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Integrazione cogente: il precetto imperativo ed inderogabile di buona fede ed i suoi riflessi sulla validità dell’atto

LA BUONA FEDE OGGETTIVA NELL’AMBITO DEL CONTRATTO

6. Integrazione cogente: il precetto imperativo ed inderogabile di buona fede ed i suoi riflessi sulla validità dell’atto

Alla luce di quanto sopra, è evidente che la vicenda evolutiva della buona fede ha inevitabilmente influenzato la stessa complessiva riflessione sul contratto, soprattutto in riferimento ai rapporti tra autonomia privata, la legge ed il ruolo del giudice nella risoluzione delle controversie contrattuali131. Il penetrante subingresso della buona fede in ambiti tradizionalmente riservati al programma pattizio appare oggi quasi un treno inarrestabile. Probabilmente per la stretta e sempre più forte influenza della normativa comunitaria attratta dallo stesso legislatore italiano, da cui si evince, come a breve vedremo, la necessità di proteggere il contraente più debole che subisce un contratto stipulato in situazioni di asimmetria negoziale.

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Si legge, in SACCO R.–DE NOVA G., Il contratto, in Tratt. dir. civ., Sacco R. (diretto da), Torino, 1993, 414, che l’esecuzione del contratto dovendo avvenire secondo buona fede «può presentarsi correttamente come una regola afferente ai nessi fra volontà contrattuale e regolamento contrattuale, alla pari con l’art. 1374; e la buona fede, in quest’ottica, viene ad essere una fonte eteronoma integrativa alla pari dell’equità». Si annoverano applicazioni concrete del principio di correttezza e buona fede. La casistica è ricca in materia di contratto di lavoro: Cass., sez. lav., 6 luglio 2007, n. 15275, secondo cui «il giudice di merito, quand’anche riconosce la nullità di alcune clausole contrattuali collettive, non può operare l’integrazione giudiziale del contratto (attraverso i principi di correttezza e buona fede) introducendo un regolamento di interessi diverso rispetto a quello che le parti sociali hanno raggiunto». Sempre in materia di diritto del lavoro, in riferimento all’espletamento di concorsi (Cass., sez. lav., 9 novembre 2001, n. 13922; Cass., sez. lav., 24 dicembre 1999, n. 14547); alla scelta tra più dipendenti da promuovere o licenziare in caso di licenziamento collettivo (Cass., sez. lav., 9 settembre 2000, n. 11875: «la correttezza evita che la discrezionalità si trasformi in arbitrio e si risolve nella trasparenza ed imparzialità dei criteri di valutazione dei requisiti dei singoli dipendenti, criteri sindacabili dal giudice in termini di ragionevolezza e congruità della motivazione»); in tema di trasferimento, sottoposizione a cassa integrazione, trattamento retributivo e malattia dei dipendenti anche di enti pubblici economici e di aziende municipalizzate (Cass., sez. lav., 7 novembre 2005, n. 21479, in Giust. civ. Mass., 2005, f. 7/8; Cass., sez. lav., 1 luglio 2005, n. 14046, in Giust. civ. Mass. 2005, f. 6.). Si è altresì fatto ricorso ai principi in esame in tema di società di intermediazione Cass., 7 aprile 2006 n. 8229, in

Dir. e giust., 2006, n. 46, f. 22; leasing finanziario, Cass., 29 aprile 2004 n. 8218; assegni circolari,

Cass., 7 luglio 2003 n. 10695, in Giust. civ. Mass., 2003, f. 7-8 e Cass., 21 dicembre 2002 n. 18240, Giust. civ. Mass. 2002, 2236.

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Per una disamina più approfondita della funzione della buona fede in campo contrattuale v. D’ANGELO A., Il contratto in generale. La buona fede, op. cit..

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Il processo di espansione del ruolo della buona fede ha fatto sì che si estendessero gli stessi confini del suo significato nonché il suo ambito applicativo. Difatti, la buona fede oggettiva, oltre ad essere fonte di integrazione del contratto, in quanto regola di condotta che i contraenti devono seguire, viene oggi analizzata alla luce di una prospettiva molto più ampia.

Le applicazioni della buona fede finora evidenziate hanno quale comune denominatore il fatto che la stessa rappresenta lo strumento per imporre ad entrambi i contraenti comportamenti che, anche non contrattualmente previsti, sono solidaristicamente doverosi per la tutela dell’interesse della controparte o persino di terzi.

Esiste, però, anche una dimensione nuova della buona fede quale clausola volta a limitare funzionalmente le pretese creditorie e, in generale, l’esercizio dei diritti. Invero, un diritto non è mai illimitato, con la conseguenza che la titolarità dello stesso non conferisce in nessun caso un potere incondizionato. Già nel codice civile vi sono norme che richiamano il c.d. abuso del diritto in tema per esempio di atti emulativi ex art. 833 c.c. e dalle indicazioni più recenti della dottrina e della giurisprudenza si evidenzia, in base ai principi di solidarietà e di buona fede oggettiva, che l’ordinamento nel momento in cui attribuisce un diritto, nel contempo ne stabilisce i propri limiti in funzione della ratio sottesa allo stesso: la posizione giuridica riconosciuta da una norma, consentirà, dunque, determinati comportamenti in quanto obbedienti alla ragione che giustifica la costituzione e la tutela della posizione stessa.

In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase132. Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.).

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Se il titolare di un diritto tiene comportamenti formalmente consentiti dalla legge ma le cui finalità perseguite sono per così dire “eccentriche” rispetto a quelle in funzione delle quali l’ordinamento ha riconosciuto quello stesso diritto (per esempio l’uso delle facoltà che la norma conferisce sia piegato a fini fraudolenti, abietti o capricciosi), l’esercizio del diritto è abusivo e pertanto non meritevole di protezione da parte dell’ordinamento133.

In concreto, dunque, si tratta di indagare come queste condotte debbano essere sanzionate, sul piano risarcitorio ovvero di inefficacia dell’atto compiuto. Questo determina che la presenza dell’abuso del diritto come forma di concretizzazione della mala fede contrattuale, imponga eventualmente un giudizio di validità dell’atto in modo da correggere un risultato che altrimenti apparirebbe ingiustificato e non equilibrato rispetto alla natura del rapporto voluto dalle parti. Per questo si è parlato di buona fede come norma di chiusura del sistema, perché esclude il rischio di considerare lecito ogni comportamento che nessuna norma giuridica vieta.

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Cass., S.U., 15 novembre 2007, n. 23726, ha ritenuto contrario a buona fede e correttezza il frazionamento dell’azione giudiziaria teso all’ottenimento dell’adempimento di un credito in giudizio. «È vero infatti che il creditore ha pieno diritto di agire in giudizio per poter riscuotere il proprio credito in caso di inadempimento da parte del proprio debitore ma è anche vero che egli non può abusare del diritto stesso. La buona fede, infatti, presiede ad ogni fase del rapporto obbligatorio, compresa quella giudiziale, cosicché il creditore anche nella fase patologica non può aggravare la posizione del debitore, alterando il giusto equilibrio degli interessi contrapposti. Infatti il frazionamento dell’azione giudiziale inciderebbe negativamente sul debitore «per il profilo del prolungamento del vincolo coattivo cui egli dovrebbe sottostare per liberarsi della obbligazione nella sua interezza, sia per il profilo dell’aggravio di spese e dell’onere di molteplici opposizioni (per evitare la formazione di un giudicato pregiudizievole) cui il debitore dovrebbe sottostare a fronte della moltiplicazione di (contestuali) iniziative giudiziarie». Nello stesso senso Cass., S.U., 23 ottobre 2008, n. 30055/30056/30057, in materia di elusione fiscale e abuso del diritto. Ancora Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in tema di recesso arbitrario. La Cassazione in questa circostanza ha reputato sindacabile l’esercizio del diritto di recesso riconosciuto dal contratto dovendosi valutare se l’atto di autonomia negoziale con cui si esercita il recesso non sia stato posto in essere con modalità tali da arrecare al destinatario un vulnus sproporzionato all’interesse perseguito dal recedente. Nell’ambito dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benché pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari. Così in Cass., 21 maggio 1997, n. 4538; Cass., 14 luglio 2000, n. 9321; Cass., 21 febbraio 2003, n. 2642. In ambito societario, la materia dell’abuso del diritto è stata esaminata con riferimento alla qualità di socio ed all’adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass., 19 dicembre 2008, n. 29776), ed al fenomeno dell’abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (Cass., 25 gennaio 2000, n. 804; Cass. 16 maggio 2007, n. 11258).

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Autorevole dottrina tempi addietro affermava che i principi della correttezza sono tra quelli «che debbono presiedere in ogni caso all’azione dei soggetti che vivono in uno stesso aggregato sociale134», sì che la normativa di correttezza si presenta come «l’intero sistema privato del lecito e dell’illecito e come tale non sembra che si possano segnargli dei confini135». L’operatività del principio dunque cambia in riferimento all’ambito legislativo di riferimento e alla fattispecie concreta in cui i soggetti agenti debbono rispettare il principio di buona fede mediante i comportamenti più disparati, attivi od omissivi, in relazione alle circostanze di attuazione del rapporto obbligatorio.

In senso ancora più esteso la buona fede oggettiva sembra operare come limite generale all’esercizio dell’autonomia privata assumendo la funzione di strumento di controllo della ragionevolezza e dell’equilibrio del contenuto contrattuale136. Questa visione evolutiva della buona fede si ispira sempre ai valori solidaristici riconosciuti e garantiti dalla costituzione, volti a temperare l’antagonismo tra gli interessi dei contraenti. Però, mentre per lungo tempo si è affermato che la regola di buona fede mai avrebbe potuto scontrarsi con l’autonomia privata nonostante il suo ruolo integrativo, in tal caso il riferimento all’equilibrio contrattuale sembra aprire al giudice la possibilità di proteggere interessi non contrattualizzati anche in pregiudizio di interessi convenzionalmente tipizzati ma contrastanti con il principio di lealtà e correttezza137. La buona fede diventa lo strumento principe di controllo per riportare ad equità contratti squilibrati ed ingiusti. Bene si comprende che una tale attività del giudice non è più suppletiva ma sconfina in un’integrazione cogente, in quanto prescinde dalla lacuna pattizia e si sovrappone

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FERRI G., Diritto agli utili e diritto al dividendo, in Riv. dir. comm., 1963, I, 412.

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ROMANO S., Voce Buona fede (dir. priv.), in Enc. Dir., V, Milano, 1959, 681.

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Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, «I principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione e nell’interpretazione dei contratti, di cui agli artt. 1175, 1366 e 1375 c.c., rilevano sia sul piano dell’individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti. Sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto o dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto».

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D’ANGELO A. – MONATERI P.G., Buona fede e giustizia contrattuale, in Diritto

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all’accordo esistente tra le parti disapprovato dall’ordinamento giuridico in virtù di principi e valori superiori rispetto a quelli strettamente individuali.

È corretto sottolineare, a stretto rigore normativo, che questa forma di integrazione viene riservata dall’ordinamento a strumenti differenti, quali appunto le norme di carattere imperativo, l’ordine pubblico ed il buon costume. In particolare una norma imperativa, intesa come parametro di illiceità del contratto può assolvere diverse funzioni. Una funzione meramente proibitiva quando vieta che il contratto non possa avere particolari caratteristiche, con la conseguenza che la violazione della norma determina la totale nullità del contratto (ex art. 1418, co. 1, c.c.). Esiste poi una funzione conformativa che consente di non travolgere con effetto caducatorio il contratto ma di modificarlo, mediante l’eliminazione dal regolamento contrattuale della clausola non conforme alla legge, che potrebbe in alcuni casi essere sostituita automaticamente con quella prevista dalla norma violata.

Ebbene, anche nel silenzio del legislatore, se da una compiuta analisi del nostro ordinamento la buona fede può essere considerata un principio superiore di natura imprescindibile, trovando applicazione anche qualora le parti non vi abbiano fatto menzione, nonché inderogabile, posto che le parti non vi possono rinunciare, in sostanza l’affermare che essa assume funzione integrativa cogente, ne fa discendere quale immediato corollario che ha carattere imperativo e che la sua funzione è quella di portare il contratto alla sua totale o parziale caducazione in caso di violazione, conformandone il suo contenuto in forza dei valori di correttezza e lealtà tra le parti.

In questo senso, il dovere di buona fede costituisce un «precetto rivolto ai singoli in quanto regola di comportamento e al giudice in quanto modello di decisione138». L’indeterminatezza del contenuto che fa della buona fede una clausola generale, come più volte specificato, è indispensabile in quanto solo in tal modo il giudice potrà pronunciarsi trovando la soluzione più aderente al conflitto di interessi tra le parti contrattuali. Il dovere generale di buona fede contrattuale ha quindi la funzione di colmare le inevitabili lacune legislative, posto che sarebbe impossibile prevedere casisticamente ogni fattispecie concretamente

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realizzabile nella realtà fattuale. Esso «realizza (...) la ‘‘chiusura’’ del sistema legislativo, ossia offre i criteri per colmare le lacune che questo può rivelare nella varietà e molteplicità delle situazioni della vita economica e sociale»139. In particolare, la buona fede costituisce «lo strumento per integrare, limitare, correggere il contenuto normativo dell’obbligazione, con riferimento alle esigenze poste dallo svolgimento di essa» 140.

Questa nuova prospettiva ha fatto vacillare quello che fino a non molto tempo fa appariva come un principio inattaccabile e dalle basi solide, ovvero il tradizionale principio di non interferenza tra regole di validità e regole di comportamento. La netta separazione tra questi due tipi di regole col tempo sarebbe andata incontro ad un «progressivo scolorimento»141. In particolare, la rigida dicotomia starebbe sbiadendo a causa di un graduale fenomeno di trascinamento della correttezza sul terreno del giudizio di validità dell’atto, atteso che la buona fede concorrendo con la volontà privata ad integrare il regolamento contrattuale, inciderebbe in definitiva sulla struttura dell’atto. La clausola generale di buona fede, sulla scia dell’ordinamento tedesco (§242 BGB), non sarebbe solo una fonte di integrazione del contratto idonea ad arricchire il contenuto del contratto incompleto, ma rappresenterebbe un vero e proprio limite dell’autonomia privata, tale da consentire l’adeguamento del regolamento negoziale all’interesse dei contraenti o persino a più generali esigenze di carattere sociale, al punto tale che la sua violazione potrebbe condizionare la stessa validità del negozio. Non si tratta solamente di ristabilire un equilibrio puramente economico tra le prestazioni dedotte in contratto, tra i vantaggi e gli svantaggi distribuiti in maniera sproporzionata tra i contraenti. La buona fede rappresentando il fondamento etico, sociale e solidale dell’ordinamento, per il tramite del giudice, rende il contratto conforme a “giustizia”. L’operazione è tutt’altro che semplice poiché essa si propone di indagare sulla ragione concreta giustificativa del contratto. È un’indagine che consente all’interprete di valutare quelli che sono gli interessi che i contraenti intendono soddisfare ponendo in

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GALGANO F., Diritto civile e commerciale. Le obbligazioni e i contratti, II, 1990, 462.

140

DI MAJO, Clausole generali e diritto delle obbligazioni, in Riv. crit. dir. priv., 1984, 539, ss..

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CAFAGGI F., Voce Pubblicità commerciale, in Dig. disc. priv., sez. comm., XI, Torino, 1994, p. 492.

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essere il negozio. Interessi che, si badi bene, potrebbero per scelta consapevole, cosciente e volontaria essere tra loro iniqui, pur nel rispetto del principio di buona fede, proprio perché frutto di due manifestazioni di volontà non viziate. Diverso, invece, quando per esempio taluno dei contraenti celi informazioni utili all’altra parte per comprendere il reale contenuto del negozio, al fine di ricavarne vantaggi ingiusti. Ecco che in questi casi, la condotta non è tale da integrare le ipotesi tipiche dei vizi del consenso ma è qualificabile come comportamento scorretto che mina comunque la bontà del contratto, il quale certamente non sarà più in grado di realizzare l’interesse che la parte in buona fede si era prefissata originariamente. Il contratto è ingiusto in quanto iniquo e non per scelta condivisa tra i contraenti ma a causa di una condotta scorretta di uno di essi.

A questo punto è lecito chiedersi se un contratto ingiusto nei termini suddetti si possa considerare al contempo valido. Il contratto, che rappresenta lo strumento principe di autoregolamentazione dei propri interessi, può avere validità se nel concreto non è in grado di soddisfarli?

Questo ulteriore passo avanti circa il ruolo della buona fede trova conforto su più fronti normativi.

Intanto l’introduzione dell’art. 1337 nel codice del 1942 ha dato nuovo impulso alla dottrina e alla giurisprudenza che ha rivalutato e meditato in maniera più accorta circa la giustizia contrattuale. La disposizione, affermando che “le

parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”, completa le previsioni legislative sulla buona

fede. Per la prima volta il legislatore ha previsto espressamente che le parti devono tenere un comportamento corretto nella fase di formazione del contratto, consentendo così di superare i dubbi sull’art. 1375 c.c., il quale sembrava imporre un contegno secondo buona fede solo nella fase di esecuzione del contratto e quindi solo nel periodo successivo al suo perfezionamento. In particolare la giurisprudenza di legittimità accoglie la tesi secondo cui l’art. 1337 c.c. ha valore di clausola generale ed impone alle parti il dovere di trattare con lealtà, astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti e mettendo in condizioni la controparte di conoscere ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipula del contratto. La violazione di tale

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obbligo di correttezza e buona fede durante le trattative e nella formazione del contratto assume rilevanza non solo in caso di rottura ingiustificata delle trattative ma anche nel caso in cui il contratto concluso, pur essendo valido, risulti pregiudizievole a chi è stato vittima del comportamento di malafede142. Nello specifico, poi, l’obbligo di lealtà reciproca imposto dall’art. 1337 c.c. comporta un dovere di completezza informativa sulla reale intenzione di concludere un contratto, sicché non è possibile legittimare la reticenza o la maliziosa omissione di informazioni rilevanti143.

L’evoluzione della buona fede è stata suffragata, inoltre, dagli interventi settoriali del legislatore diretti a proteggere la parte contrattuale debole contro l’eccessivo squilibrio delle condizioni negoziali, dando rilevanza alla buona fede e alla giustizia contrattuale ai fini della validità del contratto.

In proposito, si rammentano le norme in tema di diritti dei consumatori (D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206); di usura (L. 7 marzo 1996, n. 108), di subfornitura (L. 18 giugno 1998, n. 192); di interessi di mora nelle transazioni commerciali (art. 7, comma 2, del D.lgs. 9 ottobre 2002 n. 231); in materia bancaria e creditizia (art. 117, co. 6, del D.lgs. 1 settembre 1993, n. 385); in materia di intermediazione finanziaria (art. 122, co. 3, del D.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58); in materia di contratti di garanzia finanziaria (art. 8 del D.lgs. 21 maggio 2004 n. 170).

All’interno di queste specifiche discipline, per scelta legislativa, è possibile ravvisare ipotesi di contratto nullo o comunque inefficace qualora il suo contenuto risulti iniquo ed ingiustificatamente squilibrato a favore di una parte ed in danno dell’altra, a causa della violazione dell’obbligo di correttezza mediante condotte integranti abuso di una posizione egemone. L’art. 36 del Codice del consumo, ad esempio sanziona, con la nullità di protezione le clausole considerate vessatorie, ai sensi degli artt. 33 e 34 cod. cons., qualora creino un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto144. Nella specie l’ordinamento 142 Cass., 21 ottobre 2013, n. 23873. 143 Cass., 26 aprile 2012, n. 6526. 144

L’art. 33 cod. cons. dispone precisamente: “nel contratto concluso tra il consumatore

ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”. Ebbene, nonostante l’infelice espressione letterale dell’inciso «malgrado

la buona fede», la maggioranza della dottrina l’ha inteso come un rinvio alla buona fede oggettiva, oppure addirittura come un errore materiale per significare “in contrasto con la buona fede”. Cfr.

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sanziona la violazione della c.d. procedural justice, ovvero l’ingiustizia non del contratto in sé considerato ma in quanto frutto di una abuso perpetrato dalla parte più forte (il professionista) ai danni dell’antagonista più vulnerabile (il

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