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«Tutto dipende dal saper dominare la massa come un artista»

Come ogni salda concezione politica, il fascismo è prassi ed è pensiero, azione a cui è im- manente una dottrina, e dottrina che, sorgendo da un dato sistema di forze storiche, vi resta in- serita e vi opera dal di dentro. Ha quindi una forma correlativa alle contingenze di luogo e di tempo, ma ha insieme un contenuto ideale che la eleva a formula di verità nella storia superiore del pensiero. […]

Il fascismo è una concezione religiosa, in cui l'uomo è veduto nel suo immanente rapporto con una legge superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l'individuo particolare e lo ele- va a membro consapevole di una società spirituale. Chi nella politica religiosa del regime fasci- sta si è fermato a considerazioni di mera opportunità, non ha inteso che il fascismo, oltre a es- sere un sistema di governo, è anche, e prima di tutto, un sistema di pensiero. Il fascismo è una concezione storica, nella quale l'uomo non è quello che è se non in funzione del processo spiri- tuale a cui concorre, nel gruppo familiare e sociale, nella nazione e nella storia, a cui tutte le nazioni collaborano. Donde il gran valore della tradizione nelle memorie, nella lingua, nei co- stumi, nelle norme del vivere sociale. Fuori della storia 1'uomo è nulla.1

Così inizia la prima sezione de La dottrina del fascismo, un saggio pubblicato nel 1932 come voce dell’Enciclopedia Italiana, che rappresenta forse il più compiuto tentativo di si- stematizzare in forma sintetica le coordinate ideologiche entro le quali si muove l’esperienza politica fascista. Eppure, nonostante questo importantissimo documento testimoni esattamente il contrario, per lungo tempo, il fascismo è stato liquidato dalla storiografia come un movi- mento mancante di una qualsivoglia autonomia ideologica. Le interpretazioni «classiche» di questo fenomeno storico — il fascismo come «malattia morale» dell’Occidente; il fascismo come epifenomeno della «reazione di classe borghese al pericolo rosso»; il fascismo come prodotto inevitabile dello sviluppo storico italiano —, hanno infatti negato la portata cultu-

Benito Mussolini, La dottrina del fascismo, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1935, pp. 1-3 (corsivo

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mio). Secondo molti autori la prima parte di questo saggio, sarebbe da attribuire al filosofo Giovanni Gentile; Cfr. inoltre Renzo De Felice, Mussolini il duce, Vol. I: Gli anni del consenso, cit., pp. 35-36.

ralmente significativa dell’ideologia fascista, riducendola a una «sovrastruttura improvvisata sulla spinta dell’azione» o, al massimo, a un semplice «insieme di negazioni» rispetto alle realtà politiche del periodo postbellico. Oggi, invece, gli storici sono ormai concordi nel ri2 - conoscere l’esistenza di un’ideologia fascista coerente e positiva che affonda le proprie radici in un ricchissimo quanto eterogeneo humus culturale in cui si mescolano le correnti del sinda- calismo rivoluzionario di ispirazione soreliana, le esperienze del radicalismo nazionale, le avanguardie moderniste dei futuristi e dei «vociani», le teorie elitiste di Vilfredo Pareto e di Gaetano Mosca, l’irrazionalismo nietzschiano e gli influssi dell’idealismo tedesco mediati dall’attualismo di Giovanni Gentile. Sebbene dal punto di vista analitico si presenti come poco sistematica, l’ideologia del fascismo maturo può essere definita come attivistica, anti- deologica, antimaterialista, antipositivista, e totalitaria, incardinata cioè attorno al rifiuto della cultura razionalista e del portato dell’Illuminismo, al principio del primato dell’azione politica su ogni altro aspetto della vita individuale e collettiva e alla concezione dello Stato come at- tuazione di una volontà di potenza da parte di una minoranza attivista. Inoltre, pur accoglien3 - do alcune istanze di matrice conservatrice e reazionaria, essa rifiuta la concezione mitica di un passato archetipico, fonte di valori eterni, immutabili e metastorici e lo scetticismo verso i mutamenti radicali della società, tracciando una «terza via» alla modernità alternativa sia al liberalismo sia al marxismo, che si sostanzia in un’esperienza di modernismo politico rivolu- zionario volta alla rigenerazione morale dello spirito nazionale e alla trasformazione della so- cietà attraverso la costruzione dello Stato totalitario. 4

Una delle caratteristiche precipue che rende il fascismo un fenomeno ascrivibile alla cate- goria del modernismo politico, è il riconoscimento del ruolo delle masse come una delle gran- di forze della politica moderna. Nel contesto europeo, infatti, l’affermazione tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo della nazione come nuovo soggetto collettivo detentore della sovranità, si era tradotta gradualmente nell’avvento di una vera e propria politica di massa, aperta a milioni di uomini, eguali nella loro condizione di cittadini e dotati di diritti individua- li inalienabili. Ciò aveva portato, a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, nell’epoca del trionfo degli Stati nazionali, alla formazione dei grandi partiti di massa, al ten- denziale sviluppo delle istituzioni rappresentative e al progressivo allargamento del corpo

Sulle interpretazioni del fascismo rimane imprescindibile Renzo De Felice, Le interpretazioni del fascismo,

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Laterza, Roma-Bari 2007 [1969].

Cfr. Emilio Gentile, Fascismo. Storia e interpretazioni, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 78-83.

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Sul carattere moderno dell’ideologia del fascismo Cfr. Emilio Gentile, Introduzione in Id.(a cura di), Modernità

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totalitaria. Il fascismo italiano, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. V-XX; Id., Le origini dell’ideologia fascista, 1918-1925, Il Mulino, Bologna 1996 [1975], pp. 3-49; Id., Fascismo. Storia e interpretazioni, cit., pp. 265-309.

elettorale, che in molti casi si era tradotto nella concessione del suffragio universale maschile. Per dirla con le parole di Gustave Le Bon, autore del celeberrimo saggio Psicologia delle Fol-

le (1895):

Non più di un secolo fa, la politica tradizionale degli Stati e le rivalità tra i principi costitui- vano i principali fattori degli avvenimenti. L’opinione delle folle, nella maggioranza dei casi non contava affatto. Oggi, invece, le tradizioni politiche, le tendenze individuali dei sovrani e le rivalità esistenti tra questi ultimi hanno ben scarso peso. La voce delle folle è divenuta prepon- derante. Detta ordini al re. É nell’anima delle folle, e non più nei consigli dei principi, che si preparano i destini delle nazioni.

L’ingresso delle classi popolari nella vita politica, la loro trasformazione progressiva in classi dirigenti, è una delle caratteristiche più rilevanti della nostra epoca di transizione.5

Il fascismo, che si sviluppa come ideale rivoluzionario parallelamente all’«ingresso delle classi popolari nella vita politica», pur riconoscendo la nazione come soggetto politico deten- tore della sovranità, nega che le masse abbiano la capacità e la possibilità di autogovernarsi attraverso delle istituzioni rappresentative, e dunque rifiuta il pluralismo politico-ideologico tipico del sistema liberal-democratico così come l’esistenza di diritti individuali inalienabili. 6 Se però da una parte esso respinge questa modalità di partecipazione delle masse alla politica, dall’altra, allo stesso modo, non accetta nemmeno il rapporto tra governanti e governati tipico delle società di ancien régime, basato su una mera dominazione dei primi sui secondi. Come chiarisce lo stesso Mussolini nel corso di uno dei famosi colloqui con il giornalista tedesco Emil Ludwig:

La massa […] per me non è altro che un gregge di pecore, finché non è organizzata. Non sono affatto contro di essa. Soltanto nego che essa possa governarsi da sé. Ma se la si conduce, bisogna reggerla con due redini: entusiasmo e interesse. Chi si serve solo di uno dei due, corre

Gustave Le Bon, Psicologia delle folle. Un’analisi del comportamento delle masse, Gruppo Editoriale Mauri

5

Spagnol, Milano 2004 [1895], p. 33.

Secondo lo storico israeliano Zeev Sternhell, infatti, il fascismo deve essere qualificato come un ideale rivolu

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zionario nato in Francia nel quarto di secolo precedente alla Grande Guerra e frutto della sintesi, operata all’am- bito del Cercle Proudhon di Valois e Berth, tra il nazionalismo organico degli intellettuali di ispirazione reaziona- ria e cattolica addensati attorno a Maurras e all’Action Française, e la revisione antimaterialistica del marxismo operata da Sorel e dai cosiddetti sindacalisti rivoluzionari. Tale lettura delle origini culturali dell'ideologia fasci- sta seppur convincente si presta più per la costruzione di un idealtipo fascista che per una definizione particolare del fascismo italiano, in quanto non tiene conto del ruolo imprescindibile esercitato dall’esperienza della Grande Guerra nella definizione della sua ideologia. Cfr. Zeev Sternhell, La nascita dell’ideologia fascista, Baldini&Castoldi, Milano 1993.

pericolo. Il lato mistico e il politico si condizionano l’un l’altro. L’uno senza l’altro è arido, que- sto senza quello si disperde al vento delle bandiere. 7

Secondo il duce dunque, le masse devono essere inquadrate e stimolate attraverso l’azione di un «regime perennemente mobilitante», capace cioè di suscitare, attraverso una liturgia col- lettiva che unisca il lato «politico» a quello «mistico», «entusiasmo e interesse» nella mente dei cittadini ottenendo così la loro partecipazione alla vita politica. Per questa ragione, nella 8 «democrazia totalitaria» fascista le assemblee rappresentative sono sostituite da una nuova religione laica che funge da tramite tra il duce, espressione della volontà generale, e la comu- nità nazionale nella sua interezza. La conquista del consenso è infatti concepita dal fascismo 9 come un’adesione di fede al «culto del littorio», cioè a una religione politica strutturata come un coerente sistema di credenze, comandamenti, simboli e riti frutto di una sacralizzazione dell’ideologia fascista. La conversione delle masse alla fede comune nella religione fascista 10 si tradurrebbe così nella fusione, morale e spirituale al tempo stesso, di tutti gli italiani, al di là delle condizioni sociali, delle differenze di reddito, di sesso e di età, in un «armonico colletti- vo», cioè in un unico corpo politico adorante lo Stato divinizzato. Tale dinamica va posta in 11 relazione alla concezione dello Stato fascista elaborata da Giovanni Gentile sulla scorta di Hegel, secondo la quale lo Stato è un ente totale, etico, organico e storico, che organizza ed educa il corpo sociale, risolvendo gli interessi particolari in un interesse collettivo che tra- scende i singoli individui: è lo Stato che «crea» la nazione attribuendo al popolo, consapevole della propria unità morale, un’effettiva esistenza come comunità nazionale. Quindi secondo 12

Emil Ludwig, Colloqui con Mussolini, Mondadori, Milano 1970 [1932], p. 127.

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È Renzo De Felice a parlare per primo di un «regime perennemente mobilitante», intendendo però la mobilita

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zione come strumento politico di controllo nelle mani dello Stato nel momento in cui si attua il processo di de- politicizzazione del PNF, e non come presupposto che si pone alla base della cultura politica fascista. Cfr. Renzo De Felice, Mussolini il duce. Vol. I: Gli anni del consenso, 1929-1936, cit., pp. 29-36.

Cfr. George L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 151-153.

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Possiamo definire religione politica un’esperienza di sacralizzazione della politica da parte di movimenti e

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regimi che hanno adottato un sistema di credenze, espresso attraverso riti e simboli, per formare una coscienza collettiva secondo i principi, i valori e i fini della propria ideologia. La sacralizzazione della politica, di cui la religione della politica è una manifestazione, si verifica quando si attribuiscono le caratteristiche di un’entità sacra a un’entità politica astratta, come la nazione, lo Stato, la razza, la classe, e così via. Cfr. Emilio Gentile, Il

culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 141-151.

Per un approfondimento sulle religioni della politica Cfr. inoltre Emilio Gentile, Le religioni della politica. Tra

democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari 2007.

Cfr. Emilio Gentile, Il culto del littorio, cit., pp. 172-173.

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Cfr. Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, cit., pp. 418-443; Cfr. Id., La grande Italia. Ascesa e

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caduta del mito della nazione del ventesimo secolo, Mondadori, Milano 1996, pp. 163-172. Cfr. George L. Mos-

se, La cultura dell’Europa occidentale nell’Ottocento e nel Novecento, Mondadori, Milano 1986 [1961], pp. 413-417.

tale concezione, la massa, attraverso azioni ispirate da una volontà di potenza, assume la for- ma di una comunità spirituale definita dai valori e dai fini espressi dall’ideologia sacralizzata, nello stesso modo in cui l’artista trasforma la materia grezza e informe in un’opera d’arte, pla- smandola secondo il suo genio. A questo proposito Mussolini, che ama paragonare l’arte alla politica, è molto eloquente quando confessa a Ludwig che:

Solo la fede smuove le montagne […] non la ragione. Questa è uno strumento, ma non può essere mai la forza motrice della massa. Oggi meno di prima. Oggi la gente ha meno tempo di pensare. La disposizione dell’uomo moderno a credere è incredibile. Quando sento la massa nelle mie mani, quando avverto la sua fede, o quando io mi mescolo con essa, che quasi mi schiaccia, allora mi sento un pezzo di questa massa. Eppure provo anche un po’ di avversione, come la sente il poeta verso la materia che intende trattare. E lo scultore non spezza forse talvol- ta per ira il marmo, perché questo sotto le sue mani non si plasma secondo la sua intuizione? In questo caso può addirittura accadere che la materia si ribelli contro il suo formatore […]. Tutto dipende dal saper dominare la massa come un artista.13


Per il duce dunque, la massa non è altro che una forza acefala, insensibile a stimoli di natu- ra razionale e portata, quasi in maniera automatica, a ricercare una fede che possa dar forma alle proprie aspirazioni e ai propri desideri e che possa spingerla all’azione, determinando dei punti di rifermento in una realtà esterna in continuo mutamento. Infatti, solo evocando miti capaci di fare appello ai sentimenti e di toccare corde profonde dell’animo umano, la massa può essere mobilitata e guidata da un capo carismatico che incarni la volontà dell’intera na- zione. Per questo motivo il fascismo riconosce al pensiero mitico un primato nella politica di massa, elaborando una propria concezione del mito politico sulla scorta delle riflessioni di Georges Sorel, il teorico del sindacalismo rivoluzionario. Carlo Curcio, storico delle idee e 14

Emil Ludwig, Colloqui con Mussolini, cit., p. 132.

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«Gli uomini che partecipano ai grandi movimenti sociali si rappresentano le loro azioni future sotto forma di

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immagini di battaglie che assicurano il trionfo della loro causa. [Propongo] di chiamare miti queste costruzioni. […]L’esperienza ci prova che le costruzioni di un avvenire indeterminato nel tempo possono possedere una grande efficacia presentando ben pochi inconvenienti, allorché tali costruzioni siano di una certa natura; ciò che si verifica quando si tratti di miti nei quali si ritrovano le più forti tendenze di un popolo, di un partito o di una classe, tendenze che si presentano allo spirito con l’insistenza degli istinti in ogni circostanza della vita, e che danno un aspetto di piena realtà a spedizione di azione prossima sulle quali si fonda la riforma della volontà. […]Bisogna giudicare i miti come mezzi per agire sul presente; ogni discussione sul modo di applicarli mate- rialmente sul corso della storia è priva di senso. È l’insieme del mito quello solo che conta; le sue parti non of- frono interesse che per il rilievo che danno all’idea che è contenuta nella sua costruzione». Cfr. Georges Sorel,

Riflessioni sulla violenza in Georges Sorel, Roberto Vivarelli (a cura di), Scritti politici, Utet, Torino 1971, p.

intellettuale fascista militante, alla voce Mito dell’autorevole Dizionario di politica del PNF scrive, ad esempio, che:

Il mito è […] una rappresentazione, talvolta plastica talvolta inconscia, del mondo, o per lo meno di alcuni suoi aspetti. Di contenuto vero o falso, utile o dannoso, esso, quando assurge veramente a convinzione di larghi strati sociali, a fede di folle, esprime un’interpretazione della vita e della storia, incita gli uomini, che credono in esso, ad azioni talvolta eroiche e sovrumane. In nome di un assoluto che non consente dubbi, con un linguaggio facile, ma imperativo, il mito diventa una fede, una religione, una forza morale che, finché dura, è capace delle più audaci imprese. […] il mito per essere deve sempre riferirsi a taluni bisogni, a talune esigenze degli uomini. Esso è intollerante, minaccioso, sicuro di sé; è tuttavia plastico e talvolta modificabile nel tempo. Ha una sua durata che è spesso relativa all’intrinseca portata del suo valore storico e cioè alla sua intransigenza che non è aliena da adattamenti. 15

Il mito politico viene quindi concepito dall’intellighenzia del regime come una particolare declinazione di una forma strutturale del pensiero umano che agisce a livello collettivo, for- nendo alle masse un ideale da realizzare, a prescindere dalla sua determinatezza, dalla sua coerenza interna e dalla sua veridicità. Sono molti i miti di cui il fascismo si serve per orienta- re le masse, ma tra essi il più importante è sicuramente quello della nazione, che è presente fin dalle origini del movimento come simbolo di fede a cui è attribuito un carattere dogmatico. Come Mussolini rivendica durante un discorso tenuto a Napoli pochi giorni dopo la marcia su Roma:

Noi abbiamo creato il nostro mito… Il mito è una fede, è una passione. Non è necessario che sia una realtà. È una realtà nel fatto che è un pungolo, che una speranza, che è fede, che è corag- gio. Il nostro mito è la nazione, il nostro mito è la grandezza della nazione! E a questo mito, a questa grandezza, che noi vogliamo tradurre in un realtà completa, subordiniamo tutto il resto. 16

Per i fascisti però, la nazione non è un’entità storica e morale che rimane perenne nel fluire del tempo e nell’avvicendarsi dei regimi, ma è appunto un mito adattabile plasticamente alle contingenze, a cui mirare per plasmare la realtà. In altre parole, secondo questa concezione, la nazione non è altro che «uno strumento della volontà di potenza del fascismo», un’idea-forza

Carlo Curcio, Mito, in PNF(a cura di), Dizionario di politica, Vol. III, Roma 1940, p. 186.

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Discorso pronunciato a Napoli il 24 Ottobre 1922. Cfr. Benito Mussolini, Edoardo e Duilio Susmel (a cura di),

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da utilizzare per rigenerare la società attraverso l’azione creatrice dello Stato totalitario. La 17 conversione delle masse al mito della nazione diviene quindi una condizione indispensabile e necessaria per realizzare l’ambizioso progetto del regime, cioè spingere ogni singolo italiano ad «immaginarsi» parte della nuova civiltà fascista. 18

Strettamente collegato al progetto di ridefinizione dell’italianità è il mito dell’impero, che non dobbiamo considerare una sorta di improvvisazione propagandistica collegata alla guerra d’Etiopia, bensì un tema che emerge in maniera sempre più netta nel corso della parabola del regime, attraverso la valorizzazione della funzione rivoluzionaria del fascismo come movi- mento universale. La nuova civiltà che il fascismo intende costruire aspira, infatti, a travalica- re i confini della nazione italiana per attirare nella sua orbita altre nazioni, altri popoli, altre razze elevandosi al rango di impero universale della Terza Roma, sulla scorta delle esperienze della Roma antica e della Roma dei papi, che per prime avevano rappresentato dei centri di irraggiamento di valori universalistici. La romanità a cui fa riferimento il fascismo però, non 19 è tanto una mera celebrazione nostalgica di questo passato ormai sclerotizzato, ma piuttosto è, a sua volta, un mito da evocare per stimolare un’azione volta alla creazione del futuro. Agli occhi dei fascisti, infatti, la romanità non è che una fonte di ispirazione di virtù civiche, di senso dello Stato e di valori organizzativi cui attingere per elaborare il modello della nuova civiltà. 20

I processi di mitopoiesi, l’uso mitico della storia e la socializzazione dei miti politici, non sono però invenzioni del fascismo, in quanto rientrano in quel complesso fenomeno che George Mosse ha chiamato la «nuova politica». Con questo termine si indica quella trasfor- mazione radicale del discorso politico, avvenuta tra la fine del XVIII e l’inizio del XX secolo, che nasce dal riconoscimento della nazione come soggetto collettivo depositario della sovrani- tà e dall’esigenza di dover rivolgersi a tutti gli individui che si suppone ne facciano parte, a

Cfr. Emilio Gentile, La grande Italia, cit., pp. 154-155.

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L’uso del predicato verbale «immaginare» non è una scelta lessicale casuale, in quanto, come accennato nel

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