Paralogia: il senso nascosto della voce
7.7. Indicalità e indessicalità del volto
Il legame fra senso e volto, enunciato e bocca non è lontano dal senso comune, anzi. Chi vede un volto solitamente vi vede la possibilità di un’in- gerenza nel mondo, e chi coglie un senso s’immagina spesso il suo lega- me con un corpo, con un volto. In molti, ancora, rimane spontaneo il rimando dall’enunciato non a un’istanza astratta, ma a una bocca, a un’in- tenzionalità che si apre al mondo come linguaggio. Giustamente Peirce
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collegò l’indicalità all’indessicalità, giustamente perché nell’enunciato che fa riferimento alle coordinate spazio–tempo–attoriali dalle quali scaturisce vi è anche la forza di segnalare la motivazione di questo scaturire, la causa dietro l’effetto, l’impeto dietro il gesto; quando s’interpreta il gesto che punta se ne coglie il valore indessicale, ma se ne apprezza anche l’ener- gia indicale. Lo stesso Peirce, tuttavia, sottolineò in più scritti che ciò che motiva l’indicalità non è direttamente l’ontologia — ovvero il legame fra un reale agentivo la cui sola presenza in contiguità spazio–temporale con un secondo reale lo cambi, cioè fra “una causa” e “un effetto” — bensì, indirettamente, il riconoscimento di una relazione reale, la quale dipende in ultima istanza da un interpretante, concepito come la potenzialità che l’effetto possa essere interpretato quale segno di una causa. Nonostante il legame di causa ed effetto nel reale non muti, la sua significanza dipende dalla misura in cui tale interpretante si fissa nel senso comune e dunque nell’enciclopedia di una comunità d’interpreti, senza i quali questo stesso interpretante resterebbe una pura potenzialità. La forza di gravità esisteva prima di Newton come forza causale, eppure non si è tradotta in interpre- tante che a seguito della spinta propulsiva di Newton e dei suoi seguaci. Quest’ultima potrebbe perdurare ma anche esaurirsi, per esempio a segui- to dell’avvento di neo–oscurantismi.
7.8. Negazionismi
Allo stesso modo, vedere un volto significa in maniera irreprimibile acce- dere alla possibilità di un corpo che non è condannato alla materia ma che da questa può almeno in potenza sollevarsi verso una dimensione non ma- teriale, quella in cui il reale non è semplicemente sé stesso ma si sdoppia nel suo livello ontologico e nella potenzialità di un divenire, promosso at- traverso il movimento e la predazione negli esseri viventi meno complessi, simulato nella cognizione in quelli più complessi, oggetto d’intenzionalità nelle specie animali, riflesso di consapevolezza nella specie umana e forse anche in altre specie animali complesse. Il volto significa, sulla base del suo stesso ruolo nell’evoluzione biologica del vivente, la possibilità di un accesso al senso e non semplicemente alla materia. Questa indicalità del volto rispetto al senso dovrebbe da un lato scongiurare la profanazione dell’umano, nel senso che, lévinassianamente, dovrebbe scoraggiare ogni
trasformazione del corpo altrui in mera cosa, mentre dall’altro dovrebbe parimenti promuovere una considerazione etica del vivente: se qualcosa ha un volto, come un animale complesso, per esempio, allora è intolle- rabile disconoscerne la compartecipazione alla stessa dimensione dell’e- sistente che caratterizza l’umano; ma significa anche poter riconoscere il volto del vivente pure in casi più liminari, quelli in cui esso non si ma- nifesti con una fenomenologia inequivocabile ma in modo più sibillino, attraverso la presenza di movimento orientato alla vita, per esempio. Ri- conoscere il volto di un albero, o di una foresta, significa comprendere la sua dipendenza dall’esterno, che da sola basta a fondarne la comunanza con tutto il vivente, a farvi brillare un’ombra di linguaggio. Per quanto forte sia il legame fra volto e vita, volto e senso, volto e linguaggio, volto ed enunciato, tuttavia, esso, il legame, può subire inflessioni anche molto consistenti a causa di rivolgimenti culturali. Per esempio, la modernità si traduce fra l’altro nell’importanza dell’individualità come presupposto del valore fenomenologico ed etico del volto. Un volto che ha senso, nella modernità, non è un volto generico, ma è un volto individuale e indivi- dualizzato, fino al punto che il volto banale non è valorizzato mentre, nel rapporto con gli altri animali, solo emerge come volto quello dell’animale individuale, domestico, d’affezione, laddove tutti gli altri sono musi da trattare senza pietà. Anche la bellezza del volto è inflessione culturale di lunghissimo periodo del legame indicale fra volto e senso: non è per nulla scontato che debba essere il volto aggraziato, o socialmente riconosciuto come tale, a emanare senso. Come già Deleuze e Guattari segnalavano, dovrebbe essere anche il volto abnorme a parlare della vita, il volto defor- me, il volto brutto e malato, il volto abietto. Vi è dunque una serie corposa di spinte ideologiche a restringere il campo etico del volto, come pure ad elidere i suoi legami con l’enunciato; da un certo punto di vista, la conce- zione acefala del testo propugnata da tanta semiotica vetero–strutturale è il frutto di una di queste retoriche di allontanamento non del volto dal senso ma del senso dal volto, come se si fosse davvero potuto maneggiare un’idea di senso incorporeo, divelto dalla sua biologia, dal suo corpo, su- blimato e disincarnato nella cultura e nel metalinguaggio che la cattura. Lo scopo ultimo di queste retoriche del senso disincarnato è di sognare una riscrittura totale dell’umano, una specie di eu–semiotica, un desiderio alquanto puerile di concepire il senso come qualcosa d’infinitamente pla- smabile, desiderio che non a caso è stato difficile distinguere dalle derive
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decostruzioniste, mentre ogni àncora del senso al di fuori del linguaggio, il volto essendo una fra le più importanti, si recepiva come ostacolo al pen- siero della totale manipolabilità dell’essere nel linguaggio, un pensiero, in realtà, piuttosto fondamentalista e con risvolti violenti. Se il volto non è la fonte del linguaggio, ma solo un suo effetto, si può sognare il sogno de- miurgico di poter attribuire e negare volti a proprio piacimento, decretan- do senza ostacoli dove si annida il senso e dove il nulla, cosa è linguaggio e cosa non lo è, quale parola è degna d’attenzione e quale mero brusio.
7.9. Simulacri
Vi sono però anche retoriche simmetriche di attribuzione del volto alla non–vita, o alle ideologie della violenza, come accade nel ventriloquismo appena descritto. Una di tali retoriche si traduce nell’utopia di creare volti artificiali o transumani. Se il volto è finestra del linguaggio sul mondo (ri- formulazione di un detto antico), allora creare volti combinatori, in mol- titudini infinite, e perdipiù simulare un’assenza, in tale creazione, di ogni agentività, sia quella della natura, sia quella della cultura, significa recidere il legame fra volto e vita, dar luce a volti che nel loro moltiplicarsi e simula- to esistere suggeriscano per accumulo la loro insipienza, l’inaffidabilità del volto, la sua insignificanza. Le culture che proibiscono la rappresentazione del corpo, e specialmente del volto, reagiscono rigidamente a una tenden- za la quale però, esacerbata, conduce esattamente all’inflazione simulacrale del volto. Se nella semiosfera di molte se non di tutte le culture il volto è un meta–contenuto, nel senso che non è semplicemente un rappresentato da testi di ogni tipo e sorta e sostanza espressiva, ma ganglio e dispositivo fondamentale che garantisce la scaturigine stessa del sistema modellizzante primario (ovvero lo scambio linguistico), la proliferazione simulacrale d’im- magini di questo dispositivo ne distilla il rovesciamento come puro ogget- to di rappresentazione, non più garanzia del legame con l’intenzionalità, o comunque con la vita, ma cosa. Il volto rappresentato oltremodo diventa cosa. Questo rischio dà luogo alle ondate di iconoclastia nella storia, cui si oppongono le ideologie del desiderio, quelle che essenzialmente reagisco- no, col simulacro, all’idea della morte. Trattasi di una reazione nobile, nel senso che pure il pensiero di una continuità del volto amato dopo la morte esprime in maniera potente il senso della potenzialità che è intrinseco nel
linguaggio. Secondo Plinio il Vecchio e altre fonti, del resto, è così che nasce il ritratto, come tentativo di sottrarre l’essere del volto alla morte attraverso l’enunciazione di un suo simulacro indicale, del profilo tracciato attorno alla sua ombra stagliata da una lampada su un muro. Vi è però spesso un equivo- co nell’interpretare questo mito di fondazione della pittura occidentale: ciò che consente al simulacro di allontanare l’idea della morte non è soltanto il profilo, ma il profilo insieme all’ombra, vale a dire l’icona insieme con l’indi- ce. È l’indicalità dell’ombra, la sua schietta contiguità spazio–temporale con il volto, a fare dell’icona di tale profilo quella che è, ovverosia una rappre- sentazione. Senza quest’ombra, il profilo tracciato sarebbe vuoto ghirigoro della nostalgia, feticcio, simulacro inefficace. A ben vedere, infatti, non vi è vera icona, a cominciare da quella per antonomasia della cultura cristiana e occidentale, che non sia anche indicale. Il punctum di Barthes non consiste in fondo che nella capacità di cogliere l’indicalità dell’immagine attraverso ma anche al di là della sua iconicità. Spesso però — ed è esattamente con- tro questa arroganza che lottano i monoteismi iconoclasti — l’iconico si propone come volto indipendente da ogni indicalità, sostituzione perfetta, Ersatz che non è più tale ma che si propone come presenza invece che come rappresentazione. Il motivo di questa arroganza è la paura, essenzialmen- te la paura del non essere, che però si traduce nell’ideologia di un’icona idolatrica, staccata dall’essere, indipendente da essa. Le teorie culturaliste sull’iconismo hanno suffragato quest’arroganza nell’ambito semiotico. L’i- cona invece riluce perché è indicale, e tuttavia il progresso tecnologico del- la modernità occidentale sembra ambire, al contrario, a una rescissione di questo legame. Se risultava ancora facile smentire l’indipendenza dell’icona che tracciava il profilo dell’ombra, il passaggio a dispositivi sempre più com- plessi della rappresentazione, in apparenza sempre più performanti, ha reso il cordone indicale dell’icona, suo cordone ombelicale con l’essere, sempre più sottile, fino a coltivare il sogno di una recisione totale. Non sempre l’uni- co movente dell’icona idolatra è la paura. Dove c’è paura c’è anche mercato, nel senso di possibilità di scambiare simulacri illusoriamente salvifici contro energia umana, contro vita. Nel mercato delle icone, ma anche nel mercato in generale, funziona una banca dell’essere in cui si vendono simulacri d’im- mortalità al prezzo della vita.
Non tutto nella storia è corsi e ricorsi, perché i secondi ricorrono a un rit- mo accelerato dalla tecnologia, cambiato dalla tecnologia. A volte l’effetto quantitativo dell’accelerazione nella semiosfera si traduce in metamorfosi
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qualitativa profonda: nel corso di secoli, l’indipendenza dell’icona dalla sua matrice indicale è rimasta mito, propagandato attraverso racconti favolosi d’immagini spontanee ma perfette nate nella roccia, o nelle nubi. In seguito, e soprattutto con l’antropocentrismo rinascimentale, si è dato essenzialmente alla tecnica il compito di rendere autonome le immagini, di ottenere non solo un trompe–l’oeil ma anche un trompe–l’être, un inganno nei confronti dell’es- sere; circolano non più miti d’immagini spontanee ma di artisti titanici le cui sculture sembrano muoversi autonomamente, prendere vita. Le rappresenta- zioni fotografiche spostano nuovamente il baricentro dalla tecnica al disposi- tivo, rendono possibile una meccanica dell’illusione iconica, così che poi, per tutto il novecento e nei primi anni duemila, il mercato dei simulacri diventa essenzialmente mercato della tecnica, della definizione, della risoluzione. Ma la risoluzione ultima della tecnica, la soluzione finale dell’eu–semiotica, consi- ste nello spostare ulteriormente l’accento dalla tecnica alla macchina, retorica- mente presentata come dotata d’intelligenza autonoma. Le macchine, questa la nuova promessa, possono creare volti autonomi. La menzogna di una tale propaganda è evidente, in quanto anche le reti neurali hanno bisogno di essere nutrite d’immagini indicali, eppure circola e circolerà sempre più inostacolata. Si apre, nell’epoca digitale attuale, un mercato dei volti, un mercato del volto. È a rischio, nel lungo periodo, la dignità del più forte legame fenomenologico ed etico fra corpo e linguaggio, interiorità e comunità.
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