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Un impero di celluloide: le pellicole cinematografiche dell'Istituto Luce sulla conquista dell'Etiopia (1935-1937).

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

Corso di laurea in Storia e Civiltà

Tesi di Laurea Magistrale in Storia Contemporanea

Un impero di celluloide: le pellicole cinematografiche

dell’Istituto Luce sulla conquista dell’Etiopia

(1935-1937)

Relatore:

Candidato:

Prof. Alberto Mario Banti

Stefano Campagna

Controrelatore:

Prof. Arturo Marzano

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Presa di Macallè, 11 novembre 1935 Si ripete l’incidente di Adua. Le salmerie di un battaglione, perduto il collegamento, entrano a Macallè. I cucinieri, con quella serenità che deriva agli uomini dal perenne contatto con i cibi, per nulla spaventati, preparano il rancio. Le truppe arrivano, irrompono alla baionetta e

trova-no il rancio sotto pressione. Gli operatori del “Luce” che seguivatrova-no arditamente l’attacco si trovano il film guastato da una panoramica gastronomica. Il grave vien dopo: l’attacco vien ripetuto e gli operatori possono, allontanati i volgari cucinieri, riprendere la scena con più approssimazione bellica. Ennio Flaiano - Aethiopia: appunti per una canzonetta (1935-36).


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Indice


Introduzione……… p. 5

Alcune coordinate storiografiche sul colonialismo italiano, p. 9 —

Impianto metodologico e organizzazione dell’opera, p. 13. I. Alla conquista dell’Impero.

Venti milioni: una volontà sola, p. 21 — La più grande guerra coloniale, p. 25 — Tra opinioni pubbliche e diplomazie: uno sguardo transnazionale sul conflit-to italo-etiopico, p. 30 — L’«organizzazione della nazione per la guerra», p. 35 — La mobilitazione delle coscienze: il regime e la propaganda di massa, p. 42.

II. «Sul piano dell’impero».

«Tutto dipende dal saper dominare la massa come un artista», p. 54 — Gli «uomini nuovi» della modernità fascista, p. 61 — L’imperialismo e la coscienza coloniale, p. 69 — La costruzione dell’Africa fascista: tra immaginario coloniale e identità nazionale, p. 77.

III. Educare attraverso le immagini.

L’Unione Cinematografica Educativa, p. 86 — La conquista dell’im-pero vista dal Luce: il Reparto Fotocinematografico Africa Orientale, p. 103 — Il cinema nell’Italia fascista: geografie e forme del consumo di un intrattenimento di massa, p. 119 — Per un’anatomia dei film Luce, p. 127.

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IV. Il racconto del dramma africano.

Da Vittorio Veneto ad Addis Abeba, p. 139 — Una comunità sotto as-sedio, p. 151 — Uniti nel sacrificio, p. 161.

V. L’Africa di celluloide.

La conquista simbolica dello spazio coloniale, p. 168 — Mitografie africane: la civiltà contro la natura, p. 175 — Gli sguardi sui corpi, p. 185 — La costruzione della gerarchia imperiale, p. 191.


 Conclusioni….………p. 202 Fonti Archivistiche………. p. 207 Filmografia………. p. 209 
 Bibliografia….……… p. 220 Sitografia………. p. 238 
 Ringraziamenti……… p. 239

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Elenco delle abbreviazioni

ACL Archivio Cinematografico dell’Istituto Luce

ACS Archivio Centrale dello Stato

ANI Associazione Nazionalista Italiana

ASF Archivio di Stato di Forlì-Cesena

ASMAI Archivio Storico del Ministero dell’Africa Italiana

CC.NN. Camicie Nere

EIAR Ente Italiano Audizioni Radiofoniche

ENIC Ente Nazionale Industrie Cinematografiche

GPDCB Giacomo Paulucci di Calboli Barone

ICE Istituto Internazionale di Cinematografia Educativa

LUCE L’Unione Cinematografica Educativa

MVSN Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale

MINCULPOP Ministero della Cultura Popolare

ONB Opera Nazionale Balilla

OND Opera nazionale Dopolavoro

PNF Partito Nazionale Fascista

R. D. Regio Decreto

R. D.-L Regio Decreto-Legge

RAO Reparto Fotocinematografico Africa Orientale

SdN Società delle Nazioni

SIAE Società Italiana degli Autori e degli Editori

SIC Sindacato Istruzione Cinematografica

SPD-CO Segreteria Particolare del Duce-Carteggio Ordinario

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Introduzione

Il cinegiornale è una produzione culturale di massa che fino a tempi recentissimi è rimasta, almeno in Italia, inspiegabilmente ai margini della riflessione storiografica contemporanea. Antesignano del moderno notiziario televisivo, il cinegiornale è stato spesso bollato, specie nel caso dei regimi totalitari, come un mero strumento di persuasione nelle mani dei governi, non meritevole di essere sottoposto ad alcun tipo di analisi che esulasse dagli studi incentrati sull’ambito della propaganda e delle sue strutture istituzionali e culturali. Inutile dire che que-sto approccio analitico è quantomeno riduttivo. Penso infatti che il cinegiornale, così come il resto della produzione cinematografica d’attualità, sia un’ottima fonte per quella che un tempo si sarebbe definita storia della mentalità. Come qualsiasi altro testo che circola nel sistema 1 mediatico, infatti, anche il cinegiornale per risultare efficace deve tener conto del punto di vi-sta del ricevente, e quindi non può ignorare le conoscenze, i sistemi valoriali e i gusti del pub-blico potenziale a cui è destinato. 2

Nelle pagine che seguono esplorerò la produzione cinegiornalistica e documentaristica del-l’Istituto Luce, realizzata nell’Italia fascista durante il periodo che va dall’avvio della mobili-tazione per la guerra d’Etiopia, all’inizio del 1935, alla — apparente — stabilizzazione del-l’impero alla fine del 1937. Le motivazioni che mi hanno spinto a individuare questo argo-mento di ricerca sono molteplici, ma essenzialmente ruotano attorno alla convinzione che tale scelta possa aprire preziose prospettive d’analisi utili per comprendere il fenomeno fascista da molteplici punti di vista.

Innanzitutto, penso che uno studio sulla narrazione audiovisiva della guerra d’Etiopia pos-sa restituire l’impatto che questo importantissimo evento ebbe nella società italiana dell’epo-ca, andando oltre il meccanismo censorio della memoria collettiva, che ancora oggi, impedi-sce all’opinione pubblica della Penisola di comprenderne appieno le dimensioni e il

Devo questa riflessione a Giovanni De Luna Cfr. Giovanni De Luna, L’occhio e l’orecchio dello storico: le

1

fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia, La Nuova Italia, Firenze 1993.

D’ora in avanti utilizzerò il termine «testo» per indicare tanto i documenti scritti quanto qualsiasi altra forma di

2

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to storico. Terza guerra nella storia nazionale per numero di uomini coinvolti, la guerra d’Etiopia fu difatti, al contempo, un conflitto concepito, voluto e condotto in totale autonomia dall’Italia fascista, l’ultima guerra coloniale di tipo tradizionale combattuta da una potenza europea e, oltretutto, la prima prova di forza compiuta a livello internazionale da un regime totalitario. Per il fascismo fu quindi assai importante costruirne una rappresentazione che fos-se in linea con le proprie coordinate ideologiche e che rispecchiasfos-se l’immagine di una nazio-ne potente, moderna e vittoriosa, dimostrando così, inazio-nequivocabilmente, il pieno successo del-la rivoluzione delle camicie nere sia agli occhi degli osservatori internazionali che a quelli degli stessi italiani. Questi ultimi, infatti, dovevano essere convinti di essersi trasformati, gra-zie all’adesione alla fede fascista e all’introiezione della tavola valoriale e del modello esi-stenziale proposti dal regime, in «uomini nuovi» pronti a ripercorrere le orme degli antichi romani sulla via per l’edificazione di una nuova civiltà universale, di cui l’assoggettamento dell’Etiopia non sarebbe stato che il punto di partenza.

Visti da questa prospettiva i film Luce acquistano, dunque, una grande importanza, poiché oltre ad essere delle potenti armi di propaganda volte a costruire un consenso attorno all’azio-ne politica del regime e all’impresa bellica, essi divengono degli efficaci strumenti pedagogici capaci di ridefinire le identità collettive, attraverso la diffusione di modelli etico-valoriali, si-stemi di credenze e canoni estetici. Mussolini e gli intellettuali fascisti, infatti, attribuivano alle produzioni culturali di massa «il potere di trasformare, oltre a quello di rappresentare», ritenendole mezzi essenziali per compiere la rivoluzione antropologica che avrebbe dovuto produrre «l’italiano nuovo». 3

Articolato su un linguaggio facilmente «leggibile» — che non richiede cioè competenze elevate di base per essere fruito — e diffuso capillarmente nel territorio nazionale, il mezzo cinematografico si prestava particolarmente ad assolvere a questa funzione pedagogica, poi-ché era in grado di fornire a un’amplissima platea un’unica visione «ufficiale» della realtà e di tradurre in immagini i miti politici e i dettami ideologici fascisti. Non dobbiamo infatti dimen-ticare che dal 1927 i cinegiornali venivano proiettati obbligatoriamente in tutti i cinema italia-ni, nelle sedi delle organizzazioni del regime — dall’ONB (Opera Nazionale Balilla) ai Fasci femminili, passando per l’OND (Opera Nazionale Dopolavoro) — e perfino nelle proiezioni itineranti organizzate nei piccoli centri abitati, divenendo così non solo uno dei media col ba-cino di utenza potenzialmente più grande presente all’epoca sul territorio italiano, ma uno

Cfr. Ruth Ben-Ghiat, La cultura fascista, , Il Mulino, Bologna 2000, p. 16.

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gli unici che poteva contare su un pubblico unificato a base nazionale. L’analisi delle produ-zioni filmiche dell’Istituto Luce ci permette quindi, da un lato, di esplorare alcuni dei circuiti comunicativi su cui, nella sua fase aurorale, si articola la cultura di massa nell’Italia di metà anni Trenta, valutandone le caratteristiche, le geografie e le forme di consumo, e dall’altro, di comprendere il ruolo della cinematografia educativa nel quadro più ampio della politica cultu-rale del regime fascista.

Da un altro punto di vista le pellicole realizzate durante la guerra possono essere considera-te una cartina tornasole per valutare la maturità del sisconsidera-tema dei media, delle sue forme e dei suoi linguaggi in rapporto alla comunicazione politica e alle logiche della propaganda bellica. Non dobbiamo infatti dimenticare che l’invasione d’Etiopia, nonostante sia stata successiva-mente oscurata dalla guerra di Spagna e soprattutto dalla seconda guerra mondiale, rappresen-ta forse il primo grande evento bellico compiurappresen-tamente «mediatico» dell’età contemporanea, in virtù dello sviluppo tecnologico che tra anni Venti e Trenta aveva investito l’ambito della ci-nematografia, della radio e della fotografia aumentando la mobilità delle apparecchiature e migliorando notevolmente le tecniche di riproducibilità meccanica delle opere. A questo pro-posito l’Istituto Luce creò uno speciale Reparto Fotocinematografico Africa Orientale dotato di larghissimi mezzi, che fu incaricato da Mussolini in persona di seguire da vicino le opera-zioni belliche e di realizzare i materiali documentari necessari a costruire un’accurata narra-zione audiovisiva del conflitto che non si limitasse a descrivere gli eventi, ma che testimo-niasse la partecipazione all’impresa della nazione come corpo collettivo.

Tornando sul piano della storia della cultura, lo studio dei cinegiornali prodotti in questo periodo ci permette, inoltre, di ricostruire la morfologia dell’immaginario coloniale di epoca fascista in un momento cruciale per la sua definizione. La scelta degli estremi cronologici ri-sponde proprio a questa esigenza. Penso, infatti, che laddove si voglia indagare complessi fe-nomeni culturali come questo, si debba innanzitutto mettere in evidenza i momenti «straornari», le fasi di transizione in cui è più probabile trovare delle rotture, delle discontinuità di-scorsive, oppure delle rappresentazioni tra di loro in contraddizione. Ho dunque ritenuto più 4 interessante concentrarmi su di un arco temporale in cui le «pellicole imperiali» dell’Istituto Luce mostrano ancora una certa variabilità tematica, piuttosto che sulla fase successiva in cui, al contrario, esse risultano standardizzate dentro moduli che si conserveranno fino alla caduta

Devo questo suggerimento metodologico alla lettura di Michel Foucault e di Thomas Kuhn. Cfr. Michel Fou

4

-cault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, BUR Rizzoli, Milano 2015 [1969]; Cfr. Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 2009 [1962].

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del fascismo, reiterando topoi narrativi già largamente presenti nei cinegiornali e nei docu-mentari prodotti nel periodo bellico.

Inoltre l’analisi delle rappresentazioni che circolano nei filmati permette di mettere in rela-zione, attraverso uno sguardo d’insieme volto ad individuare i meccanismi di opposizione e sistemi di differenze che agiscono al livello dell’immaginario, il processo di costruzione di-scorsiva dell’alterità coloniale a quello di ridefinizione dell’italianità. Come vedremo più avanti, infatti, l’edificazione di una forte identità collettiva — come ad esempio un’identità nazionale — passa, necessariamente, per l’individuazione di identità «altre» che fungano da immagini speculari ad essa.

Per concludere, alcune considerazioni generali sulla scelta delle fonti primarie e sui limiti di questo lavoro. Come verrà ampiamente chiarito, non è mia intenzione ripercorrere, passo dopo passo, la narrazione audiovisiva dell’epopea imperiale del fascismo, né tantomeno in-ventariare l’intera produzione cinegiornalistica e documentaristica dell’Istituto Luce realizzata nell’arco temporale preso in esame. Cercherò piuttosto di isolare dei reperti testuali significa-tivi che possano aiutarci a ricostruire e a comprendere le forme essenziali delle elaborazioni discorsive di epoca fascista. Sono perfettamente consapevole che dal punto di vista euristico questo lavoro possa apparire frammentario e «impressionistico», tuttavia ritengo che tale

mo-dus operandi sia il più indicato per un’analisi di questo tipo.

Per fornire un quadro completo ed esaustivo, uno studio di questo genere imporrebbe di esplorare anche la dimensione storica della ricezione di tali elaborazione discorsive, magari guardando alle pratiche di consumo culturale delle pellicole Luce e quindi agli «usi» dell’ar-chivio iconologico veicolato dal mezzo cinematografico. Pur ritenendo questa prospettiva di 5 ricerca assai stimolante e meritevole di un futuro approfondimento, ho comunque deciso di metterla da parte perché penso di non possedere ancora le competenze necessarie per avventu-rarmi in un campo così poco esplorato dalla storiografia.

Sulla teoria della ricezione Cfr. Robert C. Holub (a cura di), Teoria della ricezione, Einaudi, Torino 1989 in

5

particolare Cfr. Hans Robert Jauss, La teoria della ricezione e Cfr. Wolfgang Iser, Il processo della lettura. Sul consumo culturale e i suoi «usi» Cfr. Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001 [1990], in particolare pp. 63-79.

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Alcune coordinate storiografiche sul colonialismo italiano

Qualsiasi studio intenda occuparsi della stagione colonialismo italiano non può prescindere da alcune considerazione di massima circa l’influenza negativa esercitata dall’atipico e con-traddittorio processo di decolonizzazione attraversato dall’Italia repubblicana, sulla riflessione storiografica. L’Italia infatti, com’è noto, non perse i propri possedimenti coloniali in seguito a uno scontro — più o meno violento — con i popoli che richiedevano l’indipendenza, così come avvenuto nel caso delle altre potenze imperiali, ma a causa di una decisione unilaterale della comunità internazionale che, de facto, decretò la fine della dominazione italiana in terra d’Africa già con la firma del trattato di pace di Parigi del 1947. Per tale ragione, nella società 6 italiana non si verificarono tutti quei fenomeni tipici dei processi di decolonizzazione, che in altri contesti nazionali, permisero agli ex sudditi e alle classi dirigenti che avevano guadagna-to l’indipendenza di conquistare un rispetguadagna-to, almeno apparente, agli occhi delle opinioni pub-bliche degli stati imperialisti occidentali. Non si verificò neanche quel ripensamento profondo di tutta l’esperienza coloniale che nelle società di mezza Europa si sarebbe tradotto, di lì a poco, nell’avvio di un lento, e talvolta complesso, processo di decolonizzazione dei campi del sapere, tra cui anche quello della storiografia. 7

Se la rapida scomparsa dell’Africa dall’orizzonte quotidiano della gente comune e le man-cate condanne dei criminali di guerra coinvolti nei massacri perpetrati dall’esercito e dalla mi-lizia fascista in Libia ed Etiopia innescarono un meccanismo di rimozione a livello di memo-ria pubblica, troncando sul nascere qualsiasi tipo di riflessione e di rielaborazione collettiva dell’esperienza coloniale, in ambito accademico, gli studi storici sulle ex colonie italiane an-darono incontro a una sorta di ibernazione, in virtù di quel fenomeno che Claudio Pavone ha

La decisione definitiva sul destino delle ex colonie italiane venne poi presa nell’autunno del 1949 dall’Assem

6

-blea delle Nazioni Unite con una risoluzione ad hoc (Questione della liquidazione delle ex colonie italiane -

Ri-soluzione 289 (IV), UNGA, 21 novembre 1949): la Libia fu resa indipendente come monarchia costituzionale;

l’Eritrea venne federata all’Etiopia, mentre in Somalia — la più povera delle ex colonie — fu istituito per dieci un regime di Amministrazione fiduciaria (International Trusteeship System) gestito dall’Italia, che avrebbe dovu-to traghettare il paese verso l’indipendenza. L’Etiopia, invece, aveva riconquistadovu-to già dal 1941 la propria sovra-nità in seguito alla resa delle ultime truppe italiane poste a presidio dell’Africa Orientale Italiana. Cfr. Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002, p. 433-440. Per una panoramica sull’atipico processo di decolonizzazione italiano Cfr. inoltre Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa

Orientale. Vol IV: La nostalgia delle colonie, Laterza, Roma-Bari 1984; Cfr. Giampaolo Calchi Novati, Decolo-nizzazione e Terzo mondo, Laterza, Roma-Bari, 1979; Cfr. Gian Luigi Rossi, L’Africa italiana verso l’indipen-denza (1941-49), Giuffré, Milano 1980.

Sul rapporto tra colonialismo e conoscenza, e sulle pratiche di decolonizzazione del sapere Cfr. Ania Loomba,

7

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definito «continuità dello Stato». Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, infatti, gli unici studiosi 8 che scrissero del colonialismo italiano provenivano da ambienti riconducibili al Ministero del-l’Africa Italiana — disciolto definitivamente solo nel 1953 — che, come il resto dell’ammini-strazione statale e parastatale, non erano stati epurati alla fine della guerra dalle personalità più compromesse con il regime. Se confrontati con le produzioni storiografiche di epoca fa9 -scista, questi primi lavori sul colonialismo presentano nette linee di continuità tematiche e in-terpretative. Se si eccettua lo studio di Roberto Battaglia sulla prima guerra d’Africa, che re-cupera e sviluppa l’interpretazione gramsciana dell’imperialismo italiano come motivato esclusivamente da ragioni di prestigio internazionale, la gran parte della produzione storiogra-fica del periodo, si articola, infatti, attorno ad alcuni topoi, evidentemente autoassolutori, che è facile riscontrare anche nella propaganda che accompagnò la guerra d’Etiopia: la «missione civilizzatrice» come caratteristica precipua del colonialismo italiano; la necessità di vendicare Adua come causa principale dell’invasione; il surplus demografico e «la fame di terra» come motori delle avventure nell’Oltremare, e così via. Così facendo la disciplina storiografica 10 finiva per legittimare «scientificamente» miti e stereotipi che ancora oggi continuano a trova-re spazio in alcuni circuiti comunicativi della società italiana.

Solo a partire dagli anni Settanta si assiste, anche in Italia, all’avvio di una decolonizzazio-ne, seppur tardiva, della storiografia grazie ad alcuni lavori che riuscirono a rompere con le tradizionali linee interpretative del fenomeno coloniale. Angelo Del Boca e Giorgio Rochat, 11 i due protagonisti di questa stagione di rinnovamento, riuscirono infatti, attraverso la pubbli-cazione di lavori che analizzavano il fenomeno dell'espansione coloniale dal punto di visto politico e militare, da una parte, ad avviare una decostruzione critica del canone storiografico che si era consolidato nel periodo precedente, e, dall’altra, a stimolare una discussione

Cfr. Claudio Pavone, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in Claudio Pavone, Alle origini della Re

8

-pubblica: Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 70 e

sgg.

Nicola Labanca evidenzia come la mancata epurazione degli ex funzionari coloniali sancì, di fatto, l’inaccessi

9

-bilità agli studiosi non legati all’ambiente del Ministero dell'Africa italiana del ricco materiale archivistico da esso prodotto. Cfr. Nicola Labanca, In marcia verso Adua, Einaudi, Torino 1993, pp. 17-19.

Cfr. Roberto Battaglia, La prima guerra d’Africa, Einaudi, Torino 1958. Per quanto concerne gli studi appar

10

-tenenti al canone storiografico del periodo Cfr. ad esempio Enrico De Leone, Le prime ricerche di una colonia e

la esplorazione geografica, politica ed economica, Ministero Affari Politici, Istituto Poligrafico dello Stato,

Roma 1955; Raffaele Ciasca, La politica coloniale dell’Italia, in Ettore Rota (a cura di), Questioni di storia del

Risorgimento e dell’unità d’Italia, Marzorati, Milano 1951, pp. 645-760.

I due testi di rottura che caratterizzano questa stagione sono il breve saggio Il colonialismo italiano di Giorgio

11

Rochat e il primo volume della quadrilogia di Angelo Del Boca sul colonialismo italiano in Africa Orientale. Cfr. Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher, Torino 1973; Cfr. Angelo Del Boca Gli italiani in Africa

Orientale. Vol. I: Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 1976. Per una descrizione dettagliata

del-le prime, travagliate, fasi della decolonizzazione della disciplina storiografica Cfr. Nicola Labanca, Oltremare, cit., pp. 443-446.

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ca dell’esperienza del colonialismo italiano. Tale discussione, tuttavia, si sviluppò pienamente solo nei decenni successivi, anche grazie — nel caso di Del Boca — ad una maggiore atten-zione rivolta al versante africano della vicenda coloniale che permise, di guardare al fenome-no da un’altra prospettiva, seguendo a ritroso il percorso di alcuni storici africani provenienti dalle ex colonie, che avevano iniziato a ricostruire la storia dei propri paesi, proprio a partire dalle fonti italiane. A cavallo tra anni Ottanta e anni Novanta, infatti, le tesi di Del Boca rivol-te a sfatare il mito degli «italiani brava genrivol-te» e denunciare i crimini indicibili compiuti dalle truppe nazionali in Libia e in Etiopia, filtrarono nel dibattito pubblico, innescando aspre po-lemiche che coinvolsero addetti ai lavori, giornalisti e politici, e che finirono per approdare perfino in Parlamento. 12

Il solco tracciato da Del Boca e Rochat fu approfondito, a partire dagli anni Ottanta, da una nuova generazione di studiosi, pronta a dialogare con la storiografia internazionale sull’impe-rialismo e sul colonialismo e ad applicare al caso italiano metodi d’indagine sperimentati in altri contesti. I lavori di storici come Luigi Goglia, Francesco Surdich e Irma Taddia, caratte-rizzati da nuovi approcci metodologici e da un notevole ampliamento della tipologia di fonti utilizzate, si discostavano dai tradizionali campi della storia politica diplomatica e militare, per rivolgersi alla storia orale, economica e sociale, inaugurando collaborazioni interdiscipli-nari con la geografia, l’antropologia, il diritto e le scienze sociali, necessarie per analizzare il ruolo dei coloni all’interno delle società coloniali e i rapporti tra l’espansione coloniale e la società nazionale, considerati nella loro complessità. 13

Una spinta decisiva al rinnovamento storiografico è stata data da quegli studiosi, come Ni-cola Labanca, che per primi hanno esplorato tematiche che erano rimaste ai margini delle ri-flessioni e del dibattito storiografico. Formatosi come storico militare, Labanca, dalla fine de-gli anni Ottanta, ha allargato i suoi campi di interesse concentrandosi, tra le altre cose, sulle istituzioni amministrative coloniali, sull’analisi delle memorie dei combattenti, degli operai e degli altri protagonisti minori dell’invasione dell’Abissinia, sul rapporto tra «mentalità» e

Sui rapporti problematici che, ancora oggi, intercorrono tra il colonialismo italiano e la memoria pubblica Cfr.

12

ad esempio Angelo Del Boca, Italiani brava gente? Neri Pozza, Vicenza 2006; Cfr. Nicola Labanca, History and

memory of Italian colonialism today in Jaqueline Andall, Derek Duncan (a cura di), Italian colonialism. Legacy and memory, Peter Lang, Oxford 2005, pp. 29-46; Cfr. Antonio M. Morone, La fine del colonialismo italiano tra storia e memoria in «Storicamente», n. 7, 2016; Cfr. Paolo Jedlowski, Memoria pubblica e colonialismo italia-no, in «Storicamente», n. 7, 2011.

Cfr. ad esempio Luigi Goglia, Storia fotografica dell’Impero fascista 1935-41, Laterza, Roma-Bari 1985; Id. e

13

Fabio Grassi (a cura di), Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Laterza, Roma-Bari 1981; Cfr. Francesco Surdich, L’esplorazione italiana dell’Africa, Il Saggiatore, Milano 1982; Cfr. Irma Taddia, Autobiografie

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propaganda, sui crimini di guerra e sulle pratiche di detenzione e sterminio delle popolazioni «indigene», sulle collezioni museali ed etnografiche, e sulla produzione fotografica sia uffi-ciale che privata. 14

Con molta fatica, negli anni Novanta, la storiografia sul colonialismo italiano si è aperta alle suggestioni provenienti dalla storia di genere e alle indicazioni interpretative della cosid-detta postcolonial theory. La ricezione delle opere di Edward Said, Homi Bhabha, Gayatri Chakravorty Spivak e Frantz Fanon, ha spinto alcuni studiosi ad esplorare il rapporto tra co-loni italiani e popolazioni locali, esaminando anche la natura delle relazioni sessuali in colo-nia. Barbara Sòrgoni, ad esempio, mettendo in relazione il sapere antropologico, il discorso 15 giuridico e le politiche sessuali ha studiato il rapporto asimmetrico tra i coloni bianchi e le donne locali e contestualmente il rapporto tra razza e genere che si sviluppò nella colonia Eri-trea a cavallo tra la fine del XIX secolo e la caduta dell’impero fascista nell’Africa orientale. 16 Più recentemente, sulla scia delle esperienze all’estero dei ricercatori italiani e dell’interes-se mostrato dai dipartimenti di storia e di italianistica delle università anglosassoni per la sta-gione del colonialismo italiano, la storiografia si è ulteriormente rinnovata nella direzione di una maggiore apertura interdisciplinare. L’influenza dei cultural studies e della critical theo17 -ry ha permesso agli storici di occuparsi degli intricati rapporti che intercorrono tra la cultura

nazionale e l’esperienza coloniale e di esplorare così nuovi campi di ricerca, come lo studio dei saperi coloniali (etnologia, psichiatria coloniale, cartografia), dell’arte e dell’urbanistica, delle scritture private e delle produzioni culturali di consumo. 18

Venendo a tematiche più direttamente collegate alla mia ricerca, la cinematografia colonia-le di epoca fascista è stata recentemente studiata, tra gli altri, da Ruth Ben-Ghiat che nei suoi innovativi lavori ha analizzato le relazioni tra le «modernità fasciste», la cultura di massa ita-liana degli anni Trenta e l’espansione coloniale in Etiopia, per mezzo di un approccio

Su Nicola Labanca Cfr. la sezione bibliografica posta in fondo all’opera.

14

Sui motivi della tardiva ricezione di Said in Italia Cfr. Nicola Labanca, Italiche colonie senza Said, pp.

15

711-716; in Nicola Labanca, Giorgio Vercellin, Cristiana Facchini, Giuliana Benvenuti (a cura di),

«Orientali-smo» e oltre, di Edward Said, in «Contemporanea», n. 4, 2005, pp. 711- 742.

Cfr. Barbara Sòrgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella

16

colonia Eritrea (1890-1941), Liguori Editore, Napoli 1998.

Per una panoramica sugli sviluppi più recenti della storiografia sul colonialismo italiano in Africa Orientale

17

rimando a Cfr. Roberta Pergher, Impero immaginario, impero vissuto. Recenti sviluppi nella storiografia del

co-lonialismo italiano, in «Ricerche di storia politica», n. 1, marzo 2007, pp. 53-66.

Tra le opere più recenti vale la pena citare almeno tre volumi collettanei: Cfr. Ruth Ben-Ghiat, Mia Fuller (a

18

cura di), Italian Colonialism, New York, Palgrave Macmillan, 2005; Cfr. Patrizia Palumbo (a cura di), A Place in

the Sun: Africa in Italian Colonial Culture from Post-Unification to the Present, Berkeley, University of

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logico multidisciplinare caratterizzato dall’utilizzo di una vastissima tipologia di fonti. At19 -traverso l’analisi dei film di finzione coloniali, denominati dalla storica statunitense «film im-periali», Ben-Ghiat ha esplorato il campo dell’immaginario evidenziando il ruolo del cinema come «tecnologia di conquista», le ansie dei colonizzatori che emergono dall’analisi delle pel-licole, l’uso e lo sfruttamento dei corpi nel cinema imperiale, nonché i nessi intertestuali tra i film fiction e quelli non fiction dell’Istituto Luce. 20

Come argomento di ricerca a sé stante, lo studio dei cinegiornali e dei documentari sulla conquista dell’impero è rimasto ai margini della riflessione storiografica, essendo stato affron-tato soltanto da Gianmarco Mancosu nella sua tesi di dottorato in cui viene presa in conside-razione, seguendo un criterio cronologico, l’intera produzione cinegiornalistica del Reparto Fotocinematografico Africa Orientale realizzata tra il 1935 e il 1942. 21

Impianto metodologico e organizzazione del testo

Per evitare lunghe digressioni che potrebbero distogliere l’attenzione del lettore dalle parti più significative della ricerca, ho ritenuto opportuno chiarire in questa sede le scelte metodo-logiche che saranno utilizzate per la contestualizzazione e la disamina delle fonti — che per la loro natura, richiedono un approccio interdisciplinare — e per ricostruire le strategie attraver-so le quali il regime fascista tentò di ridefinire l’identità nazionale degli italiani attraverattraver-so la produzione di particolari narrazioni veicolate dalle pellicole dell’Istituto Luce.

Il punto di partenza del mio percorso analitico va considerato il concetto di immaginario. Così come l’intero campo semantico a cui è ascrivibile, l’immaginario è un concetto per certi versi sfuggente, difficilmente inquadrabile entro definizioni sistematiche, e pertanto raramente definito da storici e scienziati sociali in maniera puntuale e rigorosa. Penso però che i processi di costruzione delle identità collettive non possano che svolgersi a livello dell’immaginario, così come suggerito, tra gli altri, da Benedict Anderson nell’imprescindibile opera Comunità

Cfr. Ruth Ben-Ghiat, The Italian Colonial Cinema: Agendas and Audiences, in «Modern Italy», agosto 2003,

19

pp. 49-63; Id., La cultura fascista, cit.; Cfr. inoltre Paul Garofalo, John Reich, Re-viewing Fascism. Italian

cine-ma 1922-1934, Indiana, Bloomington 2002.

Cfr. Ruth Ben-Ghiat, Italian fascism’s Empire cinema, Indiana University press, Bloomington e Indianapolis

20

2015; Id.; Envisioning modernity: desire and discpline in the italian fascist film, in «Critical Inquiry» Vol. 23, No. 1 (Autumn, 1996), pp. 109-144.

Cfr. Gianmarco Mancosu, La “Luce” per l’Impero. I cinegiornali sull’Africa Orientale Italiana (1935-42),

21

Tesi di dottorato, Università di Cagliari, A.A. 2013-2014. Come vedremo più avanti sono invece numerosi gli studi degli storici del cinema sull’argomento.

(15)

immaginate e da Bronislaw Baczko nei suoi lavori sull’utopia e l’immaginazione sociale. 22 Secondo l’originalissimo approccio di Anderson, che mescola le riflessioni di Walter Benja-min, Victor Turner ed Eric Auerbach, un gruppo umano arriva a pensarsi come una nazione, cioè come «una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana», attraverso la progressiva costruzione di un immaginario nazionale, artico-lato attorno a genealogie, epiche e memorie collettive riferite a una presunta storia comune, e a confini ben definiti, sia sul piano simbolico che sul piano materiale, volti a differenziare i membri della comunità da coloro che non ne fanno parte. Le premesse culturali che stanno 23 alla base di questo processo sono l’esistenza di una comunità linguistica, anche di piccole di-mensioni, e di un complesso mediatico che permetta ai membri di questa comunità di struttu-rarsi in sistemi di opinione pubblica, divenendo consapevoli del loro comune sentire. L’im24 -maginario nazionale, che originariamente è elaborato da una minoranza si estende poi al resto della «comunità immaginata» non solo grazie agli strumenti pedagogici «coercitivi» dello Stato moderno, come la coscrizione obbligatoria e il sistema scolastico, ma anche grazie a de-terminate produzioni culturali (poesie, canzoni, rituali, immagini, spettacoli teatrali, film) che veicolano i valori di tale immaginario e le costellazioni simboliche su cui si regge.

Su una linea tutto sommato simile si collocano gli studi di Baczko che, riallacciandosi ai classici studi socio-antropologici sull’immaginazione sociale (Max Weber, Bronislaw Mali-nowski, Marcel Mauss), afferma che certi gruppi umani arrivano a pensarsi come nazioni gra-zie agli immaginari sociali, cioè a costruzioni culturali attraverso cui una collettività definisce la sua identità, elaborando una rappresentazione del «Sé», contrapposta all’«Altro». Il «di25

I riferimenti che ho preso in considerazione per questa ricerca sono Cfr. Benedict Anderson, Comunità imma

22

-ginate. Origine e fortuna dei nazionalismi, Laterza, Roma-Bari 2018 [1983]; Cfr. Bronislaw Baczko, Les imma-ginaires sociaux. Mémoires et espoirs collectifs, Payot, Parigi 1984, pp. 7-63; Id. Immaginazione sociale in

En-ciclopedia Einaudi, Vol. VII, Einaudi, Torino 1979, pp. 54-92. Per la nozione di immaginario elaborata da Ander-son Cfr. inoltre Mariuccia Salvati, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi in «Storicamente», dicembre 2016, n. 17; Cfr. Marco d’Eramo, Benedict Anderson: lo sguardo che ti spiazza, in «Storicamente», dicembre 2016, n. 16; Cfr. Peter Burke, La storia culturale, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 108-109.

Cfr. Benedict Anderson, Comunità immaginate, cit., p. 11; pp. 39-48; pp. 66-77.

23

Su questo tema Cfr. inoltre Jurgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari

24

2005 [1962].

Gli immaginari sociali di cui parla Bazcko agiscono su più livelli e riguardano ogni tipo di esperienza sociale,

25

tant’è che i case-studies indicati nei suoi scritti vanno dalle rivolte contadine del XVII secolo al terrore stalinia-no. A ogni modo la funzione degli immaginari sociali rimane la medesima, a prescindere dal contesto di riferi-mento: «au travers [les] imaginaires sociaux, une collectivité désigne son identité en élaborant une représentation de soi, marque la distribution des rôles et positions sociales; exprime et impose certains croyances communes en plantant des modèles formateurs […]. Désigner son identité collective, c’est, du coup, marquer son «territoire» et les frontières de celui-ci, définir ses rapports avec les «autres», former des images des amis et des ennemis, des rivaux et des alliés; c’est également conserver et modeler les souvenirs du passé, ainsi que projeter sur l’avenir ses craintes et espoirs.» Bronislaw Baczko, Les immaginaires sociaux, cit. p. 32. Cfr. inoltre Ibidem, pp. 30-38.

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spositivo immaginario» agisce sulla vita collettiva a più livelli: suscita l’adesione a un certo sistema valoriale; legittima un ordine sociale, politico ed economico immaginato; impone un’organizzazione del tempo dal punto di vista simbolico; contribuisce a sedimentare una memoria collettiva; elabora visioni dell’avvenire proiettando verso il futuro speranze, osses-sioni e sogni collettivi. Rispetto ad Anderson, Bazcko pone l’accento sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa come «produttori di immaginari sociali» e sulle mire che potere poli-tico esercita su di essi, in modo da assicurarsi un’influenza reale sui comportamenti individua-li e collettivi. 26

Partendo dai suggerimenti di Anderson e di Baczko, nella mia ricerca, l’immaginario sarà considerato alla stregua di un sistema discorsivo, che sottostà, cioè, all’ordine del discor-so, al suo regime di verità e al suo potere di «inclusione» e di «esclusione». Il riferimento al concetto di discorso rimanda alla metodologia per lo studio della storia della cultura elaborata da Michel Foucault, nel saggio L’archeologia del sapere — uno scritto definito dallo stesso Foucault come «metodologico» — e ne L’ordine del discorso, la trascrizione della lezione inaugurale da lui tenuta al Collège de France nel 1970. Secondo il filosofo francese lo stu27 -dio della complessità storica nell’ambito della cultura e delle idee deve essere liberato da qualsiasi approccio implichi il ricorso ai temi della continuità, dell’unità e dell’identità e a quei concetti, come «tradizione», «sviluppo», «spirito», «opera», «autore» e «influenza» che li sostanziano, eliminando, sulla scorta della genealogia nietzschiana, la funzione fondatrice di un soggetto trascendente rispetto al «campo degli avvenimenti», che tenta di spiegare e di or-ganizzare i fenomeni discorsivi, attraverso relazioni di causalità, coerenza e consequenzialità che attribuiscono ai processi storici un carattere omogeneo e teleologico. Detto in altre paro28 -le, Foucault pone come condizione preliminare per l’analisi dei fenomeni discorsivi una sorta «epoché archeologica» che sospenda l’artificiosa attività ordinatrice di questo logos in modo da permettere allo studioso di guardare alle formazioni discorsive, che permettono la compar-sa di certi oggetti di «compar-sapere» e determinano le ragioni della loro esistenza, e ai loro effetti

«In effetti, ciò che i mass media fabbricano al di là delle informazioni imperniate sull’attualità sono gli imma

26

-ginari sociali, le rappresentazioni globali della vita sociale, dei suoi agenti, istanze e autorità, i modelli che for-mano le mentalità e i comportamenti, i miti politici, le immagini del capo carismatico» Cfr. Bronislaw Baczko.

Immaginazione sociale, cit., pp. 70-73. Sui rapporti tra immaginario e mediologia Cfr. Giovanni Ragone, Radici delle sociologiche dell’immaginario in «Mediascapes Journal», n. 4, 2015, pp. 63-75.

Cfr. Michel Foucault, L’archeologia del sapere, cit. e Id., L’ordine del discorsoe altri interventi, Torino, Ei

27

-naudi 2004 [1970].

Cfr. Michel Foucault, L’archeologia del sapere, cit., pp. 33-43. Cfr inoltre Id., Nietzsche, la genealogia, storia

28

in Id.; Alessandro Fontana, Pasquale Pasquino (a cura di), Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, pp. 29-54, Id., Che cos’è un autore in Id. Scritti letterari, Milano, Feltrinelli 2001 [1969].

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performativi, cioè alla capacità del discorso di porsi in relazione a pratiche «visibili» non di-scorsive — come ad esempio i dispositivi normativi e il loro intervento coercitivo, disciplina-re, educativo o terapeutico — e comportamenti sociali, più o meno istituzionalizzati. 29

Seguendo il metodo foucaultiano, il compito dello storico della cultura diviene quello di considerare le formazioni discorsive come fenomeni stoculturali e di procedere alla rico-struzione della loro morfologia — o della loro archeologia, attraverso un approccio diacronico — avvalendosi di materiali documentari che, a prescindere dalla loro natura, devono essere ricondotti all’ordine dei discorsi che essi contribuiscono a creare, al fine di esplicitare i retico-li intertestuaretico-li in cui sono immersi. Solo attraverso questa operazione di ricollocamento del 30 singolo documento nel continuum intertestuale è infatti possibile valorizzare le «discontinui-tà», evidenziando eventuali rotture e devianze nel regime di regolarità della formazione di-scorsiva, così come la persistenza di nuclei o «figure profonde» invarianti rispetto ai muta-menti della sua morfologia. 31

Considerando l’immaginario come un sistema discorsivo all’interno del quale si integrano forme narrative, immagini mentali e rappresentazioni, intendo quindi affermare che esso di-viene, da un lato, il «luogo» in cui si costituisce un’identità, la quale necessariamente risulterà contrapposta ad altre identità negative, e dall’altro il «mezzo» su cui investire determinate

Cfr. Michel Foucault, L’archeologia del sapere, cit., pp. 43-67. Per dirla con le parole del filosofo Gilles De

29

-leuze, il sapere di cui parla Foucault «è un concatenamento pratico, un «dispositivo» di enunciati e di visibilità. Il che significa che un sapere esiste solo in funzione di «soglie» molto varie che contrassegnano altrettante lamine, sfaldature e orientamenti sullo strato considerato. A questo proposito non basta parlare di una soglia di «episte-mologizzazione». Quest’ultima è già orientata verso una direzione che conduce alla scienze e che dovrà attraver-sare ancora una soglia propria di scientificità, e eventualmente di «formalizzazione». Ma sullo strato non manca-no altre soglie, altri orientamenti: soglie di eticizzazione, di estetizzazione, di politicizzazione, ecc. Il sapere manca-non è la scienza e non è separabile da questa o quella soglia in cui è preso: senza escludere l’esperienza percettiva, i valori dell'immaginario, le idee dell’epoca o i dati dell’opinione comune.[…] Ci sono solo pratiche, o positività, costitutive del sapere: pratiche discorsive di enunciati e pratiche non discorsive di visibilità. […] È questo il po-sitivismo o pragmatismo di Foucault, che non si è mai posto problemi rispetto ai rapporti tra scienza e letteratura, o tra immaginario e scientifico, o tra saputo e vissuto, perché la concezione del sapere impregnava e mobilitava tutte le soglie, trasformandole nelle variabili dello strato in quanto formazione storica». Gilles Deleuze,

Fou-cault, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 58-59.

«Prima di occuparsi, con piena certezza, di una scienza, o di romanzi, o di discorsi politici, o dell’opera di un

30

autore, oppure di un libro, il materiale che si deve trattare nella sua originaria neutralità è costituito da tutta una folla di avvenimenti nello spazio del discorso in generale. Si delinea in tal modo il progetto di una descrizione pura degli avvenimenti discorsivi come orizzonte per la ricerca delle unità che vi si formano.» Michel Foucault,

L’archeologia del sapere, cit., p. 37.

Le figure profonde sono delle strutture elementari (costellazioni narrative, miti, sistemi allegorici) che defini

31

-scono la matrice invariante di una formazione discorsiva. Si defini-scono profonde perché «hanno a che fare con fatti «primari» — nascita/morte; amore/odio; sessualità/riproduzione —» e perché, pur adattandosi a uno specifi-co sistema disspecifi-corsivo si specifi-collocano in un specifi-continuum di lunghissima durata, «vecchio di sespecifi-coli, talvolta di millen-ni»; pertanto esse sono immediatamente riconoscibili a prescindere dalla declinazione assunta nel contesto di-scorsivo. Cfr. Alberto Mario Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. VI-VII.

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idee e schemi valoriali — veicolate nel nostro caso dalle narrazioni cinematografiche — per definire o ridefinire tali identità.

A questo proposito, ho accolto la proposta analitica e interpretativa di indirizzo

postcolo-niale elaborata da Edward Said nel celebre saggio Orientalismo — e poi ripresa e ampliata,

seppur con alcune sostanziali differenze, nel successivo Cultura e imperialismo — secondo la quale la costruzione dell’identità nazionale degli stati imperialisti europei passa per la defini-zione speculare di identità «altre» dei popoli colonizzati. Per formulare questa tesi Said, che 32 accoglie la teoria foucaultiana del discorso come sede dell’organizzazione produttiva «di po-tere e sapere» e la categoria gramsciana di egemonia, parte dal presupposto che il progetto europeo di dominio su terre e popoli extraeuropei, non si basi soltanto su rapporti di forza economici, politici e militari, ma anche su istituzioni e pratiche culturali che hanno non solo permesso di giustificare tale progetto, ma lo hanno addirittura incentivato, creando grandi contenitori geografici (l’«Oriente», l’«Africa», l’«India», il «Giappone») all’interno dei quali civiltà diverse sono state compresse dentro stereotipi e figure che esprimono un’alterità radi-cale rispetto all’Occidente, alle sue istituzioni culturali e alla sua tavola valoriale. Il processo 33 attraverso il quale il discorso coloniale occidentale crea e cataloga l’«altro» avrebbe quindi permesso alle nazioni imperialiste di esplicitare una presunta inferiorità, in termini culturali, storici e biologici dei popoli colonizzati, imponendo rapporti egemonici basati sull’idea di una superiorità «oggettiva» degli occidentali. Come scrive Said:

le rappresentazioni di ciò che stava al di là dei confini insulari o metropolitani vennero, quasi dall’inizio, a confermare il potere europeo. Vi è in tutto questo un’incredibile circolarità: noi siamo i dominatori perché abbiamo il potere (industriale, tecnologico, militare e morale) e loro no, ed è per questo che non sono loro i dominatori; loro sono inferiori, noi superiori… e via di questo passo, senza sosta. 34

Partendo da questo concetto di circolarità, risulta evidente come la rappresentazione della colonia e dei popoli colonizzati articolata dal discorso, risulti funzionale alla costruzione di

Cfr. Edward Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 2003 [1978]; Id., Cultu

32

-ra e imperialismo. Lette-ratu-ra e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, Gamberetti Editrice, Roma

1998 [1993]. Sulle differenze tra le due opere di Said rimando a Giuliana Benvenuti, Oltre «Orientalismo»:

l’umanesimo e l’impero in Nicola Labanca, Giorgio Vercellin, Cristiana Facchini, Giuliana Benvenuti (a cura di),

«Orientalismo» e oltre, di Edward Said, in «Contemporanea», n. 4, 2005, pp. 711- 742.

Nei Quaderni dal carcere Antonio Gramsci definisce egemonia un rapporto di potere, declinato in termini po

33

-litici, economici o culturali, esercitato mediante strumenti di natura cognitiva e culturale anziché attraverso la forza materiale delle armi e della coercizione. Cfr. ad esempio Antonio Gramsci; Valentino Gerratana (a cura di),

Quaderni dal carcere. Vol. II, Einaudi, Torino 1975, pp. 856-6; Ibidem, Vol. III, pp. 1614-6, 1624-6.

Edward Said, Cultura e imperialismo, cit., p. 131 (corsivo nel testo).

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un’identità «altra» sulla quale modellare, mediante un insieme di negativi e di opposizioni, l’identità nazionale dei colonizzatori. Pertanto, come Said ribadisce più volte nelle sue ope35 -re, quando si analizza una qualsivoglia costruzione identitaria relativa a uno stato-nazione im-perialista non si può non tener conto del conio che è stato utilizzato per definirla. Sebbene 36 Said, da una prospettiva postcoloniale, suggerisca di decostruire l’«archivio» della cultura oc-cidentale tramite una «lettura contrappuntistica», cioè un approccio analitico che permette di cogliere le voci e le narrazioni dei subalterni contro le quali la narrazione occidentale egemo-ne agisce, egemo-nella mia ricerca non mi soffermerò su questo aspetto, limitandomi ad esplorare il rapporto che intercorre tra la costruzione dell’immaginario coloniale fascista all’epoca della guerra d’Etiopia e il progetto di ridefinizione dell’italianità perseguito attraverso la produzio-ne di pellicole ciproduzio-nematografiche educative.

La struttura dell’opera, che si articola su cinque capitoli ordinati secondo un principio te-matico, riflette l’approccio multidisciplinare esposto in precedenza e tenta di rispondere in maniera esauriente ai molti interrogativi sollevati dall’argomento della ricerca.

Nel primo capitolo ricostruirò il contesto generale della guerra d’Etiopia, un conflitto che lungi dall’essere una piccola e anacronistica spedizione coloniale fu evento di portata globale, che ebbe gravissime ripercussioni sul sistema delle relazioni internazionali di Versailles, av-viando, di fatto, quell’escalation di violenza che trascinerà il mondo intero nella tragedia della seconda guerra mondiale. Dopo aver descritto le caratteristiche del conflitto, gli echi che pro-dusse nelle cancellerie europee e nell’opinione pubblica internazionale, e le dimensioni mate-riali della mobilitazione italiana, passerò ad analizzare il «processo di mobilitazione delle co-scienze», guardando, da un lato, alla struttura amministrativo-politica del Ministero per la Stampa e per la Propaganda e, dall’altro, alla morfologia del reticolo mediatico sul quale si realizzò l’azione propagandistica del regime.

Nel secondo capitolo parlerò del progetto di ridefinizione identitaria degli italiani persegui-to da Mussolini e dagli intellettuali organici al regime contestualmente alla guerra d’Etiopia,

Cfr. Edward Said, Orientalismo, cit., pp. 11-12.

35

«Un esempio di questo nuovo sapere potrebbe essere lo studio dell’orientalismo o dell’africanismo e, per

36

prendere un contesto ad essi collegato, lo studio sul significato di «inglesità» e «francesità». Queste identità ven-gono oggi analizzate non come essenze divine ma, ad esempio, come il risultato della collaborazione tra storia africana e studi sull’Africa fatti in Inghilterra, o tra lo studio della storia francese e la riorganizzazione del sapere durante il Primo Impero. In altri termini abbiamo a che fare con la formazione di identità culturali intese non come essenze date, ma come insiemi contrappuntisti, poiché si dà il caso che nessuna identità potrà mai esistere per se stessa e senza una serie di opposti, negazioni e opposizioni: i greci hanno sempre avuto bisogno dei barba-ri, come gli europei degli africani, degli orientali e così via». Edward Said, Cultura e imperialismo, cit., p. 77.

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analizzando le premesse ideologiche, politiche e culturali che regolano la comunicazione poli-tica fascista; il concetto di «uomo nuovo» in rapporto alla concezione palingenepoli-tica della guerra; le caratteristiche immaginate dell’imperialismo fascista e il processo di costruzione della «coscienza coloniale» della nazione. Nell’ultima parte del capitolo sarà invece ricostrui-to il rapporricostrui-to che intercorre tra le forme essenziali dell’immaginario coloniale italiano e la definizione dell’identità nazionale, dal periodo post unitario all’epoca fascista. Tale ricogni-zione, propedeutica all’analisi culturale dei cinegiornali e dei documentari Luce sulla guerra d’Etiopia, è finalizzata all’individuazione degli elementi caratteristici dell’immaginario sul-l’altro.

Nel terzo capitolo sarà ricostruita la storia istituzionale dell’Istituto Luce e del Reparto Fo-tocinematografico Africa Orientale — il distaccamento dell’ente costituto ad Asmara a cui fu affidata la costruzione dell’immagine ufficiale della guerra —, mettendo in evidenza soprat-tutto la dialettica che intercorse tra i vertici dello stato fascista e la dirigenza del Luce. Per compiere queste operazioni verrano utilizzate, accanto alle fonti secondarie, una tipologia di fonti che va dalle pubblicazioni ufficiali del Luce stesso, agli articoli giornalistici comparsi sulle riviste specialistiche, passando per i documenti provenienti dall’Archivio Centrale dello Stato e dal Fondo del presidente Giacomo Paulucci di Calboli dell’Archivio di Stato di Forlì. Dopodiché esplorerò le forme e le geografie del consumo delle pellicole cinematogra37 -fiche nell’Italia degli anni Trenta, facendo riferimento alle politiche culturali fasciste e, in par-ticolar modo, ai tentativi compiuti dal regime per disciplinare questo ambito della cultura di massa promuovendo i propri modelli di modernità e depotenziando l’influenza di quelli, per-lopiù provenienti dall’estero, incompatibili con gli orizzonti estetici, etici e ideologici del fa-scismo. Infine opererò una decostruzione delle pellicole educative per indagarne le caratteri-stiche formali, i linguaggi sui quali si articolano, le strutture narrative e compositive, al fine di portarne alla luce i meccanismi di funzionamento.

Gli ultimi due capitoli saranno interamente dedicati all’analisi culturale del materiale fil-mico prodotto dall’Istituto Luce e dalla sua succursale africana nel periodo compreso tra l’av-vio della mobilitazione per la guerra nei primi mesi del 1935 e l’apparente stabilizzazione del-l’impero che possiamo ritenere conclusa alla fine del 1937.

Nel quarto capitolo le attualità dei cinegiornali e i brani dei documentari saranno utilizzati, alla stregua di reperti testuali, per ricostruire gli snodi più significati del «dramma africano»,

Purtroppo non è stato possibile accedere ai fondi archivistici dell’Istituto Luce conservati nel complesso di

37

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cioè della grande narrazione audiovisiva della guerra d’Etiopia, al fine di analizzare la morfo-logia del discorso nazional-patriottico di epoca fascista. Attraverso l’analisi dei ruoli normati-vi di genere, dell’essenza biopolitica della nazione e dei «sistemi di differenze» che agiscono al livello dell’immaginario, saranno messi in evidenza i meccanismi di drammatizzazione che muovono la macchina narrativa, così come le linee di continuità che collegano i film Luce all’originale matrice discorsiva elaborata in epoca risorgimentale.

Nel quinto e ultimo capitolo, infine, si porterà avanti un’operazione simile nel campo di-scorsivo dell’immaginario coloniale, attraverso la disamina di quei materiali filmici incentrati sulla conquista dello spazio coloniale e sulla costruzione dell’alterità africana. Accanto ai ci-negiornali e ai documentari d’attualità saranno analizzati filmati di taglio etnografico, cruciali per esplorare il rapporto tra razza e genere; i meccanismi di «sbiancamento» discorsivo neces-sari a isolare e diversificare le truppe coloniali dal resto degli indigeni, strutturando così la gerarchia dell’impero; le pratiche di nominazione e dominio simbolico delle terre conquistate dagli invasori italiani.

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Capitolo primo

Alla conquista dell’Impero

Venti milioni di uomini: una volontà sola

Mercoledì, 2 ottobre 1935. Sono le 15.30 quando le campane dei municipi e delle case del Fascio di tutta Italia iniziano, quasi simultaneamente, a risuonare. È un segnale inequivocabi-le, che chiama all’adunata generale il popolo italiano. Il duce del fascismo, Benito Mussolini, rotti gli ultimi indugi, ha deciso che è arrivato il momento di attaccare l’Etiopia. Non è certo una decisione che prende gli italiani alla sprovvista: la crisi con l’impero abissino, iniziata nel dicembre dell’anno precedente, era ormai giunta a un punto di non ritorno e già da qualche mese l’esercito stava ammassando grandi quantitativi di uomini, di mezzi e di materiali in Eri-trea e in Somalia, pronto ad invadere il millenario impero africano. L’avvio della guerra era dunque solo una questione di tempo.

A questo punto una gigantesca macchina organizzativa si mette in moto, seguendo pedisse-quamente un preciso protocollo di mobilitazione, diramato dal segretario del PNF (Partito Nazionale Fascista) Achille Starace a tutte le sedi provinciali del partito. La popolazione, in1 -terrotte le proprie occupazioni, si riversa nelle strade che nel frattempo sono state addobbate con bandiere tricolori, fasci littori, scenografie di cartapesta e giganteschi ritrattati di Musso-lini, dirigendosi verso le piazze indicate per i «grandi concentramenti». I bambini, che vesto-no la divisa dell’ONB, sovesto-no sicuramente i più eccitati per quello che sta avvenendo. Marciavesto-no stringendo il moschetto di legno tra le mani e intanto sognano di arruolarsi per raggiungere le armate italiane nel Corno d’Africa, magari dopo un viaggio avventuroso a bordo di un veloce piroscafo o di qualche modernissimo aeroplano della Regia aeronautica. Anche le bambine, che a dire il vero ricoprono un ruolo da comprimarie nel processo di mobilitazione orchestrato dal regime, trovano le vicende africane particolarmente eccitanti e suggestive. E questo

Il preannuncio «dell’adunata generale delle forze del regime» era stato dato fin dal 10 settembre, attraverso il

1

«Foglio d’Ordini» n.141 Cfr. Renzo De Felice, Mussolini il duce. Vol. I: Gli anni del consenso, 1929-1936, Ei-naudi, Torino 1974, p.693, in nota.

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ché da qualche tempo sia dentro sia fuori dalla scuola non sentono parlare che dell’Abissinia, dei diritti dell’Italia su quella terra ricchissima e del malvagio Negus che ha reso schiavo il suo popolo.

Gli adulti, dal canto loro, non sembrano altrettanto coinvolti. Certo, molti sono entusiasti per l’imminente guerra: agitano bandiere, cantano canzoni, recitano slogan contro la perfida Albione, rumoreggiano come eccitati da una sorta di febbre nazional-patriottica; in fondo, a loro, la decisione di Mussolini pare giusta poiché l’Italia non chiede altro che il diritto di pos-sedere un impero coloniale come quello delle altre potenze europee. E poi conquistare l'Etio-pia significherebbe offrire terra e lavoro ai disoccupati, risolvendo un annoso problema nazio-nale. Molti altri però hanno un atteggiamento passivo e rassegnato, da cui non traspare alcun tipo di fervore, dato che sembrano scesi in strada più per obbligo che per sincera convinzione; ritengono la guerra inutile perché non risponde in nessun modo ai problemi della propria esi-stenza quotidiana. Tra di loro, chi è iscritto al partito o al sindacato fascista ha, come unica preoccupazione, quella di consegnare la cartolina di convocazione a un addetto che, posto in prossimità della zona dell’adunata, è incaricato di contare le presenze e, ovviamente, di regi-strare le assenze. Infine sono tantissimi gli uomini e le donne che sono davvero preoccupati. 2 C’è da comprenderli: in Africa, a combattere o a lavorare, ci sono i loro figli, i loro mariti, i loro parenti, i loro amici e il ricordo traumatico dell’esperienza della guerra mondiale è ancora vivissimo nella memoria di coloro che vi hanno partecipato e di coloro che ne hanno osserva-to le conseguenze sui reduci, così com’è altrettanosserva-to vivido, specie tra i più anziani, l'immagine delle orde di Menelik che massacrano le colonne di Baratieri, a Adua, nel 1896.

A Roma, verso le 18,45, il duce compare sul balcone di Palazzo Venezia, accolto dalle esplosioni di entusiasmo incontrollato a cui si è abbandonata la folla sottostante. Per circa venti minuti va in scena il suo spettacolo, un monologo intervallato dalle consuete interazioni con il pubblico: Mussolini parla, grida, gesticola, alterna posizioni statuarie a repentini movi-menti del busto, degli arti, della testa. Via etere, grazie alla diretta dell’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), la sua voce si diffonde su tutto il territorio nazionale, dalle città, dove viene propagata da altoparlanti opportunamente predisposti, ai piccoli centri, dove

Paul Corner nel ridimensionare l’immagine dell’entusiasmo spontaneo che accompagnò l’avvio della guerra

2

con l’Etiopia, descrive la funzione coercitiva esercitata dal sistema delle cartoline di convocazione come essen-ziale per spiegare l’affluenza di massa alla grande adunata del 2 ottobre. Un’eventuale assenza sarebbe stata pu-nita con multe, «procedenti disciplinari» e «gravi sanzioni», Cfr. Paul Corner, L’opinione popolare italiana di

fronte alla guerra d’Etiopia, in Riccardo Bottoni(a cura di), L’impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), Il

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ce basta un semplice apparecchio radiofonico, che spesso è messo a disposizione dalla sede locale del partito, per raggiungere l’uditorio:

Camicie Nere della Rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia! Italiani sparsi nel mondo, oltre i monti e oltre i mari, ascoltate!

Un’ora solenne sta per scoccare nella storia della Patria. Venti milioni di uomini occupano in questo momento le piazze di tutta Italia.

Mai si vide, nella storia del genere umano, spettacolo più gigantesco. Venti milioni di uomini: un cuore solo, una volontà sola, una decisione sola.

La loro manifestazione deve dimostrare e dimostra al mondo che Italia e Fascismo costitui-scono una identità perfetta, assoluta, inalterabile. […]

Non è soltanto un esercito che muove verso i suoi obiettivi, ma è un popolo intero di 44 mi-lioni di anime, contro il quale si tenta di consumare la più nera delle ingiustizie: quella di to-glierci un po’ di posto al sole.

Quando nel 1915 l’Italia si gettò allo sbaraglio e confuse le sue sorti con quelle degli alleati, quante esaltazioni al nostro coraggio e quante promesse! Ma dopo la vittoria comune, alla quale l’Italia aveva dato il contributo supremo di 670.000 morti, 400.000 mutilati e un milione di feri-ti, attorno al tavolo della pace esosa non toccarono all’Italia che scarse briciole del ricco bottino coloniale.

Abbiamo pazientato tredici anni durante i quali si è ancora più stretto il cerchio degli egoismi che soffocano la nostra vitalità. Con l’Etiopia abbiamo pazientato quarant’anni! Ora basta!

Alla Lega delle Nazioni, invece di riconoscere i nostri diritti, si parla di sanzioni. […]

Alle sanzioni economiche opporremo la nostra disciplina, la nostra sobrietà, il nostro spirito di sacrificio. Alle sanzioni militari risponderemo con misure militari. Ad atti di guerra risponde-remo con atti di guerra.

Nessuno pensi di piegarci senza aver prima duramente combattuto.[…]

Ma sia detto ancora una volta, nella maniera più categorica - e io ne prendo in questo mo-mento impegno sacro davanti a voi - che noi faremo tutto il possibile perché questo conflitto di carattere coloniale non assuma il carattere e la portata di un conflitto europeo. Ciò può essere nei voti di coloro che intravvedono in una nuova guerra la vendetta dei templi crollati, non nei nostri.

Mai come in questa epoca storica il popolo italiano ha rilevato le qualità del suo spirito e la potenza del suo carattere.

Ed è contro questo popolo, al quale l’umanità deve talune delle sue più grandi conquiste, ed è contro questo popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di navigatori, di transmigratori, è con-tro questo popolo che si osa parlare di sanzioni.

Italia proletaria e fascista, Italia di Vittorio Veneto e della Rivoluzione, in piedi! Fa’ che il grido della tua decisione riempia il cielo e sia di conforto ai soldati che attendono in Africa, di sprone agli amici, e di monito ai nemici in ogni parte del mondo: grido di giustizia, grido di

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vit-toria! 
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La performance di Mussolini è sicuramente una delle più calcolate e brillanti della sua car-riera politica, così come è molto efficace il contenuto del suo discorso in cui abilmente si me-scolano costellazioni di immagini altamente simboliche, capaci di stimolare corde profonde nell’animo di chi ascolta. Quella che si è appena compiuta in tutte le piazze d'Italia è una ma-nifestazione quasi oracolare di una monolitica volontà generale che promana dalla nazione nella sua interezza: è un «popolo intero di 44 milioni di anime» che parla per mezzo del duce. Non chiede altro che ciò gli spetta e che gli è stato negato, a Versailles, nel 1919: una fetta del «ricco bottino coloniale» che le altre potenze vincitrici si sono ingiustamente accaparrate, no-nostante il sacrificio di sangue dei martiri caduti nelle trincee sul Carso e lungo l’Isonzo. È «l’Italia proletaria e fascista, l'Italia di Vittorio Veneto e della Rivoluzione» che vuole liberarsi dalla stretta mortale delle nazioni plutocratiche che rischia di soffocare il suo vitalismo. In-somma, quella che sta per iniziare è una guerra nazionale, una guerra in cui tutto il popolo italiano dovrà mostrare al mondo intero la «qualità del suo spirito e la potenza del suo caratte-re». Ma al tempo stesso è ovviamente anche una guerra coloniale, dato che il suo obiettivo ultimo è la conquista dell'Etiopia, lo stato africano che quarant’anni prima aveva inflitto all’I-talia liberale una bruciante umiliazione. Certo, è una guerra coloniale sui generis, molto di-versa da quelle combattute in Libia e in Somalia nel corso degli anni ’20 e ciò è dimostrato dal fatto che essa potrebbe trasformarsi da un momento all’altro in una guerra europea coin-volgendo le potenze liberal-democratiche che tiranneggiano all’interno della SdN (Società delle Nazioni) e che tramano nell’ombra per infliggere delle sanzioni economiche all’Italia. E poi, a ben vedere, è anche una guerra fascista, anzi la prima vera e propria guerra fascista, l’evento che dovrà dimostrare la fusione «assoluta e inalterabile» tra il popolo italiano e il re-gime sotto il segno del littorio, la prima prova di forza di un’Italia nuova, finalmente rigenera-ta e ormai libera dai residui di secoli di dominazioni straniere.

Terminato il discorso, i «venti milioni di uomini» mobilitati continuano a presidiare le piazze fino a notte fonda. A dire il vero è il protocollo dell’adunata diramato da Achille Stara-ce che prevede di non sgombrare gli assembramenti fino alla mezzanotte, ma secondo molti

Benito Mussolini, Scritti e discorsi. Vol. IX: Scritti e discorsi dal gennaio 1934 al 4 novembre 1935, Milano,

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Hoepli 1935, pp. 218-220(corsivo mio). Cfr. inoltre il documentario Luce ACL, B0761, 8/10/1935 «Adunata! Ottobre XIII. mentre l’ora solenne sta per scoccare nella storia della patria, venti milioni di italiani ascoltano la parola del duce».

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osservatori, quella notte, tra i presenti, l’entusiasmo e l’eccitazione collettiva sono tangibili: in qualche città si formano dei cortei spontanei che sfilano alla luce delle fiaccole; in altre si ri-mane ad ascoltare le canzoni patriottiche diffuse dagli altoparlanti; in altre ancora si incendia-no, in roghi rituali, fantocci con le fattezze del Negus. Mentre tutto ciò accade, in Africa tre 4 corpi d’armata agli ordini del quadrunviro della marcia su Roma, generale Emilio De Bono, si mettono in movimento e iniziano ad attraversare in vari punti il Mareb e il Belesa, i due fiumi che segnano il confine tra la Colonia Eritrea e l’Impero d’Etiopia.

La più grande guerra coloniale

Com'è noto, il casus belli ufficiale che giustifica l'attacco italiano è l’incidente di Ual Ual avvenuto il 5 dicembre 1934. Ual Ual è un piccolo villaggio che sorge in una zona strategica ricca d’acqua, al confine tra l'Etiopia e la Somalia nella regione desertica dell’Ogaden, tappa obbligata delle rotte carovaniere che attraversano il deserto. Formalmente, secondo l’art. 4 della convenzione italo-etiopica del 1908 Ual Ual si trova in territorio etiope, ma de facto sin dal 1926 gli italiani l’hanno occupato e fortificato, in seguito all’inclusione nei territori della Somalia Italiana del Sultanato di Obbia. L’Etiopia, che ne rivendica il controllo, ottiene, gra-zie al decisivo appoggio britannico, che la questione venga sottoposta all’attenzione della SdN che ordina la creazione di una commissione. Il 22 novembre 1934, la Commissione di frontie-ra anglo-etiopica incaricata di risolvere la vertenza si presenta nei pressi di Ual Ual, scortata dalle truppe del fitaurari Sciferrà. Dopo alcuni giorni di tensione scoppia un conflitto armato tra il fortino italiano presidiato da una guarnigione di dubat e supportato da altri reparti colo-niali, e gli armati di Sciferrà, che provoca circa 300 morti tra etiopici e 21 da parte italiana (ma tutti somali). 5

Ovviamente Ual Ual non è che un pretesto per mettere in atto un progetto che Mussolini coltiva almeno dal 1932. Risale infatti all'autunno di quell’anno una richiesta inoltrata dal duce all'allora ministro delle Colonie, generale Emilio De Bono, per un piano di aggressione

Angelo Del Boca, che all’epoca aveva dieci anni, ricorda di aver incendiato con i suoi coetanei un fantoccio

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raffigurante Hailé Selaissié, subito dopo la conclusione del discorso di Mussolini. Cfr. Angelo Del Boca, Gli

italiani in Africa Orientale. Vol. II: La conquista dell’Impero, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 393 e in nota.

Per una ricostruzione puntuale dell’incidente di Ual Ual Cfr. Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa, Vol. II, cit.

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pp. 245-291. Esiste inoltre un testo, redatto dall’ufficiale italiano che guidò le truppe italiane a rompere l’asse-dio, ascrivibile all’ondata di produzione memorialistica che seguì la guerra. Cfr. Roberto Cimmaruta, Ual-Ual, CLU, Genova 2009[1936].

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