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La parola paesaggio è un termine molto denso di significati e può risultare ambiguo dato che si presta a varie definizioni. Il paesaggio implica uno scenario naturale da cui però non si può escludere l’elemento umano, è un insieme di molteplici fattori. Nell’articolo online dell’associazione culturale FAI (Fondo Ambiente Italiano) si legge che:

Per mettere un punto fermo alla definizione di paesaggio, il 20 ottobre 2000, a Firenze si è tenuta la Convenzione europea del paesaggio che ha finalmente stabilito una definizione ufficiale secondo la quale si intende come paesaggio: una determinata parte di territorio, così come è

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percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.

La Convenzione servì a prendere provvedimenti di riconoscimento e tutela del paesaggio tra gli stati comunitari. All’incontro di Firenze furono così tracciate politiche e obiettivi comuni e venne riconosciuta l’importanza culturale, ambientale, sociale e storica del patrimonio paesaggistico europeo.81

Dal punto di vista antropologico sono state fornite varie definizioni di paesaggio dagli studiosi che sono giunti a concordare sul ruolo dell’uomo come un soggetto che si trova in uno stato di relazione profonda con l’ambiente che lo circonda. Tim Ingold elabora un concetto “ecologico-relazionale” di paesaggio in cui l’individuo interagisce con esso e deve essere considerato come un “organismo” cioè: «un sistema aperto, generato all’interno di un campo relazionale che attraversa l’interfaccia con il suo ambiente», è «indivisibilmente corpo e mente, attivamente coinvolto nei compiti pratici della vita e alle prese con le componenti rilevanti del suo ambiente» (Ingold 2001:99, 69, 70). Nell’introduzione al testo di Ingold Ecologia della

cultura vengono spiegati brevemente due termini fondamentali “abitare” e “agire”:

L’idea di abitare (dwelling) viene usata da Ingold per indicare come un organismo sia sempre imbricato (embeded) nell’esperienza di essere un corpo specifico in un ambiente specifico. (…) L’esperienza dell’abitare non ha luogo inoltre senza l’agire, come modalità primaria di relazione col mondo (Grasseni e Ronzon in Ingold 2001:13).

Franco Lai nel testo Antropologia del paesaggio riprende le parole di Gèrard Lenclud che distingue due tipi di realtà che vengono identificate con il termine paesaggio; una realtà che definisce “obiettiva” cioè materiale, che indica uno spazio, e una realtà “oggettiva” poiché:

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Non c’è paesaggio senza osservatore; è necessario che un sito sia visto perché sia possibile definirlo un paesaggio […]. Il paesaggio è un luogo, ma un luogo isolato dallo sguardo; un sito, ma un sito contemplato; uno spazio, ma uno spazio inquadrato; un dato, ma un dato ricostruito da un’analisi visiva; un ritaglio del mondo, ma un ritaglio con un significato (Lenclud in Lai, 2004:27).

Aggiungerei che ogni luogo è una tessera di un puzzle, ogni pezzo che compone il mondo è insostituibile nella sua unicità e si unisce con quello affianco in modo perfetto per formare paesaggi che lo sguardo delimita. Il concetto di paesaggio osservato e del ruolo fondamentale del uomo come osservatore viene ripreso anche da Eugenio Turri (1998:13):

È evidente che ove mancasse l’uomo che sa guardare e prendere coscienza di sé come presenza e come agente territoriale, non ci sarebbe paesaggio, ma solo natura, bruto spazio biotico, al punto da farci ritenere che tra le due azioni teatrali dell’uomo, l’agire e il guardare, ci appaia come più importante, più squisitamente umana la seconda, con la sua capacità di guidare la prima.

Gli esseri umani sono agenti di mutamento importanti nel territorio, hanno il potere di creare, distruggere e rinnovare, possono decidere di rompere con il passato o mantenere un legame con gli antenati. Turri li considera attori, protagonisti della vita quotidiana e dei grandi fatti storici che hanno un impatto sul futuro. Siamo i protagonisti delle nostre vite e allo stesso tempo comparse in uno spettacolo in continua evoluzione che si svolge su un palcoscenico unico e meraviglioso, il mondo. Un mondo composto da elementi diversi tutti intrecciati tra di loro, un brulicare di vita che scorre come un fiume inarrestabile, un fiume che pian piano trasforma il territorio che attraversa. E come noi il paesaggio è soggetto e oggetto allo stesso tempo, viene modellato dal nostro agire e allo stesso tempo ci influenza in un eterno ciclo di coesistenza e

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simbiosi. La nostra percezione di ciò che ci circonda avviene attraverso i sensi del tatto, dell’udito, dell’olfatto e della vista, ed è quest’ultimo che spesso prevale sugli altri. Michael Jakob riassume in una semplice formula il concetto di paesaggio, che indica con la lettera “P”: P = S + N (Jakob 2009:30, 31). “S” indica il soggetto, “N” la natura e il “+” la relazione tra i due elementi, si ritorna quindi al concetto di una relazione duale esposto anche dagli altri studiosi. Jakob (2009:130) inoltre aggiunge una nuova caratteristica essenziale, quella della «spazialità aperta, caratterizzata tra l’altro dall’idea di orizzonte» e definisce il paesaggio come:

il risultato artificiale, non naturale, di una cultura che ridefinisce perpetuamente la sua relazione con la natura. Questo rinvia a un paradosso: l’esperienza del paesaggio è, in generale e in primo luogo, un’esperienza di sé. È importante quindi sia ciò che il soggetto percepisce sia l’atto di percepire in quanto tale. Il soggetto fa interamente parte del paesaggio che compone. (Jakob 2009:29)

La nostra identità è racchiusa e custodita in esso ed è assumendo il ruolo di spettatori che possiamo riscoprirla:

(…) nel paesaggio possiamo trovare il riflesso della nostra azione, la misura del nostro vivere ed operare nel territorio (inteso questo come lo spazio nel quale operiamo, ci identifichiamo, nel quale abbiamo i nostri legami sociali, i nostri morti, le nostre memorie, i nostri interessi vitali, punto di partenza della nostra conoscenza del mondo) (Turri 1998:15).

I paesaggi sono «particolari» nella loro essenza, «sono il riflesso d’una organizzazione dello spazio», un’organizzazione culturale propria di una specifica società e ognuna di esse lascia una propria traccia: «Ogni linguaggio con cui si esprime il paesaggio è alla fine il linguaggio della società che lo ha segnato, lo ha fatto proprio, lasciandovi il marchio del proprio passaggio» (Turri 2000:20, 4).

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(…) non tutte le complesse elaborazioni interne di una società trovano la loro proiezione nel paesaggio; ma è vero che il paesaggio racconta sempre una società, i suoi rapporti interni, le sue dinamiche demografiche, i suoi squilibri sociali, le proprie capacità tecniche, il proprio culto per la natura, e persino la propria fede religiosa, il suo modo di fare poesia, i propri modi di autorappresentarsi e rappresentare il mondo, ecc. Il paesaggio alla fine contiene tutto, tutte le verità che le società umane sanno iscrivere in esso e raccontare (Turri 2000:4).

Il paesaggio viene “umanizzato”, “culturalizzato”, viene impregnato di storie e di ricordi poiché l’uomo quotidianamente agisce e vive nel territorio:

Le attività umane s’iscrivono a poco poco nel paesaggio in modo che ogni roccia, ogni grande albero, ogni corso d’acqua e stagno diviene con il tempo un luogo familiare. Il paesaggio quotidiano attraverso il paesaggio prende così per l’uomo un carattere biografico che richiama alla memoria le tracce di attività e avvenimenti passati. Tutti i siti e i paesaggi fanno dunque parte della temporalità sociale e individuale della memoria (Tilley in Jakob 2009:125,126). Inoltre l’uomo da sempre interpreta e reinterpreta ciò che lo circonda tramite modalità e mezzi diversi. Lai (2004:33) scrive nel testo Antropologia del paesaggio che:

Un gruppo sociale plasma lo spazio, gli conferisce un ordine insieme materiale, geometrico e sociale, gli attribuisce significati simbolici ecc. Lo spazio è di volta in volta vissuto, immaginato, raccontato e appreso in molteplici modi. Così la stessa percezione dello spazio in cui si vive, il “senso dei luoghi”, si rivela nelle pratiche e nelle espressioni orali, musicali, iconografiche, con cui i luoghi si connettono alla memoria collettiva e personale (cfr. Feld, Basso, 1996, pp. 8, 11). Un elemento importantissimo di rappresentazione e definizione del paesaggio è la lingua. Tramite il linguaggio le conoscenze del territorio vengono elaborate e trasmesse, anche tramite favole, miti e racconti. Secondo Jakob (2009:22): «Il parlare-di-paesaggio nella quotidianità non è mai neutro, si iscrive piuttosto in un contesto linguistico specifico, inizialmente nazionale, poi regionale e individuale». Il dare un nome alle cose e ai luoghi è un

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atto di cultura fondamentale e assume un significato magico che coincide con l’azione degli uomini preistorici di rappresentare le proprie prede nella roccia. L’uomo, spinto dal suo desiderio di avventura, dalla curiosità e anche dalla necessità, ha esplorato il mondo venendo a contatto con nuove terre che sistematicamente nominava. L’assegnare un nome implica un senso di controllo e possessione. I luoghi vengono resi familiari e conquistati anche linguisticamente come vedremo successivamente nel caso della colonizzazione inglese in Irlanda.

Parola che si fa scrittura e che consegue anche sulla carta il suo obiettivo di trasmettere la bellezza e molteplicità del paesaggio, la cui storia viene a coincidere con quella delle persone che l’hanno abitato. Molti poeti e scrittori si sono cimentati nel cercare di esprimere sensazioni legate alla natura e ai luoghi, talvolta umanizzandoli. Le visioni di paesaggi diversi, familiari e non, vengono trasmesse non solo attraverso la parola ma anche tramite media come il cinema e il disegno:

In tutti i casi la pittura rientra nell’attività con la quale l’uomo si propone come spettatore del proprio mondo, che sa guardare e giudicare il paesaggio come teatro dell’agire umano nella natura, cercando di ricavarne un senso, un godimento o una lezione (Turri 1998:84).

Da mero sfondo nelle opere medievali e rinascimentali inizia a assumere un’importanza maggiore nelle opere di autori del XVII sec. ma:

Anche se il soggetto diventa il paesaggio naturale, privo di ogni presenza umana, è sottinteso che l’uomo è sempre presente, nascosto ma presente, come attore principale o unico; e il solo

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fatto di eleggere a palcoscenico uno scenario naturale basta per umanizzarlo, per farlo entrare nella cultura (Turri 1998:84).

Secondo Jakob (2009:73):

Le cose si complicano considerevolmente nel corso del XVIII secolo, quando le due forme del paesaggio, la rappresentazione pittorica e l’esperienza vissuta, cominciano a esistere l’una accanto all’altra. La poesia - sempre più intrisa di natura -, la pittura, l’arte dei giardini e l’esperienza vissuta si influenzano reciprocamente.

mentre «il XIX secolo è considerato da molti storici dell’arte l’apogeo della storia del paesaggio» (Jakob 2009:70). I canoni di bellezza cambiano nell’arco dei secoli e nuovi aspetti vengono apprezzati come ad esempio il “pittoresco”:

Corrisponde a ciò che attira a sé o per sé lo sguardo dello spettatore, l’effetto immediato che ha su di lui lo scorcio di natura (…). Sono pittoreschi: una vecchia torre in rovina nel mezzo di un sito bucolico, un cottage abbandonato, villaggi e sentieri solitari (Jakob 2009:92).

L’arte come specchio del desiderio umano di esplorare quel legame con l’ambiente che sembra affievolirsi sempre di più con l’espandersi del tessuto urbano e l’inarrestabile progresso tecnico e tecnologico. L’uomo non ha rappresentato solo l’ambiente che lo circonda ma anche realtà lontane nel tempo e nello spazio, ad esempio ha riprodotto in modo più o meno realistico i paesaggi rurali e urbani del passato e luoghi esotici che risultavano affascinanti per la loro diversità. Inoltre ha utilizzato il proprio potere immaginativo per creare visioni di possibili paesaggi del futuro o quelli di altri pianeti e realtà parallele.

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Dobbiamo tenere a mente che il paesaggio è composto da strati diversi che si sovrappongono, che ha una propria identità, una propria anima, una propria cultura che viene a coincidere con quella del popolo che lo abita:

The cultural landscape thus offers both identity and continuity – the living past in tangible form. Paul Vidal de la Blache showed that landscapes are ‘medals struck in the image of their people’. They are thus precious components of a nation’s identity, demanding the same respect and care as the more obvious expressions of that identity, like art and literature. As such, they can nourish fundamental social and psychological needs by providing a sense of continuity for modern people. They remain too, an enduring source of spiritual and artistic inspiration, stimulating creativity in our best artists and writers (Aalen 2011:30).

Tuttavia tempi umani e i tempi della natura non vengono a coincidere, la durata della nostra vita è un soffio rispetto al lento trasformarsi del paesaggio, le nostre sono tante piccole azioni compiute in attimi che si disperdono nel flusso della storia, atti che influenzano il futuro in gradi diversi. Il mondo è coinvolto in un processo di continuo e lento mutamento a cui partecipano le forze della natura come l’erosione. Inoltre bisogna tenere conto anche del ruolo dell’uomo come agente modificatore; con il progredire dello sviluppo tecnologico l’impatto degli esseri umani sul mondo è diventato sempre più incisivo. L’uomo non si affida quasi più alla forza delle sue braccia per modificare il paesaggio, il ruolo delle macchine è diventato sempre più preminente e specializzato. Il territorio è stato modificato in modo che si adattasse alle esigenze umane, l’obbiettivo era ed è quello di creare luoghi a misura d’uomo che spesso però vengono privati della loro identità mettendo in secondo piano o cancellando gli elementi naturali. Con lo svilupparsi delle società la distinzione tra centri abitati e il paesaggio naturale si fa sempre più

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evidente fino a giungere all’idea di una netta separazione fra ambiente urbano e campagna. Due mondi che nella nostra mente sono in antitesi ma il cui confina diventa sempre più sfumato, soprattutto a causa dell’espansione del reticolo urbano e la crescita dei villaggi rurali. Jakob (2009:129) sottolinea le due distinte temporalità della città e del paesaggio: «l’uno, lo spazio urbano, è totalmente segnato dal ritmo delle attività umane; l’altro, il paesaggio, è caratterizzato, indipendentemente dall’intervento dell’uomo nel territorio in questione, dal tempo della natura».

Con il procedere inarrestabile della modernizzazione e dell’inurbamento l’uomo perde il legame con i luoghi e le conoscenze trasmesse fin dal passato per poter sopravvivere in armonia con il territorio che abita, si ritrova a vivere in uno stato di alienazione e di distacco. Non sono più gli elementi del paesaggio a rendere un luogo familiare ma gli oggetti e i mobili della propria casa. Il confine all’interno dei quale ci si sente sicuri e perfettamente a proprio agio si restringe molto nelle zone urbane e viene a coincidere con la nostra dimora. Un luogo che spesso risulta ancora più isolato e separato dal contatto con il terreno se si tratta di un appartamento in un alto condominio o un grattacielo. Il contadino provava orgoglio per il proprio campo perfettamente arato ma come possiamo noi, abitanti delle città, sentire affetto per il supermercato davanti a casa? Mike, il mio secondo ospite, dice di sentirsi a casa non appena attraversa l’arco da lui creato potando gli arbusti che crescono ai lati della strada di accesso privata alla sua abitazione. Per noi inquilini dei palazzi sono i muri a delimitare il

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confine del “nostro spazio”, per lui la familiarità, il sentimento di abitare si estende all’orto, all’antica strada che passa per la sua proprietà e che cerca di mantenere pulita, al campo dove pascolano le pecore e a quello davanti alla sua casa. Quest’ultimo è un campo che non è suo ma che vorrebbe comprare, un ampio terreno dove si erge l’albero che tanto ama ammirare. Un altro aspetto di cui ci siamo privati è quello della percezione del trascorre delle stagioni, non solo a causa dei cambiamenti climatici ma anche dello stile di vita. Come possiamo apprezzare il loro susseguirsi se passiamo da un ambiente chiuso a un altro, se ogni tipo di frutta e verdura è a portata di mano durante tutto l’anno nei supermercati e se siamo troppo occupati nelle nostre attività per osservare i cambiamenti naturali nei pochi alberi rimasti?

Nelle città si vengono a creare “non-luoghi” che si contrappongono ai “luoghi”: «Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo» (Marc Augé 1996:73). Inoltre:

con «nonluogo» stiamo indicando due realtà complementari ma distinte: quegli spazi costituiti in rapporto a certi fini (trasporto, transito, commercio, tempo libero) e il rapporto che gli individui intrattengono con questi spazi. Se in larga parte e quantomeno ufficialmente i due rapporti si sovrappongono (gli individui viaggiano, comprano, si riposano), essi però non si confondono poiché i nonluoghi mediatizzano tutto un insieme di rapporti con sé e con gli altri che derivano dai loro fini solo indirettamente: se i luoghi antropologici creano un sociale organico, i nonluoghi creano una contrattualità solitaria (Augé 1996:87).

Augè (1996:36) include all’interno di questa categoria gli elementi caratteristici della «surmodernità», cioè la contemporaneità:

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I nonluoghi sono tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (strade a scorrimento veloce, svincoli, aeroporti) quanto i mezzi di trasporto stessi o i grandi centri commerciali o, ancora, i campi profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta.

Sono luoghi che divengono illeggibili, a cui non riusciamo più ad assegnare «significati precisi», da cui non possiamo ricavare «utili insegnamenti» (Turri 1998:130). L’individuo non ha più il controllo sul territorio in cui vive, è la società, il governo, il comune che regola e decide come agire:

Un tempo il contadino poteva, anche soltanto coltivando il suo podere o il suo campo, dare un diretto contributo alla formazione del paesaggio, alla sua identità; oggi le regole del modellamento paesistico sono sempre più dettate dalle politiche economiche, dai piani regolatori, dalle tecniche industriali, dalle logiche delle grandi società che operano tenendo conto, in maniera astratta, delle esigenze di un uomo medio, privato a viva forza del sentimento dell’abitare, prono in tal modo alla macchina produttiva e territoriale che il grande capitale sa imporre con le moderne tecniche di persuasione e con il bombardamento di messaggi emessi dalla televisione, dai giornali, dai mass media (Turri 1998:128).

Dal precedente testo di Turri e dal seguente di Lai (2004:46) diviene evidente la necessità di tenere conto che nelle società industriali l’aspetto politico ha una certa preminenza se si vuole studiare il paesaggio nella sua complessità:

(…) la questione della natura rivela profonde implicazioni politiche e culturali. Varie ricerche hanno messo in luce che il paesaggio si carica di senso politico in particolari situazioni. In certi casi è al centro di vere proprie strategie di «invenzione della tradizione», nel senso che a questa espressione è stato attribuito da Hobsbawm e Ranger (1987), diventando il simbolo di identità nazionali o locali. Spesso il paesaggio è al centro del confronto tra il potere politico e i gruppi sociali che lo contestano. Ancora i movimenti politici etnici e gli stessi Stati nazionali fanno di certe località il simbolo della propria cultura.

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Il territorio può essere quindi visto anche come mezzo tramite cui far valere i propri diritti e le proprie idee, un bene che viene strumentalizzato e che talvolta viene conteso e genera conflitti; conflitti che in passato come oggi possono portare a guerre combattute con armi fisiche o legali.

Le risorse del territorio sono molteplici e spetta all’uomo saperle sfruttare al meglio e in modo consapevole; non solo per quanto riguarda ciò che può ricavare materialmente, ad esempio prodotti agricoli e energia, ma anche l’aspetto culturale, storico e naturalistico che può diventare un bene da condividere con un pubblico più ampio per mezzo delle strategie turistiche. Secondo Lai (2004:126,127) i luoghi prescelti dai turisti sono «fortemente caratterizzati e originali»:

Sembrerebbe (…) che l’offerta turistica e ciò che i viaggiatori cercano nel viaggio non abbiano al fondo motivazioni casuali ma rispondono alla ricerca di “luoghi identificanti” fortemente caratterizzati in senso etnico, storico o ecologico (…).

Turri (1998:104) identifica lo straniero come uno spettatore che assiste alle performance degli abitanti locali. Questi sentendosi osservati tendono più o meno volontariamente a seguire un copione non scritto, che talvolta non coincide perfettamente con le pratiche abituali:

Lo sguardo dello straniero è sempre uno sguardo che rinnova e ricrea, che riscopre i paesaggi avvolti dalla polvere dell’ovvio e del quotidiano. È lo sguardo di uno spettatore, perché lo straniero in visita non può che essere spettatore disinteressato, non giustificandosi come attore evidentemente. Il suo sguardo, avvertito dagli abitanti, induce questi a comportarsi da attori in

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