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2. Intorno alle Tesmoforiazuse di Aristofane: il travestimento tragico nella Commedia Attica

2.2.2. Travestimento tragico, paratragico e tragicomico: meccanica e teoria

2.2.2.3. Il travestimento di Mnesiloco.

Lo sviluppo dell’intreccio comico prevede il rifiuto di Agatone di prestarsi ai piani di Euripide. Mnesiloco si offre in vece sua, dando così avvio al processo di travestimento [Thesm. 209-212]33. Ciò è segnalato dall’ordine rivolto a Mnesiloco da

parte di Euripide di abbandonare il proprio mantello, un comando prontamente eseguito dal parente, il quale getta l’indumento per terra [Thesm. 213-214]. La successiva depilazione dei genitali di Mnesiloco [Thesm. 216; 234-248] prevede la condizione di totale nudità del personaggio; è possibile così intendere nel mantello un riferimento sintetico e complessivo all’intero abbigliamento di Mnesiloco, secondo un’estensione lessicale, attestata da fonti lessicografiche ed epigrafiche, che riassume l’insieme del costume teatrale sotto la denominazione ἱµάτιον, da cui le voci ἱµατιοµίσθης e ἱµατιοµισθωτής per le figure professionali cui i coreghi si rivolgevano per richiedere in affitto i costumi teatrali [LSJ, sub vocibus; ex all. Poll. 7.78 Bethe].

Spogliato delle proprie vesti, Mnesiloco offre alla vista degli spettatori l’integrale nudità del “corpo scenico” del personaggio, il comico σωµάτιον posticcio e imbottito [ex all. Poll. 2.235; 4.115 Bethe]34. Tale strato, superimposto al corpo fisico dell’interprete, è a quest’ultimo coeso e sostituito secondo i meccanismi metateatrali che regolano la scena. Pur sempre personaggio comico, fisicamente e “costumisticamente” caratterizzato in quanto tale, come “meta-attore” euripideo Mnesiloco si presenta così sulla scena effettivamente “nudo”, privato del proprio costume ovvero spogliato della parte impersonata fino a quel momento, pronto a rivestire e interpretare un nuovo ruolo.

Dopo la rasatura del volto/maschera di Mnesiloco [Thesm. 215-235], operazione che altera l’identità fisiognomica, onomastica e di genere del personaggio, spettatore del suo stesso spettacolo allo specchio e non più capace di riconoscersi in quanto ormai simile a un cinedo [Thesm. 234-235], in ultimo, ha luogo la fisica vestizione da donna del parente, realizzata attingendo alla dotazione del guardaroba personale di Agatone [Thesm. 249-263].

33 Sul travestimento, ex all., Muecke 1982a; Zeitlin 1996, 341-374, 375-416; Saïd 1987. 34 Sulla dimensione del corpo nelle Tesmoforiazuse, ex all., Stehle 2002.

La scena, molto concitata, vede affaccendati Euripide, il quale assomma le mansioni di corego, autore, regista, direttore di scena, costumista e assistente all’allestimento della futura messinscena, e Agatone, nel ruolo di attrezzista e trovarobe, insieme con almeno un inserviente di quest’ultimo. Mnesiloco, superate le iniziali perplessità, si comporta da professionista e attore consumato: personalmente coinvolto nel proprio travestimento, il parente si dimostra interessato alla taglia e alla corretta vestibilità del proprio composito costume – definito complessivamente e genericamente ἱµάτιον da Euripide [Thesm. 250] e composto di una tunica color zafferano, κροκωτός, fermata sul torace da una benda reggiseno, στρόφιον, un berretto da notte, κεφαλὴ περίθετος, comico sostituto in luogo di una reticella, κεκρύφαλος, e di una fascia per i capelli, µίτρα, ritenute necessarie [Thesm. 257], sopravveste circolare, ἔγκυκλον, e calzature, ὑποδήµατα – premurandosi che la veste sia ben allacciata e che le pieghe siano appiombate e disposte in modo acconcio [Thesm. 255-256], in maniera da mascherare i vistosi attributi maschili che caratterizzano il suo corpo scenico: “the hanging phallus of Mnesilochus is visible throught the thin krokotos” [Stone 1981, 409].

La cura rivolta da Mnesiloco al proprio travestimento reduplica e anticipa l’interesse posto da questi all’immedesimazione nel nuovo personaggio a questo associato. La compenetrazione tra aspetti scenici e drammaturgici per tramite di costume e attrezzeria trova, quale possibile spia lessicale, l’insistita ripresa da parte di Mnesiloco della formula ἆρ' ἁρµόσει µοι; “mi starà bene?” [Thesm. 260; 263]. In questa si osserva il recupero di (ἐν-)αρµόζω, adoperato da Eschilo nelle Rane per “accomodare” metaforicamente ampolline e altra paccottiglia nei versi dei prologhi euripidei [Ra. 1202].

La sequenza fin qui descritta richiama quale proprio immediato precedente l’analoga procedura inscenata con più ampio respiro negli Acarnesi aristofanei. Il processo di travestimento metateatrale e paratragico di Diceopoli in Telefo per opera di Euripide, “eine kleine Poetik des Requisits” [Zimmermann 2011] ancor più dettagliata nell’esposizione delle sue fasi, risulta infatti improntata alla medesima attenzione, a un tempo poetica e performativa, rivolta alla realizzazione della σκευή paratragica tramite la composizione di singoli σκεύη, mediando così tra l’identità

dell’interprete e quella del personaggio di cui rappresentano γνωρίσµατα e σύµβολα.

Sembra opportuno, al fine di confermare e approfondire i motivi osservati nella presentazione e nel trattamento del travestimento paratragico di Mnesiloco nelle

Tesmoforiazuse, riportare il passaggio nella sua interezza, soffermandosi a

commentare nello specifico i luoghi testuali e le corrispontenti situazioni sceniche rilevanti per l’elaborazione del presente discorso.

L’operazione di travestimento di Diceopoli è annunciata e introdotta dallo stesso protagonista. Il contadino si rivolge agli adirati minatori del demo di Acarne che compongono il Coro della commedia, pregandoli di permettergli di procedere con il travestimento prima di pronunciare l’arringa in propria discolpa: Δι. νῦν οὖν µε πρῶτον πρὶν λέγειν ἐάσατε ἐνσκευάσασθαί µ' οἷον ἀθλιώτατον, “Diceopoli: Lasciate che per prima cosa, ancor prima di parlare, io mi travesta come il più grande tra i miserabili” [Ach. 383-384].

Oltre al recupero di ἐνσκευάζω quale marcatore tecnico specifico per il travestimento teatrale, nei versi riportati è presente, per via perifrastica, un primo rimando all’identità e al carattere etico del personaggio che Diceopoli intende interpretare come ausilio per muovere a compassione e persuadere il Coro.

Il ricorso a espedienti metateatrali è rimarcato dichiaratamente nell’invocazione rivolta da Diceopoli a Euripide, successivamente all’ingresso in scena dell’autore tragico e del tableau su cui questi è collocato mediante piattaforma mobile/girevole, secondo un assetto scenografico analogo a quanto già descritto e successivamente ripreso nelle Tesmoforiazuse: Δι. ἀλλ' ἀντιβολῶ πρὸς τῶν γονάτων σ', Εὐριπίδη, δός µοι ῥάκιόν τι τοῦ παλαιοῦ δράµατος. δεῖ γάρ µε λέξαι τῷ χορῷ ῥῆσιν µακράν· αὕτη δὲ θάνατον, ἢν κακῶς λέξω, φέρει, “Diceopoli: Mi butto ai tuoi piedi e ti scongiuro, Euripide, dammi un qualche straccio del tuo vecchio dramma35. Devo recitare al coro un lungo discorso: morte per me, se parlerò male!” [Ach. 414-417].

35 Sul possibile recupero aristofaneo della terminologia ufficiale riservata alle repliche tragiche fuori concorso nelle testimonianze epigrafiche, ex all. Nervegna 2015.

Il personaggio “più grande tra i miserabili” cui appartengono “gli stracci del vecchio dramma” richiesti da Diceopoli è Telefo, protagonista titolare dell’omonima tragedia euripidea frammentaria (primo allestimento 438 a.C.) 36, in tetralogia con i

Cretesi, l’Alcmeone a Psofi (entrambi perduti) e con l’Alcesti (tramandata) come

quarta pièce, in luogo del dramma satiresco, in scena vestito di stracci fin dal prologo: Τη. πτώχ' ἀµφίβληστρα σώµατος λαβὼν ῥάκη ἀλκτήρια τύχης, “Telefo: Indosso stracci da mendicante intorno al corpo, rimedio per la sorte” [F 697 Kannicht].

La scelta del costume di Telefo da parte di Diceopoli si configura come il completamento estetico e cosmetico di un già avviato processo di interpretazione del ruolo corrispondente.Nel violento confronto con i minatori di Acarne precedente all’elemosina presso l’abitazione di Euripide, infatti, Diceopoli scampa alla pena della lapidazione attraverso una prova d’attore, prendendo in ostaggio un canestro di carboni, λάρκος, e minacciando di “sgozzarlo” [Ach. 325-351], alla maniera di Telefo con il piccolo Oreste nella perduta tragedia euripidea, una situazione oggetto, come si vedrà, di puntuale trasposizione iconografica. La derivazione del modulo paratragico dal Telefo di Euripide e il confronto con l’analoga citazione parodica agita da Mnesiloco nelle Tesmoforiazuse costituiscono informazioni già notate dagli antichi commentatori del passo:

ψίαθον ἀνθράκων προενήνοχεν, ὅν φησι παῖδα εἶναι τῶν Ἀχαρνέων, πάνυ κωµικώτατα. τὰ δὲ µεγάλα πάθη ὑποπαίζει τῆς τραγῳδίας, ἐπεὶ καὶ ὁ Τήλεφος κατὰ τὸν τραγῳδοποιὸν †Αἰσχύλον, ἵνα τύχῃ παρὰ τοῖς Ἕλλησι σωτηρίας, τὸν Ὀρέστην εἶχε συλλαβών. Παραπλήσιον δέ τι καὶ ἐν ταῖς Θεσµοφοριαζούσαις ἐποίησεν. ὁ γὰρ Εὐριπίδου κηδεστὴς Μνησίλοχος, ἐπιβουλευόµενος παρὰ τῶν γυναικῶν, ἀσκὸν ἁρπάσας παρά τινος γυναικός, ὡς ἂν παιδίον ἀποκτεῖναι βούλεται.

Ha portato fuori [scil. Diceopoli] un fagotto di carboni, che è detto essere il figlio degli Acarnesi in maniera estremamente comica. Si fa gioco dei grandi, patetici avvenimenti della tragedia, dato che Telefo, secondo il

36 Sul Telefo euripideo e sulla sua parodia negli Acarnesi, ex all., Rau 1967, 19-41; Mastromarco 1986, ad loc.; Olson 2002, liv-lxi; Wyles 2007.

tragediografo Eschilo [sic!] per ottenere la salvezza da parte dei Greci, prese e tenne in ostaggio Oreste. Qualcosa di simile è rappresentato nelle

Tesmoforiazuse. Mnesiloco, il parente di Euripide, infatti, tramando contro

le donne, afferrato un otre da una delle donne voleva ucciderlo come se si trattasse di un bambino piccolo.

[Σ Vet., Ach. 332a Wilson]

Lo scolio sintetizza lo stratificato repertorio di meccanismi lessicali e spettacolari in azione nel segmento paratragico. Con specifico riferimento all’oggetto di attrezzeria preso in ostaggio da Diceopoli/Telefo, la citazione è costruita sulla sostituzione di un elemento previsto – il piccolo Oreste, nella versione originale euripidea (sebbene il testo registri paternità eschilea per il dramma) – con un elemento inatteso – il canestro di carbone. La parodia tragica è riconoscibile e comicamente funzionante per l’attaccamento “filiale” che lega il coro di Acarnesi al canestro di carbone, ben più di un semplice arnese da lavoro. È tale rapporto di parentela ad autorizzare e determinare il successo dell’espediente di Diceopoli, realizzato a danno di una “vittima” il cui trattamento lessicale e scenico insiste su connotazioni da creatura indifesa: si vedano in tal senso il riferimento al “figlioletto” di uno dei coreuti preso in ostaggio, παιδίον [Ach. 329], l’apostrofe al canestro per alterato diminutivo a carattere ipocoristico, λαρκίδιον [Ach. 340] e ancora l’infantile incontinenza del canestro/neonato, che per la paura macchia di cenere il proprio assalitore [Ach. 350-351].

Sul versante iconografico, la fortuna della ripresa paratragica aristofanea è testimoniata da una serie di gutti a rilievo ellenistici a vernice nera, datati alla seconda metà del quarto secolo a.C., di cui sono noti tre esemplari ricavati dalla medesima matrice [Napoli, Museo Archeologico Nazionale, Coll. Santangelo 368 [Fig. 5]; Tampa, Tampa Museum of Art, Zewadski coll.; Westfalia, Private Collection; vedi Csapo 2010, 64-65]. Qui Diceopoli/Telefo, di cui si riconoscono le imbottiture del σωµάτιον e la maschera comica, è raffigurato inginocchiato nello schema della vittima/supplice all’altare, con un’arma nella mano destra e il canestro dei minatori di Acarne, tenuto in ostaggio alla maniera di Oreste, tenuto stretto a sé con il braccio e la mano sinistri.

Ritardando e diluendo ad arte le attese suscitate dal memorabile precedente, l’identità del costume elemosinato da Diceopoli a Euripide non è rivelata che gradatamente, secondo una tempistica accuratamente dilatata. Telefo, infatti, figura in clausola al catalogo di costumi/personaggi tra i quali scegliere, presentati dal poeta secondo una gradazione crescente di “miserabilità”, una climax direttamente proporzionale al possesso di abilità retoriche, le due doti necessarie a Diceopoli per assicurarsi successo e salvezza:

Ευ. τὰ ποῖα τρύχη; µῶν ἐν οἷς Οἰνεὺς ὁδὶ ὁ δύσποτµος γεραιὸς ἠγωνίζετο; | Δι. οὐκ Οἰνέως ἦν, ἀλλ' ἔτ' ἀθλιωτέρου. | Ευ. τὰ τοῦ τυφλοῦ Φοίνικος; | Δι. οὐ Φοίνικος, οὔ· ἀλλ' ἕτερος ἦν Φοίνικος ἀθλιώτερος. | Ευ. ποίας ποθ' ἁνὴρ λακίδας αἰτεῖται πέπλων, ἀλλ' ἦ Φιλοκτήτου τὰ τοῦ πτωχοῦ λέγεις; | Δι. οὔκ, ἀλλὰ τούτου πολὺ πολὺ πτωχιστέρου. | Ευ. ἀλλ' ἦ τὰ δυσπινῆ θέλεις πεπλώµατα, ἃ Βελλεροφόντης εἶχ' ὁ χωλὸς οὑτοσί; | Δι. οὐ Βελλεροφόντης· ἀλλὰ κἀκεῖνος µὲν ἦν χωλός, προσαιτῶν, στωµύλος, δεινὸς λέγειν. | Ευ. οἶδ' ἄνδρα, Μυσὸν Τήλεφον. | Δι. ναί, Τήλεφον· τούτου δός, ἀντιβολῶ σέ, µοι τὰ σπάργανα. | Ευ. ὦ παῖ, δὸς αὐτῷ Τηλέφου ῥακώµατα. κεῖται δ' ἄνωθεν τῶν Θυεστείων ῥακῶν µεταξὺ τῶν Ἰνοῦς. ἰδού, ταυτὶ λαβέ. | Δι. ὦ Ζεῦ διόπτα καὶ κατόπτα πανταχῇ, ἐνσκευάσασθαί µ' οἷον ἀθλιώτατον.

Euripide: Che tipo di stracci? Perché non quelli con indosso i quali aveva

conteso Eneo, questo qui, vecchio infelice e sfortunato? | Diceopoli: Non erano di Eneo, ma di qualcuno ancora più miserabile… | Euripide: Questi, del cieco Fenice? | Diceopoli: Non di Fenice, no, ma ce n’era un altro, più miserabile di Fenice… | Euripide: Di che tipo di stracci di costumi chiederà mai in prestito quest’uomo? Parli forse di quelli di Filottete, il mendicante? | Diceopoli: No, ma di qualcuno molto molto più mendicante di questi! | Euripide: Forse vuoi gli sporchi indumenti che indossava lo zoppo Bellerofonte, questo qui? | Diceopoli: Non Bellerofonte, ma anche quello era zoppo, mendicante, un loquace chiacchierone, una lingua terribile… | Euripide: Ho capito di chi parli, il misio Telefo! | Diceopoli: Sì, Telefo: di questo qui dammi, ti prego, dammi le bende! | Euripide: Ragazzo, da’ a quest’uomo gli stracci di Telefo. Stanno sopra i brandelli

tiestei, mischiati a quelli di Ino. Ecco, prendi! | Diceopoli: Zeus, che vedi dappertutto! Fammi travestire come il più grande tra i miserabili!

[Ach. 418-436]

La notorietà del brano riportato equivale quella dei drammi euripidei i cui personaggi titolari sono presenti sulla scena comica per tramite dei rispettivi travestimenti. Il passaggio in questione rappresenta fonte diretta per un sintagma di evidente derivazione aristofanea nel capitolo dedicato al costume teatrale dell’Onomasticum di Polluce: ῥάκια δὲ Φιλοκτήτου καὶ Τηλέφου ἡ στολή, “stracci [sono] il costume di Filottete e di Telefo” [Poll., 4.117.3-4 Bethe].

Come assicurato testualmente dagli aggettivi dimostrativi con funzione deittica ὁδὶ e οὑτοσί, riferiti a Eneo e Bellerofonte, gli eroi e l’eroina tragici euripidei – Eneo, Fenice, Filottete, Bellerofonte, Telefo, Tieste, Ino – fanno la loro comparsa materiale e visibile attraverso elementi dei rispettivi costumi: tra questi, capi di vestiario e oggetti di attrezzeria, come assicurato dal prosieguo della scena, mentre è lessicalmente più incerta la questione relativa alle maschere corrispondenti, come sembra essere tentativamente suggerito da una glossa ad locum – ὡς προκειµένου τοῦ προσώπου Οἰνέως, “come indicando la maschera di Eneo” [Σ Vet. Ach. 418 Wilson] – se si accetta l’impiego da parte dell’anonimo scoliasta di πρόσωπον in accezione specifica e non altrimenti derivata, col valore di “personaggio”.

La natura tessile dei malandati travestimenti tragici è assicurata dal repertorio lessicale adoperato per i costumi. Tra le voci impiegate si rileva come notevole l’occorrenza di σπάργανα [Ach. 431 Olson], termine che definisce i “panni” o le “fasce” dei neonati e ricorrente nel testo a proposito dei panni prescelti da Diceopoli, costituenti il costume di Telefo. L’occorrenza dello specifico lessema, infatti, traduce per via di metafora l’idea del personaggio avviluppato e contenuto nel proprio costume37, e nello stesso tempo permette di visualizzare sulla scena una delle plausibili modalità di trattamento e conservazione dei materiali teatrali nei momenti di

backstage precedenti e successivi alle rappresentazioni, presentando costumi e

travestimenti sotto forma di avvolgimenti, involti e fagotti di stoffe e pezze di

tessuto38.

Il passaggio riportato si chiude con la ripresa verbatim della formula già notata, pronunciata da Diceopoli per introdurre la scena di elemosina – Δι. ἐνσκευάσασθαί µ' οἷον ἀθλιώτατον, “Diceopoli: Che mi travesta come il più grande tra i miserabili” [Ach. 384 = 436 Olson]. Questa costituisce chiaro segnale di raccordo drammaturgico con l’intreccio comico, a conclusione della Priamel esposta scenicamente da Euripide, e opera in qualità di segnale di avvio per la fisica vestizione e per la nuova, scenicamente più compiuta, immedesimazione di Diceopoli nel personaggio tragico di cui ha ricevuto il costume.

L’atto di ricevere e l’operazione di indossare i cenci di Telefo costituiscono il primo stadio del travestimento di Diceopoli, e non esauriscono le sue richieste:

Δι. Εὐριπίδη, 'πειδήπερ ἐχαρίσω ταδί, κἀκεῖνά µοι δὸς τἀκόλουθα τῶν ῥακῶν, τὸ πιλίδιον περὶ τὴν κεφαλὴν τὸ Μύσιον. δεῖ γάρ µε δόξαι πτωχὸν εἶναι τήµερον, εἶναι µὲν ὅσπερ εἰµί, φαίνεσθαι δὲ µή· τοὺς µὲν θεατὰς εἰδέναι µ' ὅς εἰµ' ἐγώ, τοὺς δ' αὖ χορευτὰς ἠλιθίους παρεστάναι, ὅπως ἂν αὐτοὺς ῥηµατίοις σκιµαλίσω. | Ευ. δώσω· πυκνῇ γὰρ λεπτὰ µηχανᾷ φρενί. | Δι. εὐδαιµονοίης – Τηλέφῳ δ' ἁγὼ φρονῶ. εὖ γ'· οἷον ἤδη ῥηµατίων ἐµπίµπλαµαι. ἀτὰρ δέοµαί γε πτωχικοῦ βακτηρίου. | Ευ. τουτὶ λαβὼν ἄπελθε λαΐνων σταθµῶν,

Diceopoli: Euripide, visto che mi hai già favorito questi, dammi anche

quelle altre cose, quelle che si accordano e vanno insieme con gli stracci, il cappellino da mettere intorno alla testa, quello misio. C’è bisogno che stamane io sembri un mendicante, essere quello che sono, ma non apparir tale! Gli spettatori sanno che io sono sempre me stesso, i coreuti invece devono rimanerci come allocchi, cosicchè potrò tenerli con un dito su per il… a forza di paroline! | Euripide: Te lo darò! Con scaltre meningi escogiti sottigliezze! | Diceopoli: Che tu stia bene, e ‘a Telefo quello che

38 Su trasporto e conservazione dei materiali di scena prima e dopo le rappresentazioni antiche e sulle corrispondenti figure professionali incaricate, ex all., Lo Piparo 2017.

medito’! Bene! Ecco che sono già colmo di paroline. Ma mi manca il bastoncino da accattone… | Euripide: Prendilo, questo qui, e abbandona le marmoree soglie!

[Ach. 437-449]

La procedura di composizione del costume di Telefo procede oltre il recupero dell’effettivo capo di vestiario, e richiede il completamento mediante una serie di altri elementi di attrezzeria, di veri e propri costume properties. L’insieme di tali nuovi accessori è indicato nel testo tramite l’aggetttivo sostantivato ἀκόλουθος [Ach. 438 Olson], una soluzione lessicale che implica, per gli oggetti compresi entro tale denominazione, il possesso di un peculiare statuto semantico esprimibile in termini di subalternità e dipendenza, ma anche accordo, appartenenza, conformità, corrispondenza, pertinenza funzionale e strumentale [cfr. LSJ, sub voce], caratteristiche necessarie e obbligatorie, come già osservato, per la buona riuscita del processo di fisica costruzione del personaggio addosso e intorno all’interprete.

Il primo degli oggetti mendicati da Diceopoli è un copricapo di feltro misio, τὸ πιλίδιον […] τὸ Μύσιον. L’impiego di una forma alterata in diminuitivo – col probabile intento di ridicolizzare l’oggetto, ridimensionandolo e sminuendo il valore del bene, rendendo così la concessione meno gravosa – costituisce un espediente già notato per l’identificazione e la definizione degli elementi di attrezzeria nelle drammaturgie aristofanee analizzate, materiali teatrali cui è possibile far corrispondere la denominazione collettiva di σκευάρια, rilevata in seguito a proposito di altri oggetti mendicati da Diceopoli/Telefo per completare il proprio travestimento.

Questo particolare σκεῦος rappresenta un elemento costitutivo fondamentale e imprescindibile per il costume di Telefo, uno γνώρισµα immancabile per la concretizzazione scenica del personaggio. Ciò emerge e negativo dal commento ad

locum dell’anonimo scoliasta, che chiosa a proposito dell’assenza del peculiare

attributo in occasione di riallestimenti del dramma euripideo: πρὸς τοὺς νῦν ὑποκριτάς, ὅτι χωρὶς πίλου εἰσάγουσι τὸν Τήλεφον, “per gli attori odierni, poiché portano in scena Telefo senza copricapo” [Σ Vet. Ach. 439 Wilson].

una citazione estrapolata verbatim dal Telefo, al netto di alcune irregolarità metriche rilevate e sottoposte a proposte di emendazione congetturale – Δι. Δεῖ γάρ µε δόξαι πτωχὸν εἶναι τήµερον, εἶναι µὲν ὅσπερ εἰµί, φαίνεσθαι δὲ µή, “Diceopoli: C’è bisogno che stamane io sembri un mendicante, essere quello che sono, ma non apparir tale” [Ach. 440-441 = F 698 Kannicht]: οἱ δύο στίχοι οὗτοι ἐκ Τηλέφου Εὐριπίδου, “questi due versi [provengono] dal Telefo di Euripide” [Σ Vet. Ach. 440 Wilson]. L’informazione riconduce direttamente all’originale euripideo il carattere metateatrale e le corrispondenti scelte lessicali riscontrate nel trattamento aristofaneo di costume e attrezzeria tragica: l’operazione di citazione parodica in gioco negli Acarnesi risulta così amplificata e autorizzata dalla sua stessa fonte, ancorché istituita su un personaggio già in Euripide effettivamente travestito da vagabondo e mendicante.

Ottenuto e indossato il copricapo di Telefo, Diceopoli procede spedito con l’immedesimazione nel ruolo tragico. Al dichiarato miglioramento delle proprie capacità retoriche – riversate nella testa del contadino dal cappello misio, da cui la capacità di costume e attrezzeria di “contenere” il personaggio ovvero alcune sue caratteristiche peculiari – si accompagna per converso un sempre più insistente ricorso all’accattonaggio. Nuovo σκεῦος a completamento del costume da Telefo è costituito dal bastone da pitocco – πτωχικός βακτήριον [Ach. 448] – a sancire lo

status da errabondo del suo portatore: un attrezzo teatrale tipologicamente ben

definito e riconoscibile, come lascia supporre il ricorso al medesimo sintagma attestato negli Acarnesi in un altro locus testuale aristofaneo tratto dal Geras e testimoniato da Polluce [Poll., 10.173.10 Bethe = F 141 Kassel-Austin], lessicalmente caratterizzato dal ricorso del medesimo aggettivo che qualifica, nel Reso (pseudo- )euripideo, il travestimento da mendicante del protagonista titolare, πτωχικὴν ἔχων στολὴν [Rh. 503 Diggle].

L’ennesima questua di oggetti da parte di Diceopoli-Telefo porta Euripide, derubato del proprio strumentario, oltre le soglie dell’esasperazione e nuovamente entro quelle della propria casa, concludendo l’episodio:

ΔΙ. Ὦ θύµ', – ὁρᾷς γὰρ ὡς ἀπωθοῦµαι δόµων, πολλῶν δεόµενος σκευαρίων, – νῦν δὴ γενοῦ γλίσχρος, προσαιτῶν, λιπαρῶν. Εὐριπίδη, δός µοι σπυρίδιον διακεκαυµένον λύχνῳ. | ΕΥ. Τί δ', ὦ τάλας, σε τοῦδ' ἔχει

πλέκους χρέος; | ΔΙ. Χρέος µὲν οὐδέν, βούλοµαι δ' ὅµως λαβεῖν. | ΕΥ. Λυπηρὸς ἴσθ' ὢν κἀποχώρησον δόµων. | ΔΙ. Φεῦ. Εὐδαιµονοίης, ὥσπερ ἡ µήτηρ ποτέ. | ΕΥ. Ἄπελθέ νύν µοι. | ΔΙ. Μἀλλά µοι δὸς ἓν µόνον, κοτυλίσκιον τὸ χεῖλος ἀποκεκρουµένον. | ΕΥ. Φθείρου λαβὼν τόδ'· ἴσθ' ὀχληρὸς ὢν δόµοις. | ΔΙ. Οὔτοι µὰ Δί' οἶσθ' οἷ' αὐτὸς ἐργάζει κακά. Ἀλλ', ὦ γλυκύτατ' Εὐριπίδη, τουτὶ µόνον, δός µοι χυτρίδιον σπογγίῳ βεβυσµένον. | ΕΥ. Ἄνθρωπ', ἀφαιρήσει µε τὴν τραγῳδίαν. Ἄπελθε ταυτηνὶ λαβών. | ΔΙ. Ἀπέρχοµαι. Καίτοι τί δράσω; Δεῖ γὰρ ἑνὸς οὗ µὴ τυχὼν ἀπόλωλ'. Ἄκουσον, ὦ γλυκύτατ' Εὐριπίδη· τουτὶ λαβὼν ἄπειµι κοὐ πρόσειµ' ἔτι· εἰς τὸ σπυρίδιον ἰσχνά µοι φυλλεῖα δός. | ΕΥ. Ἀπολεῖς µ'. Ἰδού σοι. Φροῦδά µοι τὰ δράµατα. | ΔΙ. Ἀλλ' οὐκέτ', ἀλλ' ἄπειµι. Καὶ γάρ εἰµ' ἄγαν ὀχληρός, οὐ δοκῶν µε κοιράνους στυγεῖν. Οἴµοι κακοδαίµων, ὡς ἀπόλωλ'. Ἐπελαθόµην ἐν ᾧπέρ ἐστι πάντα µοι τὰ πράγµατα. Εὐριπίδιον ὦ γλυκύτατον καὶ φίλτατον, κάκιστ' ἀπολοίµην, εἴ τί σ' αἰτήσαιµ' ἔτι, πλὴν ἓν µόνον, τουτὶ µόνον, τουτὶ µόνον, σκάνδικά µοι δὸς µητρόθεν δεδεγµένος. | ΕΥ. Ἁνὴρ ὑβρίζει· κλῇε πηκτὰ δωµάτων,

Diceopoli: Anima mia, vedi come sono scacciato fuori di casa, e tanti

attrezzini ancora mi servono… C’è bisogno di farti invadente, accattone, importuno! Euripide, dammi un canestrino bruciacchiato dalla lucerna… |

Euripide: Perché mai, disgraziato, hai bisogno di un tale intreccio? | Diceopoli: Nessun bisogno, ma voglio prenderlo comunque… | Euripide:

Sei fastidioso, allontanati da casa! | Diceopoli: Sii felice, come lo fu tua madre un tempo! | Euripide: Vattene, ora! | Diceopoli: Ma dammi solo una cosa, una ciotolina sbeccata sull’orlo… | Euripide: Ecco, prendila e va’ alla malora! Sei proprio un importuno, qui in casa mia! | Diceopoli: Non ancora, per Zeus! Sai bene di quali afflizioni proprio tu sei capace! Ma, dolcissimo Euripide, questo soltanto ancora, dammi un pentolino tappato con una spugnetta… | Euripide: Tu, mi porterai via tutta la tragedia! Prendilo e vattene! | Diceopoli: Me ne vado… Ma come farò? Mi manca infatti ancora una cosa, e se non la recupero sono perduto… Ascolta, dolcissimo Euripide, prendo quest’altra cosa e non torno più… Dammi della verdura appassita per il canestrino! | Euripide: ”Mi rovini! Ecco a te: Più nulla per i miei drammi! | Diceopoli: Ma no, me ne vado! Sono proprio

uno scocciatore oltre misura, e non capisco che i potenti mi hanno in odio! Povero me, infelice, sono perduto! Stavo per dimenticare ciò da cui dipende tutto! Euripiduccio, dolcissimo e amatissimo, possa io andare in malora nel peggiore dei modi se ti chiedessi mai ancora qualcosa, a parte una cosa soltanto, soltanto questa, questa qui, dammi del prezzemolo selvatico, quello che ti ha lasciato tua madre… | Euripide: Quest’uomo mi insulta: spranga le porte di casa!

[Ach. 450-479]

Sotto la denominazione di σκευάρια, nel passaggio in questione rientrano, in qualità di elementi di attrezzeria scenica, tre effettivi instrumenta domestica menzionati tramite l’ormai consueto ricorso a forme alterate diminutive, un canestrino, σπυρίδιον, una ciotolina, κοτυλίσκιον, un pentolino, χυτρίδιον. Tali oggetti costituiscono l’estremo obiettivo delle mire di Diceopoli/Telefo, il loro possesso obbligatorio è paradossalmente motivato dall’assenza di bisogno effettivo: la pressante richiesta soggiace a necessità di completamento del costume del personaggio, un insieme la cui costituzione prevede elementi apparentemente accessori, privi di concrete funzioni sceniche e strumentali, eppure determinanti per la fisica e materiale costituzione del ruolo.

Così come già notato a proposito del copricapo, l’agglutinazione di recipienti e contenitori da mendicante al personaggio di Telefo quali suoi imprescindibili elementi distintivi costituisce un dato di paternità euripidea e di lunga tradizione. La derivazione tragica dell’attributo parodiato – e presumibilmente moltiplicato per ragioni comiche – negli Acarnesi è testimoniata dallo scolio antico che glossa la menzione di Telefo nell’apostrofe rivolta dal Discorso Migliore al Discorso Peggiore nell’agone delle Nuvole aristofanee (primo allestimento in seconda redazione 418 a.C.):

Κρ. καίτοι πρότερόν γ' ἐπτώχευες, Τήλεφος εἶναι Μυσὸς φάσκων δύστροπος, ἐκ πηριδίου γνώµας τρώγων Πανδελετείους,

Discorso Migliore: invece fino a ieri chiedevi l’elemosina, dicendo di

pandelezie [da sicofante] prese da una piccola bisaccia.

[Nubes 921-924 Coulon-Van Daele]

πτωχὸν Εὐριπίδης συσκευάζει τὸν Τήλεφον στρατηγὸν ὄντα Μυσίας µετὰ πηριδίου ἐλθόντα προσαίτην εἰς τὴν Ἑλλάδα καὶ τῆς Ἀγαµέµνονος αὐλῆς µόλις ποτὲ πυλωρὸν γεγονότα· διὸ καὶ κωµῳδεῖται,

Euripide ha allestito Telefo, che è un condottiero di Misia, alla maniera di un mendicante, vagabondo fino in Grecia con una piccola bisaccia e, una volta giunto alla reggia di Agamennone, pitocco presso la sua porta; questo