Il cavaliere e la morte ha, pertanto, un duplice legame con la storia: guarda al pre-
sente e, con preoccupazione, a un futuro non troppo lontano; contemporaneamente rie- voca la memoria del terrorismo, seppur trasfigurandolo nei modi che abbiamo visto nel precedente paragrafo. Questa bivalenza è riscontrabile anche nella costruzione del per- sonaggio del Vice. Gli altri detective sciasciani qui analizzati, Rogas del Contesto e il pittore di Todo Modo (quest'ultimo assume le funzioni di poliziotto, pur non essendo il
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suo mestiere), simboleggiano la ragione che tenta di risolvere i casi e di ordinare il caos e la tragicità vigenti nell'Italia degli anni Settanta. Il Vice veste, ugualmente, gli stessi panni della ragione, ma con una sostanziale differenza rispetto agli altri: l'introspezione del personaggio è accompagnata da un crepuscolare senso della fine, della morte, della malattia. È come se già il protagonista presagisse a quell'irrimediabile pessimismo sulle sorti dell'Italia e dei bambini, quindi degli uomini di domani.
Il presente è per il Vice un tempo di dolore e malattia e spesso nel giallo ci sono rife- rimenti a improvvise manifestazioni del malessere.
«Lo capisco» disse il Vice. Stava un po' divagandosi. Poiché il dolore era ormai riuscito a imbrigliarlo dandogli colori, immagini e soprattutto pensieri [...], ora lo sentiva e vedeva come un'onda lenta nel suo moto di avanzare e di ritrarsi: grigia, plumbea. [CAV 27]
Stordito, meno acuto ma più sordo e diffuso, era anche il dolore. Curioso come il dolore fisico, anche quando ha causa stabile e, se non in peggio, indeclinabile, si possa attenuarsi o crescere, mutare di in- tensità e qualità, secondo le occasioni e gli incontri. [CAV 50]
Arrivò da lei molto stanco: una sola rampa di scala, vecchia scala dai gradini bassi e levigati; ma per lui era ormai affannoso ogni salire. Curiosamente, però, l'affanno metteva in fuga il dolore. Pensò che bisognava parlarne a un medico: chi sa che non ci fosse una terapia dell'affanno; ne scoprono tante, se le rimangiano, le riscoprono, tornano a rimangiarsele. [CAV 76]
Il dolore è raffigurato in vari modi: ora diventa un'onda che avanza e si ritira dentro il corpo e la mente dell'uomo; può anche essere più acuto o più lieve a seconda delle emo- zioni e sensazioni provate; la malattia rende l'uomo affaticato anche nel salire qualche gradino, eppure quella fatica faceva sentire meno dolore.
C'è sempre, però, una serena rassegnazione nell'affrontare la malattia e nell'accettare la morte:
«Ma lei di che male ha sofferto, precisamente?.
«Precisamente di un male per cui dovrei essere in terapia da cobalto, o qualcosa di simile». «Non pensavo fino a questo punto».
«Anche oltre: sto morendo», e lo disse con tanta serenità che all'altro si gelarono di falsità le parole che stava per dire. Sommessamente disse soltanto un «mio Dio». [CAV 55]
È stato detto che il cancro del Vice è anche metafora del cancro che attanaglia la so- cietà.66 Da qui è facile dedurre che l'accettazione della morte diventa anche un modo per il Vice, da poliziotto intellettuale, di rassegnarsi di fronte alla tragicità degli eventi ita- liani. Di fronte al male, inteso sia come malattia sia come ingiustizia e crimini sociali, il Vice ha la stessa serena disperazione. Per tutto il romanzo tenterà, con le poche forze
66 O. Barbella, Il delitto senza castigo, Milano, Università degli Studi, 1997, p. 296, cit. in TURCHETTA 1999, p. 119.
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che gli sono rimaste, di svelare la verità, di tentare di convincere il Capo che non si può accettare la pista che altri avevano già stabilito. In quest'aspetto il Vice è Rogas, è Cu- san, è il pittore, è Sciascia stesso: la ricerca della verità, anche nelle condizioni più av- verse, anche se non porterà all'affermazione della giustizia, è sempre degna dell'intellet- tuale che vuole dire la sua. Si avverte, però, nella figura del Vice la stanchezza del poli- ziotto, alias di Sciascia: l'intellettuale ha visto tanto della Sicilia, dell'Italia, degli uomi- ni e Il cavaliere e la morte non ha certo la stessa impetuosa denuncia del Contesto, di
Todo modo e dell'Affaire. Dietro il Vice c'è la voce sommessa di Sciascia, malato, alla
fine della vita e senza speranze per il futuro dell'Italia: «Nel libro c'è quella che Saba chiamava una serena disperazione. [...] Penso che nulla cambierà più in Italia, almeno nell'arco della mia breve vita».67 Il pessimismo e la rassegnazione sono espressi nell'ac- coglienza del Vice del consiglio del Capo di concedersi una vacanza. Anche per il pro- tagonista il congedo appare l'unico modo per allontanarsi da quella polizia, dalle stortu- re di quel mondo:
Vagò per la città con un senso di libertà che credeva di non aver mai provato. Ancora bella, la vita; ma per chi ancora ne era degno. Se ne sentì non indegno, e come premiato. [...] Come sempre, però, quando arrivava allo sconforto dell'oggi, alla disperazione del domani, si domandò se nel rammaricar- si per l'indegnità in cui il mondo correva non ci fosse il rancore di stare per morire e l'invidia per colo- ro che restavano. Forse sì, pur nella dilagante pietà che sentiva per tutti quelli che restavano; tanto che in certi momenti, incattivito, gli avveniva di ripetersi nella mente, a modo dei presentatori di avanspet- tacolo della sua adolescenza, un «signore e signori, buon divertimento»; come un saluto, beffardamen- te. Ma nella coscienza che il divertimento non ci sarebbe stato, era pur sempre, scontrosamente, pietà. [CAV 84]
Il Vice prova pietà nei confronti di chi resta ed è quello stesso sentimento che ave- vamo trovato nell'Affaire Moro. Oggi c'è lo sconforto, domani la disperazione.
Che cosa rimane, dunque, a questo disperato e sereno cavaliere? Il ricordo, la me- moria di un tempo passato. Le riflessioni sui giorni trascorsi, però, sono pervasi da un'indicibile nostalgia, come se niente, ormai, si possa recuperare. C'è innanzitutto il ri- cordo della Sicilia, terra natia di dolore e rancore:
E non che non amasse la terra dov'era nato: ma tutto quel che ne era ogni giorno notizia, greve, tragi- ca, gli dava una sorta di rancore. Non tornandovi da anni, al di là di quel che vi accadeva, la cercava nella memoria, nel sentimento di qualcosa che non c'era più. Illusione, mistificazione: da emigrante, da esule. [CAV 51]
La memoria tenta di recuperare un tempo siciliano felice, ma, anche se fosse esistito, ormai è impossibile ritrovarlo. Il Vice si sente come un emigrante, un esule e, come dirà
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al Grande Giornalista, è sbarcato «su un'isola deserta» [CAV 67], dove anche il ricordo è misero.
Allo stesso modo, la visita alla donna amata in passato riserva la stessa frustrazione nel tentare di riappropriarsi di un tempo ormai passato.
La guardava indovinando sotto la veste leggera quel corpo conosciuto, che aveva desiderato ed amato per anni, e forse più quando lei aveva cominciato a sentire che la giovinezza se ne andava, che il suo corpo sfioriva; a sentirsene minacciata ed offesa come da un'ingiustizia, da un sopruso. [...] Tutto si allontanava, era ormai lontano. Restava in lui un senso di tenerezza, e quasi era diventata pietà. Curio- so come in lui, ora, ogni sentimento che era stato di amore o di avversione si mutasse in pietà. E anco- ra più curioso che la memoria trasfigurasse in bellezza quelle lontane sofferenze e disperazioni. Tutto mentiva anche la memoria. [CAV 80]
La memoria mente: così come il ricordo degli anni di piombo è negato, trasfigurato, adombrato, il Vice sente che ormai la sua mente non riesce a recuperare neanche la pas- sione di un amore passato. Il vortice del tempo sta risucchiando ogni aspetto della sua vita e per quella donna rimane un po' di tenerezza e la pietà, che è forse il sentimento che il personaggio prova anche per se stesso.
Il Cavaliere e la morte espone la tragicità di un presente dominato da un Potere che riesce ancora ad insinuarsi in ogni aspetto del reale; trasfigura un passato di stragi, terro- re, sequestri di persone; non dà nessuna speranza per il futuro. Il tutto è ricalcato dalla figura del Vice che oggi soffre per il cancro; ha paura per il futuro dei bambini in quell'Italia; è consapevole che ogni recupero memoriale lo tradisce, è solo una mera il- lusione. Rimangono per lui solo due consolazioni: la morfina e la letteratura.
«La morfina è bella; bisogna prenderla quando non se ne può più», lo aveva ammonito l'amico medico nel consegnargliene un pacchetto. Belli gli effetti della morfina, più se succedevano all'insopportabile sofferenza. Più forte la tempesta, più dolce la quiete. La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villag-
gio, Il passero solitario, L'infinito: quali grandi e profondi sentimenti, con assoluta semplicità, e ma-
gari con immagini banali, quel poeta di felice infelicità aveva rivelato e indelebilmente impresso nella memoria degli italiani che si potevano ora dir vecchi: negli anni lontani della scuola, e da allora. Lo si leggeva ancora, nella scuola? Forse ancora; ma certo nessun ragazzo ne sapeva i versi a memoria. [CAV 73]
Javier Serrano Puche, in un saggio sull'intertestualità nel Cavaliere e la morte, nota che la verità nella letteratura si manifesta anche nella creazione di un personaggio che ha una visione del mondo basata sulla cultura, sull'arte.68 Non a caso, nel momento di massima sofferenza, placabile solo con la morfina, l'uomo si sente vicino a Leopardi: l'ossimoro «felice infelicità» rende adeguatamente il pensiero del poeta, sofferente e pessimista come lo è il Vice. È questo un caso in cui, nel romanzo, le opere letterarie ci-
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tate si accordano allo status del personaggio: il dolore e la calma provocata dalla morfi- ne, la quiete e la tempesta leopardiane.69 Eppure, solo la letteratura può salvarsi nel ma- rasma del tempo: i ragazzi sapranno ancora quei versi a memoria? E se non li conosco- no, sanno cosa si perdono? La letteratura è l'unica che nel romanzo rimane indelebil- mente impressa nella memoria. Per questo motivo, forse, Sciascia sceglie la fiction per quello che ha considerato come il libro che chiude il suo giudizio sulle cose italiane e sull'esistenza, ma chiude anche la sua esperienza intellettuale e, prima di ogni cosa, umana.