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Cap. 2.1. Jean Piaget e la figura del bambino

Due furono, agli inizi del XX secolo, i principali metodi di studio su cui si basava l’intero sapere psicologico: da un lato la teoria psicoanalitica di Freud, fondata sul principio della sessualità, che aveva come scopo l’analisi dello sviluppo psicologico nonché sessuale dell’individuo in età infantile1, dall’altra la

corrente comportamentista, che si proponeva di mostrare i vari processi di apprendimento nella crescita del bambino2.

Ciononostante, il grande punto di svolta nello studio dello sviluppo vero e proprio, ossia quella branchia della psicologia incentrata prettamente sui mutamenti psico-emotivi e percettivi del bambino, si ebbe a partire dagli anni ’30 con Jean Piaget3, e la sua teorizzazione, decisamente innovativa, dello sviluppo

dei processi cognitivi in stadi ben definiti del periodo infantile4.

1 Nella nuova edizione dei Tre Saggi sulla teoria sessuale di Freud, pubblicata nel 1915, appare

una sezione intitolata “Le trasformazioni della pubertà”, in cui Freud espone la sua teoria sulla psicosessualità dell’individuo.

2 Sarà a partire dal 1920 che nel campo della psicoanalisi infantile si creeranno due approcci ben

distinti: uno più conservatore, promosso da Anna Freud, figlia del famoso psicoanalista e sostenitrice delle teorie sui meccanismi di difesa dell’Io, ed un altro più innovativo, fondato sullo studio delle «relazioni oggettuali», di Melanie Klein.

3 Nato in Svizzera, a Neuchâtel, Piaget fu piscologo, biologo, pedagogista e filosofo. Le sue teorie

circa lo sviluppo infantile costituirono i primi tra i modelli più importanti per i successivi studi della psicologia cognitiva, a partire dalla seconda metà del ‘900.

4

Nel suo scritto del 1952, Psicologia dell’intelligenza, Piaget sosteneva che esistessero quattro principali stadi di sviluppo nel periodo infantile. Il primo stadio è quello definito “senso-motorio”, nel quale il bambino comincia a conoscere la realtà circostante per mezzo i sensi, in particolare il tatto. Nel secondo, definito “pre-operatorio”, il bimbo inizierebbe a disporre gli oggetti seguendo un ordine logico, mentre nel terzo, l’”operatorio concreto”, apprende che ogni quantità è in grado di assumere diverse forme, e che quindi, il rapporto tra le due (quantità e forma) non è direttamente collegato. È nell’ultima fase, definita “operativo-formale”, che si sviluppano nel bambino il pensiero ipotetico e il ragionamento verbale.

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Fu proprio a partire da tale presupposto che gli studi di Piaget conobbero grande fortuna: egli non si soffermò esclusivamente sulle fasi dello sviluppo infantile, bensì postulò idee basate sul diretto rapporto tra bambino e adulto, nonché tra bambino e mondo esterno, attribuendo un ruolo attivo all’istruzione nella vita del soggetto5

.

In merito a simili considerazioni, sarebbe superfluo constatare il modo in cui il pensiero di Piaget costituì un capovolgimento radicale del modo in cui la figura dell’infante era stata concepita fino a quel momento. Per Piaget il bambino non era semplicemente da considerarsi un «adulto in miniatura»6, ovvero un

individuo indotto ad acquisire conoscenze di pari passo alla maturazione del suo corpo, piuttosto un soggetto destinato ad affrontare mutamenti piscologici, anche radicali, al fine di conseguire la maturazione.

Circa il modo di pensare del bambino e la sua interazione col mondo esterno, Piaget sviluppa un concetto di apprendimento come processo personale attivo, secondo il quale il bambino non risulterebbe inferiore all’adulto in fatto d’intelligenza, ma semplicemente “diverso” nel modo di comprendere e agire nei confronti del mondo esterno.

5 Altre importanti figure coeve nel campo della psicologia dello sviluppo si proposero di studiare il

rapporto bambino-adulto. Non pretendendo di essere esauriente, ritengo però valga la pena citarne alcune: Erik Erikson (1902-1994), il quale partì dalle teorie di Piaget, per poi identificare otto fasi dello sviluppo psicosociale, tra le quali include la nota “crisi d’identità” dell’adolescenza; l’americano Lawrence Kohlberg (1927-1987), che con i suoi studi sulla crescita del bambino individuò sei stadi dello sviluppo morale; John Bowlby (1907-1990), promotore della teoria dell’attaccamento, secondo cui i primi legami emotivi sono determinanti per i successivi rapporti umani dell’individuo, fino ad arrivare al contemporaneo Albert Bandura, psicologo precursore della “rivoluzione cognitiva” avvenuta a partire dalla seconda metà del ‘900, i cui studi sull’apprendimento sociale fondono elementi del pensiero di Piaget e del costruttivismo di Lev Vygotsky (1896-1934), del quale parlerò in seguito.

6 Dunia Pepe, La psicologia di Piaget nella cultura e nella società italiane, Milano, Franco Angeli,

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Nel caso dei neonati, ad esempio, Piaget inizialmente riteneva che il maggior impatto nei confronti del neonato l’avessero il linguaggio ed il contatto con i familiari o i coetanei; poi però si accorse che ciò che veramente poteva fare la differenza erano l’azione e l’attività d’interazione del bambino, concludendo perciò che l’azione era la fonte del pensiero nella fase natale del bambino.

In aggiunta, nei primi anni ’20, la sostanziale diversità delle risposte date dai fanciulli in vari test d’intelligenza eseguiti per Alfred Binet dimostrarono come l’interazione di questi ultimi avesse effettivamente influenzato il loro esito.

La conclusione di Piaget fu pertanto consequenziale: secondo la sua teoria i bambini non soltanto penserebbero in maniera diversa rispetto all’adulto, avendo una modalità d’interazione differente da quest’ultimo, ma, a seconda dell’età raggiunta, avrebbero anche tipologie di pensiero diverse.

A questo proposito, il lavoro dello psicologo svizzero costituì un importante punto di partenza per il cambiamento dei sistemi scolastici in America, a partire dagli anni ’70 e ’80. Il metodo scaturito dal pensiero di Piaget determinò infatti una trasformazione dal punto di vista didattico che prevedeva una focalizzazione maggiore sul bambino e sulle sue caratteristiche in quanto tale.

In altre parole, se dapprima l’obiettivo principale degli educatori era quello di trasmettere a quest’ultimo il pensiero ed il comportamento tipico dell’adulto, adesso sfruttano l’opportunità offerta dal proprio ruolo per invogliare i bambini a concepire nuovi modi e soprattutto, individuali, di pensare.

Sfruttare l’enorme potere dell’immaginazione e basare l’apprendimento su un concetto di creazione, di innovazione, abolendo il conformismo e il seguire le

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direttive imposte dai canoni prestabiliti dalla società; questi furono alcuni tra i più importanti cambiamenti del modo di concepire l’istruzione da parte delle istituzioni, seguendo l’influenza delle teorie di Piaget.

Gli educatori devono pertanto evitare di insistere su particolari modi di fare o capire dei bambini, seguendo una presunta sequenza canonica nell’ordine di apprendimento dei concetti; al contrario, devono concentrarsi sugli spontanei processi d’acquisizione di informazioni assolutamente soggettivi di ciascun bambino.

Di fatto, come affermato dallo stesso Piaget, la conoscenza è associabile ad una “struttura”, la quale a sua volta, rimanda ad un «sistema di trasformazioni, avente sue specifiche leggi»7, che diventa così progressivamente adeguato in base

alle caratteristiche del bambino e al suo sviluppo.

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Cap. 2.2. L’importanza dell’ambiente socio-culturale: Lev Vygotsky

«La parola “sociale” applicata al nostro oggetto ha un significato importante. Innanzitutto, come dice il significato più ampio della parola, significa che tutto ciò che è culturale è sociale. La cultura è il prodotto della vita sociale e dell’attività collettiva dell’uomo, e perciò la stessa posizione del problema dello sviluppo culturale del comportamento ci introduce immediatamente sul piano sociale dello sviluppo. […] Tutte le funzioni psichiche superiori rappresentano delle relazioni sociali interiorizzate, il fondamento della struttura sociale della persona. La loro composizione, la struttura genetica, il loro funzionamento, in una parola tutta la loro natura è sociale; persino trasformandosi in processi psichici la natura ne rimane sociale. L’uomo, anche preso isolatamente, conserva le funzioni della comunicazione»8.

Secondo lo psicologo russo Lev Vygotsky9, sarebbe la relazione

genitoriale il primo grande strumento per mezzo del quale il bambino inizierebbe a rapportarsi con il mondo esterno, sviluppando quindi le capacità di pensiero e ragionamento. Sarebbero le esperienze sociali quelle più formative, per mezzo delle quali l’individuo, a partire dall’età infantile, riuscirebbe a diventare ciò che era stato programmato per essere, a scoprire quindi il proprio “io”.

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Lev Vygotsky, Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, Milano, Giunti Editore, 1974, 2009, trad. di Maria Serena Veggetti, p. 212.

9 Lo psicologo russo, definito da Stephen Toulmin il “Mozart della psicologia”, nacque il 5

novembre 1896 in Bielorussia, figlio di ebrei benestanti. La sua concezione della psicologia dello sviluppo costituì uno dei modelli più rappresentativi della nota corrente del Costruttivismo, definito tale in quanto la conoscenza è vista come costruzione del vissuto individuale, piuttosto che il rispecchiamento di una realtà esterna. I suoi studi influenzarono enormemente i sistemi scolastici moderni e contemporanei, comportando di fatto l’applicazione di sistemi più incentrati sullo studente e le sue esigenze.

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Un ruolo di fondamentale importanza secondo Vygotsky era detenuto proprio dall’iterazione, dallo svolgere delle attività collettive, così come Piaget avrebbe poi affermato in una delle sue opere principali, pubblicata nel 1952, intitolata La nascita dell’intelligenza nel bambino10.

Da questo punto di vista, starebbe proprio all’adulto il compito di accompagnare il bambino nel suo percorso di crescita, seguendo i suoi stadi di sviluppo e aiutandolo così a sviluppare le sue capacità cognitive.

Di fatto, la teoria sviluppata da Vygotsky circa l’apprendimento infantile, denominata da lui stesso ZSP (Zona di Sviluppo Prossimale), servirebbe a spiegare il modo in cui il bambino sviluppi la sua conoscenza del mondo proprio grazie all’aiuto degli altri.

I processi cognitivi del bambino si attivano nel momento in cui egli interagisce con gli altri, stabilendo un rapporto di cooperazione, ad esempio con gli altri compagni; in questo modo viene indotto a riflettere sul proprio comportamento. Una volta che tali processi sono stati assimilati, il risultato evolutivo finisce per essere autonomo, avvenendo così in modo automatico.

Il ragionamento e il pensiero sono capacità cognitive innate individuali, e come tali devono essere sviluppate per mezzo di attività sociali. In questo senso per Vigotsky l’istruzione gioca un ruolo essenziale, in quanto colma di potere formativo.

10 In tale opera Piaget dimostrava come la stessa iterazione tra bambini, i quali esponevano i propri

talenti naturali nell’eseguire attività collettive, costituiva un importante mezzo attraverso cui essi sviluppavano le proprie capacità cognitive, nonché di elaborazione delle informazioni.

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Cap. 2.3. Il rapporto materno nella concezione di John Bowlby

Nel 1926, Sigmund Freud aveva presentato una teoria circa l’attaccamento dei neonati nei confronti degli individui che li accudiscono, definendola teoria dell’«amore interessato»11

. Il soddisfacimento dei bisogni fisiologici dei neonati sarebbe pertanto una naturale conseguenza di tale amore; questo il principale motivo per cui essi svilupperebbero in seguito i loro legami affettivi.

Dal punto di vista zoologico, Harry Harlow avrebbe successivamente studiato i vari problemi sociali sviluppati dai cuccioli di macaco quando separati dalle madri in tenera età. Tale prospettiva confermerebbe il concetto dell’esclusività del rapporto del piccolo con la madre, sia esso animale oppure umano.

Più tardi, nel 1935, lo zoologo nonché etologo Konrad Lorenz avrebbe dimostrato come gli stessi cuccioli del mondo animale stabilissero dei legami molto stretti con il primo soggetto in movimento percepito subito dopo la loro nascita.

Tuttavia, sarà soprattutto grazie a John Bowly12 e alla pubblicazione in tre

volumi dell’opera Attaccamento e perdita, del 1969, che comincerà a delinearsi la concezione vera e propria di “attaccamento” nella psicologia dello sviluppo.

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Secondo Freud tale fenomeno avverrebbe in situazioni di accudimento del piccolo, come l’atto di nutrirlo o il cullarlo.

12 John Bowlby nacque a Londra il 26 febbraio 1907, quarto di sei figli di una famiglia alto-

borghese. La sua infanzia, prevalentemente vissuta tra bambinaie, contribuì a renderlo partecipe delle problematiche legate all’attaccamento sviluppato dai bambini in tenera età. Dopo aver conseguito il diploma in psicologia al Trinity College di Cambridge decise di insegnare ai bambini affetti da problemi psichici. Prenderà parte alla Royal Army Medical Corps durante la Seconda guerra mondiale, dopodiché sarà nominato direttore alla Tavistock Clinic di Londra. Morirà, all’età di 83 anni, nella sua casa in Scozia, sull’isola di Skye.

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Per Bowlby infatti, i primi legami emotivi instaurati con i soggetti circostanti sarebbero determinanti per lo sviluppo della natura umana, esattamente come successivamente avrebbe confermato Michael Rutter13, nel 1978.

Tuttavia, Bowlby constatò l’esclusività del rapporto del bambino con la madre, asserendo che, nel caso in cui questo fosse venuto a mancare, si sarebbe verificato il cosiddetto fenomeno della «psicopatia anaffetiva» nelle future relazioni stabilite con il mondo esterno, con la conseguente incapacità di stringere rapporti interpersonali significativi da parte del bambino14.

In definitiva, l’attaccamento sviluppato dal bambino nei riguardi della madre è non casualmente inteso come primario, poiché, di fatto, risulta essenziale per il successivo sviluppo di tutti gli altri rapporti intrapresi dal soggetto.

In questo modo, potremmo altresì asserire che il legame materno funge a tutti gli effetti da modello operativo, interno al nucleo familiare, per l’evoluzione cognitiva del bambino in rapporto all’universo adulto, nonché una solida base per la conoscenza del mondo.

Una concezione simile relativamente al rapporto del piccolo con la madre e all’importanza rivestita dal nucleo familiare nello sviluppo cognitivo e relazionale del bambino sarà quella elaborata dalla psicologa Mary Ainsworth, figura anch’essa estremamente rappresentativa dell’innovazione nel campo della psicologia dell’età evolutiva del XX secolo.

13 Michael Rutter è attualmente professore di psicopatologia dell’età evolutiva presso l’Institute of

Psychiatry del King’s College di Londra. La sua carriera include lavori nel campo epidemiologico, studi sull’autismo, sul DNA e sulla neuroimmagine. Grande rilievo dal punto di vista scientifico ebbe la sua teoria sullo sviluppo infantile, nella quale, come citato sopra, rivestiva estrema importanza l’ambito sociale, ossia i primi rapporti instaurati dai bambini con il mondo esterno, subito dopo la nascita.

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Non è un caso che in uno dei suoi studi condotti nel 1944, Bowlby avesse notato l’elevata percentuale di bambini affetti da tale psicopatologia nei casi in cui questi fossero stati separati dalle madri per un periodo maggiore di sei mesi, prima che essi avessero compiuto i cinque anni di età.

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Cap. 2.4. Una base sicura: il rapporto genitoriale secondo Mary Ainsworth

Un avanzamento fondamentale nella teoria dell’attaccamento infantile venne proposto dalla Ainsworth alla fine degli anni ’60, dopo ebbe avuto l’occasione di studiare da vicino il comportamento della tenera età infantile, lavorando peraltro a stretto contatto con John Bowlby.

Nel corso dei suoi esperimenti, Ainsworth notò come la presenza o l’assenza della madre potesse influire sul comportamento del neonato, adottando una procedura nota col nome di «strange situation»15. Tale situazione consisteva

nel far giocare il piccolo con individui estranei, facendolo interagire con essi all’interno di una stanza, dapprima in compagnia della madre e successivamente senza. Ciò che di fatto constatò Ainsworth fu che ciascun neonato rispondeva in modo diverso nel momento in cui la madre faceva ritorno nella stanza. Appurato questo fatto, Ainsworth poté dunque constatare che ciascun bambino esaminato presentava un diverso tipo di attaccamento in relazione alla figura materna16.

Non è un caso che la prima ad utilizzare l’espressione «base sicura» in riferimento al modello materno per il bambino sia stata proprio la nota psicologa, a seguito dei suoi esperimenti, compiuti per la maggior parte in compresenza di Bowlby; come anche asserito da quest’ultimo, in mancanza di una

15 David Shaffer, Social and Personality Development, Belmont, USA, Cengage Learning, 2009,

p. 144.

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A tal proposito Ainsworth denominò tre possibili situazioni di attaccamento vissute da ciascun neonato: l’«attaccamento sicuro», presente nella maggior parte delle situazioni, in cui il piccolo, restando sereno al ritorno della madre nella stanza, la considerava come riferimento per la conoscenza del mondo. L’altra situazione possibile si verificava nel caso in cui il bambino presentasse sintomi di stress tali da renderlo «ansioso evitante», ovvero capace di ricevere conforto sia dalla madre che da un eventuale estraneo. Infine, il terzo tipo di attaccamento che poteva essere vissuto dal neonato era quello in cui quest’ultimo si mostrava come «ansioso resistente», ovvero ostile al contatto con la madre al momento del suo ritorno.

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base materna forte e sicura, il bambino è destinato a sentirsi solo, nonché privo di radici.

Sfortunatamente, come mostrato dai numerosi studi effettuati in campo piscologico, numerosi sono i casi di deficit a livello comportamentale infantile, scaturiti non solo dall’eventuale assenza materna, ma anche da un nucleo familiare debole.

La “famiglia” dunque, sia essa costituita dalla sola madre o da più membri, ponendosi come un «sistema complesso, diversificato»17, mutevole nel

corso dei secoli e sempre più incline a variabili rappresentate da eventuali diversità etniche, sociali o politiche, resta la «prima cellula dell’organismo sociale»18, determinante per la sana crescita dell’individuo.

Relativamente all’importante ruolo giocato da essa, inevitabili sono state le discussioni affrontate da vari sociologi circa il ruolo dell’altra componente fondamentale nella crescita, ossia l’istruzione. Ambedue le dimensioni sono di fatto da deputare come necessarie e basicamente formative per lo sviluppo dell’individuo. La loro sinergia dovrà pertanto agire in modo responsabile, andando ad arricchire l’esistenza stessa del soggetto.

Successivamente, a partire dagli anni 2000, figure come Saverio Ordine hanno introdotto il concetto di lavoro sinergico delle due componenti, quella familiare e dell’istruzione, definendolo «patto educativo di corresponsabilità»19

.

17

Claudio Pirillo, Breve introduzione alla pedagogia della famiglia, 2ª ed., Claudio Pirillo, p. 18.

18 Ibid., p. 55.

19 Saverio Ordine, Il ruolo della famiglia nel processo educativo, Roma, Armando Editore, 2010,

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Riporto di seguito le parole usate dallo stesso autore, nel suo libro Il ruolo

della famiglia nel processo educativo:

«D’altra parte, sul piano filosofico-pedagogico, tale concezione concorda pienamente con quella di coloro che ritengono siano sempre e soltanto gli uomini, in quanto esseri dotati di logos e paideia, ad agire in maniera educativa per l’educazione e non le pratiche istituzionali, organizzative e tecniche che costituiscono i cd. Dispositivi pedagogici, che non sono altro che sistematici procedimenti attivati dall’uomo che mai devono diventare del tutto irresistibili al suo controllo e capaci di soggiogare le sue potenziaità. In tal senso, dunque, il Patto di corresponsabilità deve diventare un accordo educativo tra famiglia, studenti e scuola, intesa non tanto in senso istituzionale quanto come comunità di soggetti che cooperano alla formazione totale degli alunni sia dal punto di vista strettamente istruttivo che da quello educativo»20.

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CAPITOLO 3

UNO SGUARDO SULL’INFANZIA NELLA LETTERATURA TRA OTTO

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