica dei sogni, tratteggia l’immagine di un personaggio sospeso tra pensieri e preoccupazioni, accostabile allo stato di agitazione che contraddistingue Ecuba in Eur., Hec., 69-70 e la cui causa è prodotta dall’incapacità di interpretare il sogno avuto durante la notte. In seguito a quest’esperienza la regina troiana rivolge un’invocazione alle divinità ctonie 91 Sullivan 1999, pp. 122 ss. 92 Nei Persiani di Eschilo il coro di anziani πιστοί percepisce un cattivo presagio nel “cuore profeta di sventure” (Pers., 8-11); un θυμός profetico si individua anche in Eur., Andr., 1072: αἰαῖ· πρόμαντις θυμὸς ὥς τι προσδοκᾶι; in Aesch., Ag., 975 ss., la paura è definita come un canto incontrollabile che profetizza sventure e non si può allontanare con un rito apotropaico; cfr. Abbate 2017, p. 25, n. 1.

93 In Eur., IA, 919: ὑψηλόφρων μοι θυμὸς αἴρεται πρόσω, l’aggettivo composto compare ad indicare l’animo irrequieto di Achille, facile ad inalberarsi, in correlazione con la φρήν.

per stornare il cattivo presagio94 (τί ποτ΄αἴρομαι ἔννυχος οὕτω| δείμασι φάσμασιν;

perché mai sono così sospesa da terribili fantasmi?).

Non specificato nel discorso di Giocasta resta lo strumentale λύπαισι παντοίαισιν, che uno scoliasta glossa con una serie di eventi quali la morte di Laio, il matrimonio con la regina, l’esilio e il ritorno impossibile a Corinto95, ma Bollack riconosce

giustamente che l’espressione πάντα λογιζόμενος impiegata dal commentatore est contraire au tumulte dont Oedipe est la proie.

Il motivo del disorientamento di Giocasta e per il quale la donna esprime timore è un differente atteggiamento del marito, il quale, sempre considerato nella sua piena padronanza del νοῦς96, in questa circostanza non appare in grado di esercitare tale

facoltà. Di fronte a degli eventi definiti inaspettati e “nuovi” (καινά) 97 il re tebano non

sembra poter ipotizzare o azzardare delle congetture (οὐδὲ τεκμαίρεται), per quanto la donna lo consideri un semplice procedimento attuabile mediante il ricorso ai fatti del passato98.

L’aggettivo sostantivato neutro in questo caso resta generico, ma la presenza dell'attributo ἔννους, alludendo al predominio dell’intelletto nella sua tradizionale associazione con la vista99, quella profonda di cui Edipo sembra privo, lascia

presagire l’idea di un elemento profetico o un sogno, giacché il sostantivo ad esso collegato ricorre in forma di litote nelle parole del re quando si riferisce a Tiresia e alla sua percezione interiore100, che è proprio la prerogativa dell’indovino: τυφλὸς τά

94 La variante αἰωρέω, riconducibile al verbo αἴρω, occorre in associazione ai sogni anche in Soph., El., 1389-1390: ὥστ΄οὐ μακρὰν ἔτ΄ἀμμενεῖ| τοὐμὸν φρενῶν ὄνειρον αἰωρούμενον.

95 Kamerbeeck 1967, p. 183; Bollack 1990, p. 598. Schol. ad Soph recent., OT ad 915 (Longo).

96 Indica il dominio di sé e anche il principio anassagoreo rievocato da Giocasta in questi versi: dalle cose che si vedono è possibile ricavare una conoscenza di quelle che non si vedono (ὄψις τῶν ἀδήλων τὰ φαινόμενα: fr. 21 a Diels). L’influenza anassagorea è individuata e fortemente sostenuta in queste linee anche da Diano 1968, pp. 142 ss.

97 A questo proposito Jebb 1966, p. 100, suggerisce che si tratti delle profezie di Tiresia; tuttavia Ellendt 1965, p. 360, nel suo Lexicon Sophocleum, riportando tutte le occorrenze che si incontrano, spiega il termine con il significato di qui ante non fuit, inde non expectatus.

98 Longo 1972, p. 205, afferma che Edipo non metterebbe in relazione i due oracoli indirizzati al padre e al figlio, per cui Dawe 2000, p. 247, suggerisce un significato come quello di non può apprezzare in funzione del passato; Bollack 1990, p. 597, mette in evidenza che l'operazione intellettuale presuppone una tranquillità di cui Edipo è sprovvisto.

99 Sullivan 1999, p. 69.

100 Il νοῦς in associazione con l’interiore capacità di vedere emerge già nella lirica (cfr. Sullivan 1988, pp. 7-17) e appare elemento dominante anche nell’Edipo Re. Sullivan 1999, pp. 69 ss.

τ΄ὦτα τον τε νοῦν τά τ΄ὄμματ΄εἶ: tu sei cieco negli occhi, nelle orecchie e nella mente101

(v. 371). Con un procedimento che si può definire “ironia di dissimulazione”, Edipo, convinto di possedere la vera conoscenza, accusa l’indovino di essere un cieco ciarlatano, ma in maniera ironica sta progressivamente rivelando quello che appare agli spettatori, ossia la sua cecità di fronte alle cose divine e all’effettiva realtà dei fatti.

Se Giocasta fa qui riferimento alla mancanza del “lato pratico” di Edipo e della sua razionale capacità di condurre l’indagine con un metodo ben strutturato, il re, che ha sempre dimostrato di essere ben saldo nell'interpretazione dei segni e che fin dall'inizio del dramma manifesta la sua volontà di procedere per autopsia (ἁγὼ δικαιῶν μὴ παρ΄ἀγγέλων, τέκνα, | ἄλλων ἀκούειν αὐτὸς ὧδ΄ἐλήλυθα: o figli, io sono giunto qui di persona ritenendo giusto non sentire da altri, vv. 6-7), viene qui tratteggiato dalla moglie nella stessa maniera in cui egli stesso aveva giudicato Tiresia.

Tuttavia, che cosa precisa esattamente il sintagma τὰ καινά impiegato dalla regina? Lo stesso qualificativo ricorre in Eur., IT, 42, per definire le inattese e soprendenti apparizioni notturne (φάσματα) avute da Ifigenia durante la notte, ma anche gli oracoli (μαντεία καινά) menzionati da Eracle in Soph. Tr., 1165. Eppure del sogno, in questi versi, non si fa alcun accenno esplicito, mancando una riconoscibile marca allusiva. Il riferimento compare solo ai vv. 980-981 e, come detto in precedenza, in maniera apparentemente casuale, per cui l’evento arriva ad essere banalizzato e presentato come un fatto tipico e noto, interpretabile al pari di un luogo comune e popolare sull’incesto onirico. A ciò può forse indurre un’altra informazione aggiunta da Giocasta che ci permette di comprenderne meglio la natura: al v. 917 l’espressione ἀλλ΄ἔστι τοῦ λέγοντος, ἢν φόβους λέγηι102 mette in rilievo l’influenza esercitata su Edipo da una figura che,

101 Peraltro la ripetizione delle dentali nel verso, che sottolinea ira e disprezzo al contempo (Dawe 2000, p. 130) evoca foneticamente anche un luttuoso canto profetico come quello di Cassandra che invoca il Lossia, presagendo la sua morte: ὀτοτοτοτοῖ (Aesch., Ag., 1072; 1076); la stessa esclamazione viene pronunciata dal coro delle Danaidi di fronte all’allucinazione onirica, definita un ὄναρ μέλαν (Aesch., Suppl., 888-889).

102 Longo 1972, p. 206, adotta la lezione εἰ φόβους λέγοι per il v. 917, nella quale considera il verbo come un ottativo di eventualità generica con funzione limitativa.

parlando103, gli dice cose angoscianti104. Il parlante, indicato con l’articolo

determinativo τοῦ, definito ma non specifico, è stato spesso identificato con Tiresia, ma l’ultimo riferimento all’indovino compare al v. 747 con il ben precisato sostantivo ὁ μάντις, per il quale si usa il verbo βλέπω, legato alla percezione visiva. In questa circostanza, invece, il participio sostantivato τοῦ λέγοντος (l’uso dell'articolo conferisce anche un valore temporale105, poiché indica un'azione attuale che ha una

durata nel presente), è costituito da un verbum dicendi che sembra rievocare l’espressione introdotta da λόγος τις seguita da infinito, a cui Crisotemi ricorre nell’illustrare la descrizione onirica “di seconda mano” in Soph., El., 410-417: con questa costruzione la giovane allude proprio ad una narrazione generica e ad una diceria circolante in città.

Nella tragedia la presenza di chiacchiere, che il re insiste nel voler conoscere, era effettivamente già stata menzionata dal coro in relazione all’uccisione di Laio (vv. 290-291): XO. καὶ μην τά γ΄ἄλλα κωφὰ καὶ παλαί΄ἐπη. Certo corrono delle voci ma antiche e inconsistenti. OI. Τὰ ποῖα ταῦτα; Πάντα γὰρ σκοπῶ λόγον. Quali voci? Verificherò tutto quel che si dice.

Una caratterizzazione di Edipo in preda al timore a seguito di “rumori” viene dichiarata dallo stesso personaggio ai vv. 785-786 (ὅμως| δ΄ἔκνιζέ μ΄αἰεὶ τοῦθ΄· ὑφεῖρπε γὰρ πολύ: tuttavia quella parola non cessava di tormentarmi sempre, tanto 103 Possiamo ancora pensare al potere del discorso, definito nell'Encomio a Elena di Gorgia (8) μέγας δυνάστης in Soph., El., 415 ss.

104 La paura è funzione dominante dell'Edipo Re. La paura o meglio le paure stabiliscono sinergicamente nella tragedia un effetto ascendente di tensione che culmina nel grido “ahi, ahi, tutto ora risulta chiaro” (v. 1182): Lanza 1986, p. 34. Di Benedetto, analogamente, sottolinea il grande spazio attribuito alla paura da Sofocle, affermando però che si tratta solo di una caratterizzazione spiccatamente personale, dissociandola dalla polis e dai suoi istituti: Di Benedetto 1983, pp. 106 ss. Il terrore, inoltre, è elemento caratteristico della rivelazione onirica nelle Coefore di Eschilo (Abbate 2017, p. 262), e si riscontra anche in altri drammi: Pers. 210, Suppl., 888-902; Ag., 976-981; Cho., 523; Soph., El., 410; Eur. Hec., 69, 75 ss., Rh., 788. In Plat., Leg., X, 904 c-d; 909 d-910 e, il φόβος è ricordato come il sentimento che genera veri e propri incubi. La paura è inoltre una caratteristica del tiranno che emerge già in:

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