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Il trattamento dei titoli del debito pubblico

Il regime ora descritto della imposizione dei redditi mobiliari si deve estendere anche ai titoli del debito pubblico? Il problema si presenta dal punto di vista del diritto vigente e da quello della convenienza dello stato.

I. RIFORMA D E L L E I M P O S T E DIRETTE 103 Secondo il diritto vigente, oramai la più gran parte dei titoli emessi dallo stato reca la clausola di esenzione da qualunque imposta presente e futura: la clausola significa che lo stato non può colpire con imposta né il capitale né l'interesse del titolo e deve pagare integro, senza alcuna detrazione, l'interesse annuo al portatore, e rimborsare integralmente, alla cifra nominale, il capitale, quando sia giunta la scadenza.

Questa è sacra promessa, fatta ai risparmiatori nell'ora del biso-gno; e va mantenuta fermamente. Perciò all'articolo 91 si dice: « Nessuna ritenuta viene esercitata, in conto della imposta comple-mentare, sugli interessi corrisposti sui titoli d'ogni specie emessi dallo stato ». L'erario dovrà continuare a pagare ai possessori tanto dei titoli nominativi che dei titoli al portatore l'interesse netto al 3,50 od al 5 % o qualunque altro interesse pattuito, senza alcuna detrazione: e poiché nel regime proposto nel disegno di legge il detentore non ha l'obbligo, ma solo la facoltà di far denuncia dei titoli da lui posseduti ed ha, in generale, interesse a servirsi di tale facoltà allo scopo di evitare la trattenuta dell'aliquota massima del 25 % , risulta implici-tamente che, nel caso dei titoli di stato, il portatore non avrà interes-se a giovarsi della facoltà spettantegli, perché, a norma dell'articolo 91, egli non corre, pur non facendo la denuncia, alcun pericolo di trattenuta.

Notisi che l'articolo 91 dice « sui titoli d'ogni specie emessi dallo stato »; cosicché alla trattenuta si rinuncia anche per i titoli non muniti della clausola dell'esenzione da ogni imposta presente e futura. Poiché i titoli non muniti della clausola di esenzione sono pochi, parve nell'interesse del pubblico credito conveniente assimilarli a quel-li esenti: la imposizione di essi avrebbe invero fatalmente gettato un'ombra sugli altri, ne avrebbe depresso i corsi ed allontanato il momento delle libere conversioni, da cui massimamente e soltanto il tesoro italiano può sperare ristoro in avvenire. Ma, perché questo istante auspicato giunga, è necessario che lo stato eviti anche ogni lontano sospetto di voler riprendere con l'imposta parte di ciò che ha promesso di pagare come debitore. La stessa regola fu seguita in Italia dal 1908 in poi; poiché i titoli di stato, che erano passibili di imposta di ricchezza mobile e la pagavano all'aliquota generale del 2 0 % , non furono gravati coi 2 centesimi del terremoto e neppure dopo coll'addizionale del 5 % , col decimo nuovo di guerra e col tributo straordinario dei 2 centesimi di guerra: parve e fu saggio consiglio non aggravar la mano sui vecchi creditori dello stato nel momento in cui si faceva appello al pubblico risparmio. Finita la

guerra è scemato ma non cessato il bisogno di ricorrere al credito; ed è più sentita la necessità di tenere alto il credito per facilitare le libere conversioni, per il giorno in cui lo stato avrà diritto di com-pierle.

Se questa è la politica che si ritiene doveroso osservare di fronte ai portatori dei titoli di debito pubblico, ne consegue forse che il contribuente abbia diritto di chiedere la esenzione totale o parziale dall'imposta complementare quando dimostri che il suo reddito deriva in tutto od in parte da titoli di debito pubblico? La illazione sarebbe eccessiva ed urtante contro il senso comune di giustizia tributaria. Lo stato si astiene da qualsiasi ritenuta ed inquisizione; ma non può chiudere gli occhi dinanzi al fatto che un cittadino conduce vita di un certo tenore, occupi un quartiere per cui paga fitto, mantenga la sua famiglia, abbia persone di servizio, e magari vetture, ville, ecc.; e l'articolo 81 ha appunto per iscopo di rendere possibile l'accertamen-to indiziario del reddito inerente all'agiatezza nel caso in cui manchi-no elementi per la valutazione analitica del reddito stesso. Sia che il contribuente tragga reddito dal possesso di titoli di stato, o da profes-sioni, intermediazioni e commerci non conosciuti dalla finanza, questa constata il fatto esteriore e lo apprezza agli effetti tributari.

Colpendo il contribuente sugli indici esteriori di ricchezza, lo stato non viola la fatta promessa di non imporre i titoli di debito pubblico; esso non fa se non trattarlo alla stregua di tutti i

contri-buenti, le cui fonti di reddito non siano note.

A meglio dimostrare come non vi sia nessun rapporto logico fra la imposizione indiziaria del reddito complessivo spettante alla persona del contribuente e la promessa di non colpire il reddito del titolo di debito pubblico, valga ancora una osservazione. Il risparmiatore, il quale ha fatto acquisto di 10000, di 100000 o di 1000000 di lire di titoli di stato e ne ricava un reddito di 500, 5000 o 50000 lire può anche non spendere questo suo reddito: egli possiede altri redditi, personali o di capitale, e vive modestamente e risparmia in tutto od in parte il frutto dei titoli da lui posseduti: gli indizi esteriori in tal caso non segnalano affatto alla finanza il reddito che egli ha, ma che non spende; ed allora egli non può essere colpito sul reddito dei titoli di stato, né direttamente, poiché non è obbligato alla denuncia, né indirettamente, perché gli indizi non portano traccia dei suoi ri-sparmi.

Il portatore dei titoli di stato sarà dunque colpito, attraverso agli indizi, solo in quanto spenda il suo reddito, e ne faccia sfoggio, di-mostrando a tutti la propria capacità contributiva: se egli è economo

I. RIFORMA D E L L E I M P O S T E D I R E T T E 105 ed assestato, se non dissipa tutto il suo reddito, legalmente e giusta-mente non paga tributo. Ecco perciò che, volendo osservare, come era suo dovere, la fatta promessa di immunità ai titoli di stato, il legisla-tore viene nel tempo stesso a conseguire un fine economico e sociale di notevole pregio, come è quello di promuovere il risparmio e la formazione di nuovi capitali.

CAPITOLO V .