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«Si può sospettare, dunque, che esista una segreta carta costituzionale che al primo articolo reciti: La sicurezza del potere si fonda sull'insicurezza dei cittadini».

«Di tutti i cittadini, in effetti: anche di quelli che, spargendo insicurezza, si credono sicuri... E questa è la stupidità di cui dicevo».

«Siamo, dunque, dentro una sotie ..». [CAV 60]

Il dialogo tra il Vice e il dottor Rieti contiene in sé anche una dichiarazione di genere letterario: una sotie, com'era già stato indicato dal sottotitolo.

Con il termine sotie si indica originariamente un'opera teatrale quattro- cinquecentesca, una sorta di satira allegorica in forma di dialogo, dove i personaggi si trovano in un ambiente immaginario dominato dalla stupidità o dalla follia (in francese il termine 'sot' significa appunto 'sciocco, stolto'), con l'obiettivo di rappresentare, agli occhi dello spettatore, dignitari della corte e personaggi del mondo reale.70

Il genere è stato riproposto da Gide con i Sotterranei del Vaticano (un testo che era molto caro a Sciascia, si pensi alla citazione finale di Todo modo), da Kundera con Lo

scherzo e appunto da Sciascia stesso. Ancor prima che gli studi di Bachtin sulla tradi-

zione serio-comica fossero introdotti in Italia, Salvatore Battaglia si era occupato di queste opere.71 In Nero su Nero Sciascia riflette sul genere sotie, legato ad alcune opere di Diderot, e deduce che l'unica forma narrativa possibile, a quel tempo e in quell'Italia, è lo scherzo:

Possiamo mettere a conto del suo genio l'invenzione dello scherzo come categoria letteraria a noi, alla nostra epoca, destinata: previa, si capisce, introversione, infelicità, sofferenza: per noi. Non ci resta

69 PUCHE 2010, p. 159.

70 Cfr. E. Littré, Dictionnaire de la langue française, Paris, Hachette, 1863-1872, cit. in nota D'ASARO

1994, p. 338.

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che lo scherzo, se vogliamo salvarci; se vogliamo, cioè, salvare l'intelligenza delle cose, dei fatti. Lo scherzo dentro di noi, dentro le cose, i fatti, le idee: con uno strazio ignoto a Diderot, ignoto al suo tempo. [OP II 784]

Lo scherzo, dunque, diventa l'unico modo per raccontare i fatti. È uno scherzo, però, che non fa ridere, ma è accompagnato dallo «strazio»: un sostantivo che indica una sen- sazione che va oltre la tristezza, oltre l'amarezza, ma è proprio un dolore acuto, insop- portabile.

Di conseguenza, nella sotie lo scherzo e la parodia sono i tratti distintivi che condu- cono ad attente riflessioni. Nel romanzo lo scherzo è distinguibile in tre livelli:

- la struttura del giallo classico è parodiata, così com'era avvenuto nel Contesto e To-

do modo;

- lo scherzo è un tema ricorrente nel testo;

- infine, lo scherzo rimane l'unico atteggiamento possibile per affrontare le tragedie storiche e civili, e quelle esistenziali.

Quando il Vice riceve la notizia dell'assassinio di Rieti fa una riflessione in rapporto al mistery classico:

Si sentiva come dentro uno di quei romanzi polizieschi il cui autore usa ed abusa, nei riguardi del let- tore, di una slealtà grossolana, senza precauzione, nemmeno furba. Ma in questo caso la slealtà era un errore, un suo errore. Ma era stato anche un errore di Rieti? O Rieti gli aveva nascosto quella parte di verità effettuale cui era più direttamente interessato? [CAV 90]

Nel Cavaliere, sostiene Turchetta, vi è un narratore esterno dotato di indiscutibile au- torità, padrone della storia e dei giudizi che su di essa vengono espressi. Questo narrato- re con frequenza adotta il punto di vista del Vice, che esprime una visione pienamente attendibile e ha delle posizioni identiche a quelle del narratore.72 Il fatto che il Vice dica di sentirsi dentro un romanzo poliziesco sleale si può considerare come un'altra dichia- razione di genere. Effettivamente, il giallo non segue la linea del mistery classico, che è solitamente formato da questi elementi: innanzitutto sono rivelati i delitti; successiva- mente viene introdotto il mistero; il detective o la polizia indagano per scoprire i colpe- voli; infine si arriva alla soluzione del caso, tramite un procedimento logico-deduttivo.73 D'Asaro ha studiato minuziosamente la struttura narrativa del Cavaliere e ne deduce che i primi otto capitoli si articolano in maniera tradizionale. Troviamo, infatti, subito il mi- stero dato dall'assassinio dell'avvocato Sandoz e dopo si sviluppa l'indagine. Ci sono

72 TURCHETTA 1999, p. 120. 73 D'ASARO 1994, p. 347.

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due piste: la prima è quello dello «scherzo» dei biglietti tra Sandoz e Aurispa, la secon- da è quello dello «scherzo» dei figli dell'89. S'inizia, quindi, a delineare quella dicoto- mia tra menzogna e verità, tra verità oggettiva del Capo (che è alimentata da alcuni in- dizi, come le testimonianze di Aurispa e la telefonata del presunto terrorista) e la verità soggettiva del Vice (sono ipotesi che sono nutrite da suggestioni personali e dai dialoghi con le signore e il dottor Rieti).74

A questo punto, si può capire qual è la più grande infrazione rispetto al giallo classi- co: se nel mistery, difatti, andando avanti nella narrazione i misteri vengono chiariti e la soluzione è sempre più vicina, nel Cavaliere e la morte la situazione si complica sempre di più. Il lettore deve fare i conti con due soluzioni e le uniche due persone, il Vice e Rieti, che potrebbero svelare la verità, vengono uccise.

A livello di struttura narrativa Il cavaliere e la morte riprende alcuni elementi sia dal

Contesto sia da Todo modo. Con la parodia del 1971 vi sono molti aspetti simili: dalla

logica del depistaggio all'omicidio del protagonista, dal poliziotto controcorrente alle varie istituzioni che invece seguono la pista delineata dal Potere. Da Todo modo, invece, Sciascia riprende la caratterizzazione del personaggio principale, che non ha come uni- co scopo la ricerca della soluzione al caso, ma sia per il pittore sia per il Vice c'è una specifica attenzione alle sensazioni, alle emozioni, ai giudizi sugli affari dell'Italia e sull'esistenza.

La sotie, però, differisce dai gialli precedenti per la continua, e quasi ossessiva, tema- tizzazione dello «scherzo». È un gioco quello che avviene tra i due industriali alla cena; il Vice crede che i figli dell'89 non esistano, si vogliono creare ed è perciò uno scherzo; le telefonate che riceve Sandoz sono fatte per scherzo; il giovane figlio dell'ottantanove arrestato ammette che aveva fatto la telefonata per entrare nell'associazione ed era stata una chiamata realizzata per scherzo o per «maniacale affermazione di sé» [CAV 64]. Ogni singolo filo della narrazione s'imbroglia su stesso e non si riesce più a capire quando si gioca e quando no. Anche gli interrogatori del Vice con le donne, con Rieti e con il Grande Giornalista, seppur assumano dei toni più seri, si attestano sempre su quel confine sottile del dire e del non dire, della verità e della menzogna, della supposizione e dell'oggettività.

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L'autore, sicuramente, non vuole creare una comicità fine a se stessa. «Le opere di Sciascia - dice Turchetta - si qualificano con ogni evidenza come esempi di letteratura serio-comica, sia per l'intonazione, sia per lo spiccato carattere filosofico».75 Ed è pro- prio nella metafisicità del giallo sciasciano che possiamo tentare di capire perché nel 1988, in Italia, con quella cronaca e quella storia di stragi e morti alle spalle, Sciascia scelga ancora di tornare alla fiction.

Nella rappresentazione del terrore e del Potere L'affaire Moro era stato una parentesi: la tragicità degli eventi aveva costretto Sciascia a prendere parola in prima persona con un violento rimprovero politico-civile. Il pamphlet era stato anche la prova che letteratu- ra aveva generato quel tipo di realtà, che tanti degli eventi successi erano già presenti nell'immaginario di Sciascia, di Pasolini. 1988: dieci anni dopo, come se tutto fosse un ciclo ben costruito, l'intellettuale sente il bisogno di ritornare alla letteratura.

Sciascia non ha mai voluto rappresentare il terrorismo per quello che era stato real- mente. Anche nel 1988, preferisce ritornare ai suoi schemi narrativi, al complotto, al depistaggio. D'altronde, la sotie è uno scherzo, è uno scherzo letterario e il lettore sa che ci sono stati gli anni di Piombo, sa che c'è stato L'affaire Moro e sa quanto Sciascia si sia accanito contro la mancanza di giustizia e stabilità nell'Italia degli anni Settanta, e Ottanta. Pare che si instauri un gioco anche tra l'immaginario e la realtà: in letteratura tutto ritorna a quello che era stato nel 1971, ma sono troppe le spie che riportano il ro- manzo nel suo tempo, negli anni Ottanta.

Nel Cavaliere e la morte, lo scherzo diventa tragico, perché non si rinviene nessuna speranza per l'Italia, né per il presente né per il futuro. È un romanzo che rappresenta l'urlo sommesso di un intellettuale che sa che se ci fossero stati dei miglioramenti per questo Paese, di certo egli non li avrebbe visti. Allora, l'unica scelta possibile è la lette- ratura, che a volte può essere uno schermo protettivo: nella trama di un romanzo si può giocare a creare e mitizzare l'immagine di un demiurgo Potere che vede tutto, che può tutto o si può dire che i figli dell'ottantanove sono una mera invenzione. Ma, come nel

Contesto e in Todo modo, in un punto la letteratura non riesce a tradire la realtà: i ro-

manzi di Sciascia hanno la capacità di mostrare l'inquietudine, i misteri, le mezze verità, le colpe degli uomini del Potere, le ingiustizie, la corruzione, i soprusi che hanno carat- terizzato uno dei periodi più oscuri della nostra Repubblica. Tanto è vero, che l'unica

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cosa che resta a Sciascia, alle soglie della sua esperienza intellettuale e umana, è un'im- magine di fine, di morte.

La sotie rimane l'unica possibilità per la letteratura di salvarsi dallo sfacelo sociale. Bisogna ridere, ridere amaramente dell'Italia, del mondo, degli uomini. Il Vice, beffar- damente, direbbe: «signore e signori, buon divertimento» [CAV 84].

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Conclusioni

Sciascia: il polemista e il romanziere. Questo lavoro, in primis, ha messo in luce la bivalenza tra l'immaginazione di Sciascia (ricavabile dai romanzi) e la voce dell'intellettuale, che polemizza e descrive la società italiana negli anni del terrori- smo. Le due entità, a volte, possono essere ben distinte, in altre occasioni Sciascia si diverte a giocare con le dichiarazioni fatte su interviste, articoli di giornali o saggi, e con le allusioni o le rappresentazioni dei suoi romanzi. Per intenderci, negli anni del

Contesto Sciascia ha risposto alle polemiche di tanti contemporanei, che avevano ac-

cusato il romanzo di essere un testo reazionario, qualunquista, pessimista. L'intellet- tuale sapeva che sarebbe potuto andare incontro ad alcune critiche, sebbene nel ro- manzo l'accusa ai maggiori partiti italiani, Dc e Pci, e alla possibilità di una rivolu- zione di sinistra siano celate in un paese inventato, dai tratti sudamericani. D'altron- de, Il contesto è un testo chiave per interpretare la «desertificazione ideologica» che in Italia era solo all'inizio1, ma anche per capire il clima di instabilità politica e socia- le dei primi anni Settanta.

L'invettiva nascosta tra le pagine di Todo modo è sì gelida e inquietante, ma allo stesso tempo non lascia grossi spazi ai dubbi: quella è l'Italia, quello è il potere della Chiesa e quelli sono i politici democristiani che governano il Paese da trent'anni. Sciascia non voleva puntare il dito contro uno specifico uomo del Potere, contro Mo- ro, Andreotti o Fanfani, ma ha denunciato una classe politica, che era sempre più coinvolta negli scandali. Todo modo non creò grandi polemiche, ma se pensiamo all'interpretazione di Elio Petri, nel film omonimo, possiamo avere un'idea della rice- zione del testo. Il regista ha creato un film democristiano e ha scelto attori (come Gian Maria Volontè) che avevano una spiccata somiglianza con reali personaggi del mondo politico, con Aldo Moro soprattutto.

In entrambi i romanzi, comunque, si percepiscono sia l'osservazione dell'Italia contemporanea, sia le delusioni dell'intellettuale polemista. Nel Contesto, infatti, Sciascia esprime la propria accusa nei confronti dell'amato-odiato partito comunista e lo scettiscismo dinanzi a qualsiasi istanza di cambiamento. Alla stessa maniera, in

Todo modo, si ravvisa la delusione nei riguardi del partito democristiano, nel quale

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Sciascia aveva creduto da giovane e che, comunque, non si mostrava in grado di af- frontare le minacce del terrorismo, che era un fenomeno sempre più diffuso in Italia. Comunque, nell'immaginario Sciascia riporta la propria voce, la polemica, la criti- ca nei confronti della società italiana. Ha sentito sempre il dovere morale di legare la professione di scrittore alla voglia di denunciare ogni misfatto, ogni punto oscuro della storia nazionale. Non a caso, dopo la morte di Pasolini, Sciascia si sente come un orfano e avverte il bisogno di parlare ancora, sempre più forte: «Quando è morto, e morto in quel modo, mi sono sentito straziato e solo, tanto più solo. Dicevamo qua- si le stesse cose, ma io sommessamente. Da quando non c'è lui mi sono accorto, mi accorgo, di parlare più forte. Non mi piace, ma mi trovo involontariamente a farlo».2 E guarda caso, sotto il segno di Pasolini inizia la polemica più intensa di Sciascia contro l'Italia degli anni Settanta: L'affaire Moro. Il pamphlet ha decretato la vittoria della voce del polemista sul romanziere: l'atrocità della realtà ha costretto Sciascia a lasciare l'immaginazione. Anche per L'affaire lo scrittore ha dovuto subire una serie di critiche di stampo ideologico e politico; le ha affrontate sempre nella consapevo- lezza di aver voluto raccontare non solo la cronaca dei cinquantacinque giorni del sequestro Moro, ma soprattutto di essere stato attento alla fine tragica di un uomo, prima ancora del «politicante».

I primi tre testi analizzati, con la loro profonda eco nella società italiana (Sciascia diceva che solo il silenzio uccide un libro, non le opinioni negative)3 e le trasposizio- ni cinematografiche4, hanno dimostrato che la letteratura ha avuto in quegli anni il

potere - non prendiamo la parola in senso sciasciano, ma con un'accezione positiva -

di far sentire una tenace denuncia. Ovviamente lo scrittore era ben conscio che un li- bro non avrebbe cambiato le sorti dell'Italia, ma l'impegno a raccontare in prima per- sona (L'affaire) e a trasfigurare le vicende (Il contesto e Todo modo prima, e il Cava-

liere e la morte dopo) rende Sciascia un acuto testimone della sua epoca e, da questo

punto di vista, ridà dignità alla parola letteraria.

In questo lavoro, il confronto con la cronaca degli anni Settanta e Ottanta, e so- prattutto con quello che succedeva nei periodi immediatamente precedenti alle date

2 SCIASCIA-LAYOLO 1981, p. 69. 3 LEOSINI 1974.

4 Ricordo che nel 1976, oltre a Todo modo di Elio Petri, uscì nelle sale cinematografiche Cadaveri ec-

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di pubblicazione delle opere, ha permesso di screditare l'attributo di «profeta», che molta parte della critica ha dato a Sciascia. Allo stesso modo, molti critici letterari, politici e giornalisti dell'epoca hanno sempre ritenuto l'intellettuale un «sicilianista», come se Sciascia in ogni romanzo riportasse la rappresentazione della Sicilia e della mafia. È evidente che queste opere parlano di tutta l'Italia e l'unico aspetto che Scia- scia si porta dietro della terra natia è il concetto di «concatenazione mafiosa», che è da intendersi come uno dei tanti tipi di Potere che minano alla sicurezza e alla giusti- zia degli individui.

Sciascia ha guardato alla storia nazionale da cittadino, che vedeva un'incombente minaccia per lo Stato sia da parte di chi voleva destabilizzarlo (i terroristi) sia da par- te di chi avrebbe dovuto garantire la giustizia e la legalità (i politici). Le osservazioni sono state fatte in veste di romanziere, giornalista o politico.

È vero che nell'Affaire si arriva a quell'atroce consapevolezza (o paradosso?) che la letteratura abbia addirittura generato la realtà, ma di certo Sciascia non credeva di essere un profeta, ma ha solo compreso che la letteratura può essere la sede privile- giata della verità e, in certo senso, in quegli anni ha compensato alcune lacune da parte della storiografia, della giurisprudenza, della politica: il vero contributo dato dalla letteratura di Sciascia al racconto del terrorismo è la denuncia. Perché? Perché rispetto a queste discipline, la letteratura ha la capacità di poter dire altro, di non ac- contentarsi delle spiegazioni dei giornali o delle prime ricostruzioni storiche (ricor- diamo che Sciascia è un testimone diretto di quegli anni). L'inquietudine deriva dal fatto che in questo altro si ritrova tanta realtà.

Questa tesi ha preso in esame, appunto, il modo in cui Sciascia ha raccontato gli anni del terrorismo in Italia. Il percorso che va dal Contesto al Cavaliere e la morte ha dimostrato che c'è uno schema narrativo che ritorna in tutti i testi. Il padrone indi- scusso di quest'architettura è il Potere e tutto ruota intorno ad esso. Nel Contesto il Potere è talmente forte da non lasciare spazio ad alcuna possibilità di cambiamento. I plurimi omicidi dei giudici sono specchio delle prime stragi nere e i gruppuscoli di sinistra sono solo un modo che il Potere ha per depistare le indagini. Nel romanzo del 1971 il terrorismo rosso non esiste e, del resto, in quegli anni nessuno poteva pensare che i gruppi extraparlamentari di stampo marxista fossero gli antenati delle brigate rosse.