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Come si vede alla stregua della sintetica esposizione che precede, l'argomentazione in ordine all'obbligo di porre in essere il sistema di rilevazione e spegnimento di cui si discute è copiosa, dettagliata, basata su temi diversi, tra loro coerenti e tutti convergenti nella direzione indicata dalla prospettazione accusatoria. La tesi è supportata con sovrabbondanza. Invero, la pronunzia propone dati di lineare e chiaro rilievo che possono essere così sintetizzati.

Nello stabilimento esisteva una diffusa rete di tubi flessibili di gomma rivestiti con reti in acciaio, con olio ad alta pressione. Essi non erano strutturalmente protetti contro aggressioni termiche significative o di altro genere e costituivano quindi fonte di uno specifico, potente rischio poi concretizzatosi: quello del

cedimento con conseguente vaporizzazione dell'olio e determinazione del micidiale fenomeno del flash fire. Il pericolo era evidente, noto al sapere scientifico e tecnologico dell'epoca, ben presente ai responsabili dell'azienda per via dei segnali e delle indicazioni di cui si è detto. Tale rischio andava governato attraverso diversi strumenti: manutenzione delle tubazioni; installazione di impianto di rivelazione e spegnimento automatico degli inneschi di fiamma; formazione del personale sullo specifico rischio; approntamento di strumenti di spegnimento appropriati alle caratteristiche del fenomeno. Lo strumento principe era

costituito, come si è visto, dall'apparato di cui si discute, considerata la situazione di scadimento di tutti gli altri fattori di sicurezza verificatasi a seguito della decisione di trasferire gli impianti e di bloccare gli investimenti sulla sicurezza. Esso non venne realizzato a seguito di una precisa scelta aziendale, che aveva riservato la realizzazione dell'apparato ad un momento successivo al trasferimento dell'impianto in Terni. A fronte di tale nitido, composito, copioso nucleo argomentativo le difese espongono critiche che non affrontano né confutano la tesi con argomenti frontali e risolutivi, tali da inficiarne la tenuta. Si preferisce prendere di mira singoli asserti, tentando di contrastarli; spesso sollecitando impropriamente questa Corte di legittimità alla riconsiderazione del merito. L'eventuale successo di alcuna di tali censure non

vulnererebbe il cuore della ponderazione sopra esposta. Per esemplificare e vero che in alcuni passaggi della sentenza si parla di flash fire al plurale ed in altri si fa riferimento ad uno specifico episodio, ma non si vede proprio come tale divergenza possa in alcuna guisa vulnerare la poderosa argomentazione; visto che un evento del genere è ben idoneo a conferire speciale concretezza ad un rischio peraltro tipico,

macroscopico, arcinoto al sapere scientifico e tecnologico. Oppure, che si parli di manicotti o flessibili quali punti fragili del sistema, nulla di significativo cambia nel cuore della ponderazione espressa dalla Corte di merito; posto che tali elementi vulnerabili e pericolosi della rete oleodinamica pacificamente esistevano. 4.1. Come si è visto, la discussione critica si è incentrata sull'esistenza di un obbligo giuridico. Essa è peraltro basata su un fraintendimento di fondo che va dissolto. In generale, quando si parla di cautele da approntare per fronteggiare un rischio si fa riferimento ad un obbligo giuridico e non solo meramente morale o sociale. Peraltro, tale obbligo giuridico non sempre trova la sua fonte diretta in un asserto

normativo. Il presente dell'esperienza giuridica mostra contesti di rischio oggetto di una articolata disciplina di settore: la sicurezza del lavoro e la circolazione stradale ne costituiscono gli esempi più noti. Si tratta di corpi normativi che dettano regole plurime, spesso dettagliate. Tali normative hanno importante rilievo, contribuendo significativamente a conferire determinatezza all'illecito colposo ed a concretizzare quindi, nello specifico contesto, il principio di legalità. Esse, tuttavia, non possono certamente esaurire ed attualizzare tutte le possibili prescrizioni atte a governare compiutamente rischi indicibilmente vari e complessi. L'inadeguatezza deriva da un lato dalla varietà delle situazioni di dettaglio, che non consente di pensare ad una normazione direttamente esaustiva; e dall'altro dal continuo sviluppo delle conoscenze e delle tecnologie, che rende sovente inattuali le prescrizioni codificate. Per questo la normativa cautelare ha bisogno di essere integrata dal sapere scientifico e tecnologico che reca il vero nucleo attualizzato della disciplina prevenzionistica. Per tale ragione il sistema, come correttamente esposto dalla Corte di merito, prevede che ciascun garante analizzi i rischi specifici connessi alla propria attività; ed adotti le conseguenti,

appropriate misure cautelari, avvalendosi proprio di figure istituzionali, come il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che del sapere necessario sono istituzionalmente portatori. Correttamente si è parlato al riguardo di autonormazione: espressione che ben esprime la necessità di un continuo

autoadeguamento delle misure di sicurezza alle condizioni delle lavorazioni. L'obbligo giuridico nascente dalla attualizzata considerazione dell'accreditato sapere scientifico e tecnologico è talmente pregnante che è sicuramente destinato a prevalere su quello eventualmente derivante da disciplina legale incompleta o non aggiornata.

4.2. La Corte di cassazione (Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105) del resto, ha avuto recentemente modo di pronunziarsi proprio sul tema del ruolo del sapere scientifico e tecnologico nel conformare l'obbligazione cautelare e nell'orientare il giudizio sulla colpa demandato al giudice. Si è rammentato che l'evocazione di tali conoscenze, spesso condensate in qualificate linee guida, ha a che fare con le forti istanze di determinatezza che permeano la sfera del diritto penale. Occorre partire dalla

considerazione che la fattispecie colposa ha necessità di essere eterointegrata non solo dalla legge, ma anche da atti di rango inferiore, per ciò che riguarda la concreta disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo. La discesa della disciplina dalla sfera propriamente legale a fonti gerarchicamente inferiori che caratterizza la colpa specifica,

contrariamente a quanto si potrebbe a tutta prima pensare, costituisce peculiare, ineliminabile espressione dei principi di legalità, determinatezza, tassativita. La fattispecie colposa, col suo carico di normatività diffusa, è per la sua natura fortemente vaga, attinge il suo nucleo significativo proprio attraverso le precostituite regole alle quali vanno parametrati gli obblighi di diligenza, prudenza, perizia.

Tuttavia, è illusorio pensare che ogni contesto rischioso possa trovare il suo compiuto governo in regole precostituite e ben fondate, aggiornate, appaganti rispetto alle esigenze di tutela. In tali situazioni si rivela il pericolo che il giudice prima definisca le prescrizioni o l'area di rischio consentito e poi ne riscontri la possibile violazione, con una innaturale sovrapposizione di ruoli che non è sufficientemente

controbilanciata dalla terzietà. Se ci si chiede dove il giudice, consumatore e non produttore di leggi scientifiche e di prescrizioni cautelari, possa rinvenire la fonte precostituita alla stregua della quale gli sia poi possibile articolare il giudizio senza surrettizie valutazioni a posteriori, la risposta può essere una sola: la scienza e la tecnologia sono le uniche fonti certe, controllabili, affidabili. Traspare, così, quale interessante rilievo abbia il sapere extragiuridico sia come fonte delle cautele, al fine di conferire determinatezza alla fattispecie colposa, sia come guida per l'appezzamento demandato al giudice.

Tale ordine di idee trova puntuale conferma in una corretta lettura del più volte richiamato d.m. del 1998. Il documento va esaminato considerando in primo luogo che l'allegato I, costituente una delle sue

componenti più importati, afferente alla valutazione dei rischi, viene espressamente definito come "linee guida". Le linee guida, come esplicitato diffusamente dalla richiamata sentenza Cantore costituiscono nulla altro che sapere scientifico e tecnologico qualificato e reso disponibile in forma chiara, condensata,

codificata, per orientare agevolmente le scelte affidate ai soggetti gestori di un rischio. Come tale l'allegato va letto. E' allora interessante notare che vengono esemplificativamente indicati come combustibili o infiammabili i prodotti chimici infiammabili da soli o per reazione, nonché i derivati del petrolio. Al contempo vengono individuate le sorgenti di innesco: tra l'altro e sempre esemplificativamente, la

presenza di scintille da saldatura, attriti, fonti di calore. Il comma 1.4.4. di tale allegato indica alcuni luoghi con rischio di incendio elevato: tra l'altro siti con presenza di materiali infiammabili nei quali vi è elevata probabilità di sviluppo e propagazione delle fiamme. Orbene, è agevole cogliere nello stabilimento torinese caratteristiche corrispondenti ai fattori di rischio indicati. Vi erano, infatti, elevate quantità di olio di laminazione, anche imbevuto in carta interspira, ed idraulico. Quest'ultimo, poi, era diffuso in tubature che percorrevano l'intero impianto e che, come si è ripetutamente posto in luce, non erano protette. La verificazione di principi di incendio era inoltre ricorrente, quotidiana, come pure si è visto. Le fonti di

innesco erano altrettanto evidenti: le procedure di saldatura dei nastri con conseguente produzione di scintille; gli attriti ricorrenti, determinati, tra l'altro, dal non corretto avanzamento dei nastri di acciaio e dal conseguente urto contro le strutture della linea. Non vi è dubbio che le indicate linee guida definissero la linea APL5 come un sito ad alto rischio. Corretto appare quindi il richiamo alla lettera C del richiamato comma 1.4.4., che testualmente afferma che «nei luoghi di lavoro grandi o complessi è possibile ridurre il livello di rischio attraverso misure di protezione attiva di tipo automatico quali impianti automatici di spegnimento, impianti automatici di rilevazione di incendi». Tutto ciò anche a prescindere dal pure

invocato allegato IX che, sempre esemplificativamente, indica i luoghi di cui agli artt. 4 e 6 del d.P.R. n. 175 del 1988 e successive modifiche come siti ad alto rischio.

Conclusivamente, nessun errore logico o giuridico inficia l'apprezzamento dei giudici di merito in ordine alla rischiosità del sito ed alla necessità dell'impianto di spegnimento di cui si discute, tanto più in una

situazione di scadimento degli altri strumenti di cautela per la prevenzione degli incendi. 5. L'art. 437 cod. pen. e le condotte individuali.

La pronunzia, dopo aver argomentato in ordine all'esistenza dell'obbligo di cui si discute, dimostra che, nonostante la consapevolezza della sua necessità, la dirigenza ed i tecnici dell'azienda deliberarono consapevolmente di installare l'impianto antincendio solo dopo il trasferimento della linea a Terni. Alla realizzazione di tale impianto era destinato l'importo di 800.000 euro iscritto negli atti contabili. Si confuta la tesi difensiva prospettata dall'amministratore delegato secondo cui la somma in questione era destinata alla sostituzione dei coperchi in plastica nella zona di decapaggio. Essa è decisamente contrastata da acquisizioni documentali. In primo luogo un documento del marzo 2007 proveniente dal WGS poneva in luce l'ottima resistenza chimica dei coperchi in plastica e la conseguente necessità di mantenerli

aggiungendo sistemi di spegnimento sprinkler per minimizzare i danni in caso di incendio. Inoltre, l'ultimo progetto di spesa dei fondi straordinari risalente all'ottobre 2007 prevede la cifra di 800.000 euro da spendere entro giugno 2008 per soddisfare le segnalate esigenze di sicurezza attraverso il ridetto impianto antincendio. Pure la corrispondenza interna tra funzionari e dirigenti fa riferimento alle modifiche da apportare dotando la sezione di ingresso della linea dell'apparato in questione. Secondo la Corte, il contenuto di tali documenti non potrebbe essere più netto nell'indicare che i tecnici dell'azienda avevano tenuto conto delle indicazioni dell'ing. Ri. del WGS: non intendevano sostituire le parti in plastica bensì installare anche nella zona di ingresso impianti di rivelazione e spegnimento automatici.

D'altra parte, si argomenta ancora, se la somma fosse stata destinata effettivamente alla sostituzione dei coperchi e di tubazioni varie la loro immediata realizzazione nella sede di Torino non avrebbe comportato alcuno spreco, giacché le innovazioni avrebbero potuto essere trasferite tal quali nella sede di Terni. La conclusione, secondo i giudici d'appello balza agli occhi con evidenza: il risparmio sulla linea non fu che uno dei tanti che vennero realizzati da parte di tutti i garanti della sicurezza.

Nessun vizio logico si scorge in tale documentato argomentare; e le censure difensive si limitano a riproporre pedissequamente argomenti che la pronunzia ha già persuasivamente confutato.

Quanto alle posizioni soggettive, si considera che tutti gli imputati furono destinatari di plurimi avvisi e delle informazioni dai quali discendeva l'attualità dell'obbligo di installare la protezione secondaria. Tutti

cooperarono nel differire tale imprescindibile adempimento ad un'epoca successiva. In primo luogo l'amministratore delegato, approvò un documento di valutazione dei rischi nel quale l'impianto in questione non era indicato; e si determinò a far slittare la spesa ad epoca successiva al trasferimento in Terni. P.G. e Pu. M.non segnalarono in sede di board e di approvazione dei documenti contabili da inoltrare alla casa madre la necessità di realizzare l'opera che era stata loro illustrata anche tecnicamente. M.D. non segnalò la necessità di approntare immediatamente a Torino tale protezione, ma anzi consigliò

C.C. formarono il documento di valutazione dei rischi in modo che non indicasse tale impianto come misura da realizzare.

La piena consapevolezza da parte di ciascun imputato del dovere di installare l'impianto di protezione e l'altrettanto piena intenzionalità di farlo slittare permettono di ricostruire senza margini di dubbio l'elemento soggettivo doloso che sorreggeva per ciascun imputato la rispettiva condotta omissiva. Dunque si configura per tutti la fattispecie dolosa contestata.

Anche qui l'argomentazione è stringente, basata su acquisizioni plurime ed altamente significative; ed immune da vizi di sorta. L'omissione di cui si discute accompagnata dal differimento del progetto

dell'impianto fu frutto di una determinazione concertata, cui tutti gli imputati diedero il loro consapevole, doloso contributo. Le censure difensive non tengono sufficientemente conto di tale argomentazione; si limitano ad enunciazioni che risultano in massima parte acriticamente ripetitive di prospettazioni già persuasivamente confutate dalla Corte di assise di appello. Il punto è che qui come in tutti gli altri snodi critici della vicenda si è in presenza di condotte di cooperazione, dolose o colpose; come sarà più

diffusamente esposto nel prosieguo. Per ciò che attiene alle posizioni di P.G. e Pu.M., rileva in particolare il ruolo dì componenti del board e partecipi delle decisioni sulla vita aziendale e dunque, anche delle scelte che riguardavano il differimento delle spese prevenzionistiche come quelle afferenti all'impianto di spegnimento. Il ruolo del board e dei ricorrenti sarà meglio chiarito, per ciò che attiene alle premesse di fatto delle valutazioni giuridiche, alla stregua di quanto sarà esposto più avanti.

6. L'art. 437 cod. pen. e le aggravanti.

Quanto al nesso causale tra la condotta di cui all'art. 437 cod. pen. e gli eventi aggravanti costituiti dall'incendio e dalle lesioni e morti, la pronunzia rammenta che nei reati omissivi la verifica del nesso di causalità è regolata dal criterio della ricostruzione controfattuale in termini di un elevato grado di

credibilità razionale. Si dà atto che le difese hanno obiettato che non è dimostrato che un impianto di tale genere si attivasse prima che l'incendio assumesse vaste proporzioni o gli operai si avvicinassero ai flessibili esponendosi al flash fire. A tali obiezioni si risponde che l'efficienza dei sensori costituisce problema tecnico per nulla insuperabile e d'altra parte, ai sensi del d.m. del marzo 1998, l'allarme va sempre ricollegato agli impianti di spegnimento sicché non si dà il problema di una inefficacia complessiva del sistema dì

sedazione. Anzi, proprio il collegamento doveroso fra allarme e spegnimento automatico avrebbe

modificato sostanzialmente il comportamento degli operai, i quali non sarebbero stati più chiamati, come da piano di emergenza, a sedare le fiamme, avrebbero confidato nell'effetto estinguente dell'impianto e così avrebbero avuto come unica azione da intraprendere quella dell'allontanamento immediato dalla zona. Ciò permette di ritenere non solo probabile ma ragionevolmente certo che essi non si sarebbero esposti al rischio di venire investiti dal fuoco. L'aggravante è quindi integrata.

La pronunzia risponde pure alle censure difensive volte a dimostrare che le misure prevenzionali in

questione non avrebbero potuto essere tempestivamente ultimate in considerazione del tempo necessario per la loro realizzazione. Tale tesi viene confutata. A tale proposito si obietta che una maggiore diligenza avrebbe dovuto indurre i garanti italiani ad attivarsi già all'indomani dell'incendio tedesco del giugno 2006. Inoltre, almeno dal febbraio 2007 la dirigenza aveva iniziato ad operare con due diverse velocità sul Terni e Torino, indicando intenzionalmente le somme destinate allo stabilimento subalpino in modo

strumentalmente generico in vista del loro già deciso slittamento ad altri momenti. Inoltre, i fondi stanziati avrebbero potuto essere spesi a Torino nel corso del 2007 in uno qualsiasi dei settori tradizionali che invece furono abbandonati, come la pulizia, la manutenzione, la formazione del personale, la dotazione di mezzi di protezione. Tutti tali fattori entrarono nella serie causale dell'incendio e in ciascuno di tali settori l'impiego dei fondi sarebbe stato semplice ed immediato senza alcuna necessità di lunghi tempi di attuazione, come avvenne a Terni, ove già all'indomani dell'incendio tedesco si dotarono gli operai di estintori a lunga gittata

(che a Torino avrebbero salvato la vita delle vittime) e si sostituì l'autobotte.

Le problematiche causali vengono affrontate pure in altra parte della sentenza. Nell'esaminare le scelte dilatorie di E.H. ed il ruolo fondamentale di tale personaggio, la sentenza considera che non ha pregio l'osservazione difensiva che fa notare come i tempi di realizzazione degli impianti di protezione sarebbero stati così lunghi da recidere qualunque nesso causale fra la loro mancata adozione e gli eventi. Innanzitutto, la strategia dell'imputato di slittamento dell'utilizzo dei fondi straordinari partì già a febbraio 2007, in perfetta continuità con tutti i ritardi di realizzazione degli impianti concordati con i vigili del fuoco, sicché il tempo di realizzazione delle prevenzioni rispetto allo smontaggio della linea APL5 sarebbe stato di ben un anno. In secondo luogo si osserva che i fondi avrebbero potuto essere utilizzati, come lo furono per Terni, anche in protezione primaria, urgente e di facile realizzazione secondo M.D. ; che certamente avrebbe avuto le sue ricadute positive potenziando la pulizia, la manutenzione e la formazione, altrettanto importanti rispetto all'installazione di un sistema di spegnimento automatico.

L'argomentazione critica in ordine all'incompatibilità tra i tempi tecnici per la realizzazione dell'impianto e l'evento è stata ripresa in alcuni dei ricorsi in esame.

La pronunzia e, in effetti, vulnerabile per ciò che attiene alla dimostrazione della sicura, esclusiva relazione causale condizionalistica tra l'omessa installazione dell'impianto di rilevazione e gli eventi lesivi. La

questione ha interesse ai fini della configurazione delle circostanze aggravanti di cui al capoverso dell'art. 437 ed afferenti alla causazione di un incendio e di un infortunio. Le criticità della sentenza sono sia di ordine fattuale che giuridico e traspaiono dal tenore della motivazione. Il tema richiede, tuttavia, una complessiva disamina delle problematiche causali presenti nel processo.

7. L'art. 437 cod. pen. e le problematiche causali.

Secondo i giudici di merito l'ambiente di lavoro era fortemente degradato. Lo stabilimento era sporco a causa delle presenza di olio idraulico e di laminazione, nonché di carta interspira, sostanze altamente infiammabili. Le operazioni di pulizia dell'ambiente non erano appropriate. I mezzi e le procedure di spegnimento del fuoco non erano adeguati e comunque parzialmente inefficienti. La manutenzione era carente. La formazione antinfortunistica ed antincendio era progressivamente scaduta. Tale situazione, si assume, emerge da numerose fonti testimoniali nonché dall'ispezione compiuta dalla ASL dopo il sinistro, che rilevò ben 116 violazioni mai contestate.

La causa prima di tale situazione viene individuata nella decisione di chiudere l'impianto, a causa della sua dimensione "subcritica", maturata da tempo ma attuata nel 2007. Al momento dell'incidente, come si è già accennato, era in corso il trasferimento degli impianti in Terni. Tale decisione fu accompagnata dalla cessazione degli investimenti nel 2006, che ebbe rilevanti e progressive ricadute sui diversi fattori che assicurano la sicurezza delle lavorazioni. Lo stato delle cose emerge, rammenta ancora la Corte torinese, oltre che dalla richiamate fonti testimoniali, da un'ispezione della ASL nel settembre 2007.

In tale complessivo quadro la pronunzia impugnata segna alcuni dei plurimi fattori concausali che hanno