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Il volto negato

Nel documento Scevà: Parasemiotiche (pagine 190-193)

Paralogia: il senso nascosto della voce

7.4. Il volto negato

Se la glossolalia è scaturigine di una parola sacra da un volto umano, che alla parola della divinità presta la sua voce umana e perciò inade- guata, confusa, tanto è vero che nell’immaginazione religiosa la parola del dio si sporca in quella dell’uomo ma al tempo stesso la purifica, la sacralizza, la ventrelalia, invece, è paralogia, adorazione della parola del ventre, ove il borborigma dell’io intestinale, dell’io chiuso nell’es- sere senza altro, nell’essere senza esistere, nell’essere senza linguag-

gio, assurge al rango di voce divina prestata alla bocca del fantoccio, parola di escremento resa sublime dall’illusione ventriloqua, pseudo– sacralità. Laddove la ventrelalia riconosce un volto e una bocca dove non ve ne sono, contemporaneamente nega la bocca del volto altrui, del volto dell’altro, del volto esistenzialmente e fenomenologicamente tale. Si nega, per esempio, la bocca dell’animale. Tutti gli animali han- no un volto. Anche le piante hanno un volto. Tutto ciò che si muove e aspira alla vita, infatti, si protende verso l’esterno, e per ciò stes- so declama la sua incompletezza, la sua dipendenza, ma anche il suo amore. Tutto ciò che vuole nutrirsi per sopravvivere ha un volto. Non c’è niente di più sacro del volto del predatore, perché in esso si riflette il bisogno dell’altro da sé, dell’esterno. Tutto ciò che si muove lo fa perché intende nutrirsi, e tutto ciò che intende nutrirsi preda, e tutto ciò che preda diventa volto. Solo la roccia non ha volto, solo la cosa. Tutta la vita ha invece un volto, e tuttavia è più facile riconoscerlo nel- la figura della bocca, ossia di un pertugio che si apre esattamente per far entrare l’altro, per far entrare il mondo. Il predatore che spalanca le fauci dichiara con forza sublime la sua appartenenza all’essere. Il vegetale non ha una bocca che riconosciamo come tale, eppure non smette per questo di averne una, di partecipare dell’oralità della vita. In molti animali, poi, la bocca si apre per predare il mondo ma anche per trasformarlo. Per questo si apre la bocca dell’infante sin dal primo vagito, ma così pure si apre la bocca del lupo nell’ululato, o del pesce nel sommesso gorgoglio subacqueo. In questa bocca che si apre non per far entrare il mondo così com’è ma per renderlo altro da sé stesso c’è il primo barlume d’intenzionalità. Chi ha una bocca, nell’universo, è in grado di accedere al desiderio, alla potenzialità, a un mondo non solo ingerito materialmente ma ingerito intellettualmente, un mondo che non solo s’ingerisce ma nel quale s’ingerisce. Non riconoscere la bocca dell’altro significa estrometterlo dalla vera vita, dall’essere, dal linguaggio. Vedere la bocca della vita non significa smettere di deside- rarla, o d’integrarla, ma ricordarne la sacralità; ogni nutrimento è in realtà cannibalismo; tutto il vivente è cannibale; chi vive si ciba della bocca altrui, ma non in questo sta la colpa, bensì nel disconoscere la bocca, nel ridurre l’altro mangiato a cosa, quando invece bisognerebbe sacrificarlo, nel senso di riconoscere la sacralità della sua bocca.

VII. Parestesia: il senso nascosto della materia 191 7.5. Bocche

All’inverso, credere nella bocca del fantoccio, all’illusione del ventriloquo, significa profanare la vita, legittimare l’antropocentrismo arrogante, l’et- nocentrismo arrogante, l’egocentrismo arrogante, sdoganare tutti i di- scorsi della centrolalia, di una voce una parola un io che afferma la sua indipendenza dall’altro e perciò stesso non solo lo nega ma lo violenta. Se l’enunciato non può comprendersi che come ombra stagliata dalla luce del discorso sul fondo uniforme dello spazio, del tempo, e della perso- na, ovverosia l’istanza dell’enunciazione, allora lo scarto da questo fondo può sì essere arbitrario — nel senso che rimanda alla configurazione spa- zio–temporale e attoriale di un’ideologia linguistica e all’arbitrio, dentro di essa, dell’io parlante — eppure ciò non significa che questo scarto sia puramente simbolico; indessicalità dell’enunciato in quanto riferimento alle coordinate della parola è anche indicalità nel senso di riferimento per contiguità fisico–causale a un’istanza primigenia che nell’enunciato, in qualsiasi enunciato, si segnala. Dietro ogni enunciato non c’è solo un’i- stanza astratta costituita dal sistema di un pensiero linguistico, ma anche una bocca, un volto, un corpo che si aprono al mondo non per ingerirlo ma per ingerirvi. Per questo ogni enunciato è visivo, ovviamente non nel senso della sua sostanza espressiva, ma perché ogni atto di parola rimanda a un dischiudersi dell’essere nel linguaggio che è per ciò stesso volto, e che trova nella bocca la sua figura principale. Quando parlo, io sono volto. Quando scrivo, io sono volto. Quando taccio, io sono un volto che tace. Il senso è dunque sempre indicale, intendendosi con ciò che all’origine stessa della semiosi vi è l’apertura della bocca verso un mondo che non si esperisce come cosa ma come linguaggio, come cosa che potrebbe essere altro da sé. Questa cosa che potrebbe essere qualcos’altro è il linguaggio, e la bocca aperta sul mondo è la sua manifestazione più universale presso gli esseri viventi complessi, mentre in quelli più semplici essa si manifesta come mero movimento.

7.6. Scaturigini

È facile dimenticare il sottile filo indicale che lega ogni senso alla vita. È spontaneo ritenere che l’enunciato scritto sia lontano dalla voce, e dunque

dalla bocca, e dunque dalla figura che, nel volto, esprime l’apertura primi- genia al senso. Eppure se l’enunciato scritto ha un senso, se qualsiasi enun- ciato ha un senso, lo deve essenzialmente alla sussistenza di questo legame indicale, sia pur flebile, sia pure dissimulato. Non si può che plaudere alle speculazioni di chi, come Jacques Fontanille, ha ravvicinato l’intelligenza del sistema semio–linguistico alle sue origini corporee, in quanto senza tale prospettiva la semiotica diventa una pura disciplina d’inventario, che descrive e cataloga ma non spiega e, ciò che è peggio, non comprende ciò che spiega. Infatti, senza riferimento alcuno a questa scena primaria dell’essere che si fa linguaggio attraverso l’apertura del corpo al mondo, emergono nel pensiero semiotico aporie incolmabili. Come giustificare, per esempio, i confini del sistema rispetto al quale l’enunciato prende sen- so? L’istanza dell’enunciazione non può essere una mera negatività, una matrice speculare e invisibile dell’enunciato, perché in tal modo non po- trebbe essere invocata neppure per descriverlo, se non in forma illusoria e, in fin dei conti, tautologica. Dietro l’enunciato, invece, sia pure attraverso il filtro di un’arbitrarietà costituita nel senso comune semio–linguistico, giace una forza positiva, un universale, e chi ha paura degli universali ha paura della filosofia, ed è una paura colpevole, che miete molte vittime, giacché questo universale è l’unico possibile fondamento etico del senso. Un enunciato produce senso perché si staglia indessicalmente rispetto al suo sistema enunciazionale, ma questo non potrebbe neppure sussistere se non fosse portato indicale di una condizione più profonda e non arbi- traria, che è quella della cognizione primaria del mondo, della scaturigine dell’intenzionalità, dell’aprirsi del corpo come volto verso un esterno che giustifica l’insorgere stesso del senso, di un movimento dall’interno verso l’esterno.

Nel documento Scevà: Parasemiotiche (pagine 190-193)