LA BUONA FEDE OGGETTIVA NELL’AMBITO DEL CONTRATTO
1. Origine ed evoluzione storica del concetto di buona fede
La buona fede viene richiamata di frequente nel nostro codice civile come se il legislatore avesse voluto già sottolineare implicitamente la presenza nell’ordinamento di un principio superiore dal quale non si possa in alcun modo prescindere. È pur vero però che la nozione di buona fede utilizzata in riferimento a svariati fenomeni giuridici ha reso complessa l’individuazione del suo effettivo contenuto. Al riguardo dottrina e giurisprudenza si sono impegnate nel tempo al fine di comprendere se la buona fede, all’interno di dettati normativi anche molto differenti tra loro debba essere usata con accezioni diverse, tenuto conto anche della differente rilevanza che la stessa ha assunto nelle varie epoche storiche e culturali.
Tendenzialmente si ritiene di dover escludere l’unicità concettuale del suo significato. Difatti, quando la buona fede viene espressamente richiamata dagli artt. 1147, 1148, 1189, 1445 del codice civile attuale, esprime uno stato intellettivo o soggettivo della coscienza, secondo cui il soggetto è in buona fede quando manca la consapevolezza di ledere l’altrui diritto35
.
Diverso è invece il concetto di buona fede come criterio di valutazione della condotta dei contraenti nelle varie fasi contrattuali. Si rammenta l’art. 1337 c.c.
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SACCO R., La buona fede nella teoria dei fatti giuridici, Torino, 1949, 13. Applicazione diretta di tale nozione, letteralmente citata dall’art. 1147 c.c., si rinviene in diverse norme: l’art. 251, 535, co. 3, 1479.
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che, per la prima volta nella codificazione italiana, esplicita la buona fede in
contrahendo; l’art. 1358 c.c. che, in presenza di un contratto sottoposto a
condizione sospensiva, impone al contraente una condotta secondo buona fede, al fine di conservare le ragioni della controparte nel periodo di pendenza della condizione; l’art. 1366 c.c. che dispone l’interpretazione del contratto secondo buona fede; l’art. 1375 c.c. che esprime un dovere di correttezza nell’esecuzione del contratto; l’art. 1460 c.c. che, disciplinando l’eccezione di inadempimento, esclude che il contraente si possa rifiutare di adempiere qualora ciò sia contrario a buona fede. In tutti questi casi si discorre di buona fede in senso oggettivo in quanto essa non attiene, come la buona fede soggettiva, ad uno stato di conoscenza ma assume un valore “precettivo” di condotta socialmente apprezzabile. Il contraente, soggetto ad un obbligo comportamentale, è in buona fede se assume una condotta leale e corretta nei confronti dell’altro contraente già a partire dalla fase di formazione del contratto e per tutta la vita dello stesso36.
L’incertezza circa il contenuto della nozione di buona fede ha origini lontane. Nel diritto romano37 non esisteva propriamente la locuzione buona fede ma quella di fides38. Essa ne fu probabilmente il predecessore. A quel tempo l’uso della fides valeva non solo nei rapporti tra privati ma specialmente nelle relazioni tra i popoli ed evocava un concetto etico-sociale assai ampio e non unitario. Talvolta si estendeva al rispetto dell’impegno preso e della parola data, esprimendo un principio di eguaglianza tra i soggetti39; talaltra alla protezione nei confronti del soggetto più debole, implicando un rapporto non egualitario ma di predominanza e potere di un soggetto rispetto ad un altro.
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GALGANO F. – VISINTINI G., Degli effetti del contratto, della rappresentanza, del
contratto per persona da nominare (artt. 1372-1405), sub art. 1375, in Scialoja Branca, Comm. cod. civ., Galgano (a cura di), IV, Bologna- Roma, 1993, 94.
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Per un maggiore approfondimento circa la nozione di buona fede nel diritto romano v. SENN P.D., Voce Buona fede nel diritto romano, in Dig., Sez. civ., II, Torino, 1988, 129 ss.; TALAMANCA M., La bona fides nei giuristi romani: “leerformeln” e valori tutelati
dall’ordinamento, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, Atti del Convegno internazionale di studi in onore di A. Burdese (Padova-
Venezia-Treviso, 14, 15, 16 giugno 2001), Garofalo (a cura di), Padova, 2003, vol. IV. Tra gli studiosi della tradizione romana si vedano inoltre: SCHERMAIER M. J., Bona fides in Roman
contract law, in Good faith in European Contract Law, Zinnermann R. – Whittaker (a cura di),
Cambrige, 2000, 54 ss.; ZIMMERMANN R., Diritto romano, diritto contemporaneo, diritto europeo:
la tradizione civilistica oggi, in Riv. dir. civ., 2001, I, 703 ss.. 38
PLAUTUS., Tri, 271 “…boni sibi haec expetunt, rem, fidem, honorem, gloriam et
gratiam: hoc probis paemiumst”. 39
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Non sono tutt’oggi chiari i passaggi che condussero i giuristi ad elaborare, a partire da un certo momento storico, il concetto giuridico di bona fides, che comunque conservò gli originari connotati religiosi (fides) e morali (bona) segno di garanzia e di rispetto. Essa venne utilizzata sia in ambito contrattuale (probabilmente già dal III sec. a.C.), sia in quello del possesso (a partire dal I sec. a.C.), creando le prime fondamenta del significato attuale nonché duplice di buona fede oggettiva e soggettiva. Nell’ambito contrattuale, specialmente per il contratto di compravendita, si parlava di fides del bonus vir40 per indicare che il giudice avrebbe dovuto valutare il comportamento che generalmente ci si attende da un uomo normale in un caso specifico41. In riferimento al possesso, prese le mosse dall’istituto dell’usucapione per tutelare la posizione di colui che possiede il bene nella convinzione che tale comportamento sia legittimo ed in forza di ciò ne acquista a titolo originario la proprietà.
In età medievale e moderna42 la bona fides si arricchì di significati ed al fine di coglierne l’essenza si fece riferimento ad una serie di parole - «constantia», «veritas», «iustitia», «natura», «conscientia», «aequitas» - a volerne indicare la complessità concettuale e la vastità del proprio ambito applicativo43. In tale periodo storico lo sviluppo maggiore della bona fides si verificò nell’ambito del
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CICERO, De officiis 3.80.: “bonus uir qui prodest quibus potest et nocet nemini”. 41
La bona fides, intesa nel senso di buona fede oggettiva, nasceva sulla base del rapporto di connessione tra ius civile e ius honorarium, con l’affermarsi dei c.d. iudicia bonae fidei che erano giudizi costituiti dai pretori romani in sostituzione ed in alternativa ai tipici procedimenti di diritto civile. Tali giudizi modificavano profondamente il diritto romano dei contratti, introducendo una superiore tutela basata su esigenze socialmente riconosciute, a prescindere dagli elementi sostanziali e formali tipici dello ius civile. Di fatto, i iudicia bona fidei permettevano di tenere conto di valori etici e sociali, attraverso l’introduzione di regole di correttezza che godevano, per la prima volta, di difesa processuale. Successivamente alla sua comparsa, e fino al VI sec. d.C., l’ambito dell’actio bona fidei si ampliò sempre di più e da regola di mero rispetto della parola data diventava una vera e propria regola del rapporto obbligatorio, assumendo la veste di fonte autonoma dell’obbligazione, distinta dal vecchio ius civile.SENN P.D., Voce Buona fede
nel diritto romano, cit., 131 ss. 42
Per il concetto di buona fede nell’età medievale v. CORTESE E., Voce Causa (dir.
intern.), in Enc. dir., VI, Milano, 1961, 542; DE VITA A., Buona fede e common law, in Riv. dir.
civ., 2003, I, 251; GORDLEY J., Good faith in contract law in the medieval ius comune, in Good
faith in European Contract Law, cit., 94 ss.; MASSETTO G.P., Voce Buona fede nel diritto
medievale e moderno, in Dig., Sez. civ., II, 1988, Torino, 133 ss.. 43
Si legge in BARGALIUS, De dolo, 702, n. 7-8: “tertia est fides moralis, sive civilis, quae
est dictorum factorumque constantia, et veritas iustitiam praecipue respiciens, cuius recte dicitur fundamentum” e in SOCINUS M., Prima pars consiliorum, cons. 36 n. 9: “ille recognoscit bonam
fides qui iuste distribuite t qui reddit unicuique quod suum est, et agit secundum naturam et bonam conscientiam ita qod nec se nec alium velit cum aliena iactura locupletari”. Cfr. CICERO, De
officiis, I, c. 7: “Fundamentum autem iustitiae est fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas”.
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commercio, in particolare quello internazionale, dove divenne criterio valutativo dei comportamenti delle parti a tutti gli effetti. In particolare con il termine bona
fides si descrivevano tre principali tipologie di condotte: l’obbligo delle parti di
tener fede alla parola data; il divieto della parti di trarre vantaggio da propri comportamenti sleali; il dovere delle parti contrattuali di adempiere a quelle obbligazioni che, ancorché non espressamente previste, sarebbero ritenute giuste da una persona onesta e leale. Nacque così la distinzione tra contratti di «buona fede» e contratti «stricti iuris». Con la prima accezione non si voleva certo affermare l’esistenza, in contrapposizione ad essi, di contratti di mala fede posto che qualsiasi negozio doveva essere improntato alla lealtà e alla correttezza delle parti. Con contratto di buona fede si alludeva a tutte quelle ipotesi in cui i contraenti avrebbero dovuto comportarsi secondo l’«aequitas» anche se ciò non fosse stato espressamente pattuito, sicché il giudice nel silenzio delle parti o in presenza di previsioni ambigue avrebbe dovuto interpretare il contratto «ex bono at aequo»44, senza mutare o contraddire la loro volontà45. Questa attività veniva invece preclusa nei contratti «stricti iuris» ove il giudice poteva considerare solo quanto indicato nel regolamento contrattuale dalle parti - «acta et expressa» - ed offrire un’interpretazione rigorosamente letterale ed aderente alle parole usate.
Il concetto di buona fede soggiunse fino all’età della codificazione, in particolare tra la fine del XIX e XX secolo, sotto l’influenza del pensiero giusnaturalistico e senza ancora chiarezza sul suo effettivo contenuto che continuò ad alternarsi tra un profilo squisitamente psicologico46, inteso come l’assenza della consapevolezza di porre in essere un comportamento illegittimo ed uno oggettivo quale fonte ispiratrice della condotta corretta dei contraenti47.
Tuttavia, le forti idee individualistiche caratterizzanti le codificazioni moderne generarono un restringimento dell’influenza della buona fede sui sistemi giuridici. Il fenomeno trovò infatti massima espressione nel dogma dell’assolutezza della proprietà privata ed in quello dell’autonomia della volontà dei privati in ambito contrattuale. Esempio di quanto detto lo si rinviene pienamente nel Code
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DE OÑATE P., De contractibus, I, 29 n. 120.
45
OLDENDORPIUS J., Variarum lectionum libri, 226 ss.
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PUFENDORF S., De iure naturae et gentium, III, 359, § 2; Ibidem, I, 47-52; §§ X-XVI.
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Napoléon il quale all’art. 1134 recita “(1) Les conventions légalement formées tiennent lieu de loi à ceux qui les ont faites. (2) Elles ne peuvent être révoquées que de leur consentement mutuel, ou pour les causes que la loi autorise. (3) Elles doivent être exécutées de bonne foi”. Da queste norme si evince che il legislatore
francese ha elevato a principio assoluto l’autonomia contrattuale (art. 1134, co. 1 e 2), relegando la buona fede (art. 1134, co. 3) quasi ad una sorta di eccezione operante nella sola fase di esecuzione del contratto48.
Il legislatore italiano con il Codice del 1865 ha in parte seguito l’impostazione individualistica del Code civil ma se ne differenzia in quanto tratta la libertà negoziale e la buona fede in un’unica norma (art. 1124 c.c. abr.) creando così una maggiore armonia tra i due principi: “i contratti debbono essere eseguiti di buona
fede, ed obbligano non solo a quanto è nei medesimi espresso, ma anche a tutte le conseguenze, che secondo l’equità, l’uso o la legge ne derivano”.
Taluno ha sostenuto che il Codice Pisanelli ha con questa formula introdotto un valido temperamento alle impostazioni soggettivistiche del tempo, dato che si è attribuita al giudice la facoltà di arricchire il sinallagma contrattuale e se necessario la possibilità di modificarlo a garanzia dell’equità tra le parti49
. In realtà il codice civile abrogato, così come accadde in Francia, non ampliò l’uso della clausola di buona fede alla fase di formazione del contratto ma consolidò il ruolo della stessa ad operare nella sola fase di esecuzione dello stesso50. Non era rinvenibile, dunque, alcun obbligo delle parti di tenere una condotta corretta durante le trattative e ciò lo dimostra oltre che la formula letterale dell’art. 1124 c.c. abr., l’assenza nel codice di qualsiasi altra norma che prevedesse una sanzione contro un comportamento contrario a buona fede nella formazione del contratto51. In definitiva, affinché la buona fede assuma un ruolo determinante nella valutazione giudiziale della condotta delle parti durante le trattative, si dovrà
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MASSETTO G.P., Voce Buona fede nel diritto medievale e moderno, cit., 152.
49
CORRADINI D., Il criterio della buona fede e la scienza del diritto privato, Milano, 1970, 87-89.
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TRABUCCHI A., Il dolo nella teoria dei vizi del volere, op. cit., 107 e ss.
51
SOLIDORO MARUOTTI L., Gli obblighi di informazione a carico del venditore. Origini
storiche e prospettive attuali, Napoli, 2007, 104. In mancanza di una regola assimilabile all’attuale
art. 1337 c.c. la culpa in contrahendo di colui che interrompeva ingiustificatamente le trattative o dava colpevolmente causa all’invalidità del contratto veniva configurata facendo ricorso all’art. 1151 c.c. abr., norma corrispondente all’attuale art. 2043 c.c. in tema di responsabilità extracontrattuale.
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attendere il codice civile del 1942. In tale occasione il legislatore, con la clausola generale di cui all’art. 1337 c.c., non rivolge più la sua principale attenzione alla volontà delle parti, ai loro interessi strettamente individuali, ma si sposta verso la funzione economico-sociale del contratto e la giustificazione patrimoniale dello scambio. Questa nuova impostazione è certamente frutto di un cambiamento socio-culturale tra le diverse epoche storiche, il quale ha inciso sulla teorica del negozio giuridico52 e conseguentemente sugli istituti che ruotano intorno ad esso compresa la buona fede contrattuale.
Giova al riguardo precisare che il concetto di negozio giuridico, affonda le sue radici nell’esaltazione della libertà individuale di derivazione illuministica, che si riflette nel riconoscimento del potere della volontà di produrre effetti giuridici. I sostenitori delle teorie volontaristiche del negozio giuridico, difatti, ritengono che quest’ultimo possa produrre i propri effetti solo qualora sussista l’effettiva volontà non viziata dell’agente. La dichiarazione negoziale sarà allora un mero mezzo di manifestazione della volontà con la conseguenza che ogni divergenza tra volontà e dichiarazione (es. errore ostativo per una divergenza involontaria; simulazione per una divergenza volontaria), dovrebbe condurre alla invalidità dell’atto per difetto di volontà. Ebbene, in questo contesto la buona fede contrattuale, non poteva che assumere un ruolo di secondo piano, proprio perché ciò che prevaleva era l’autonomia privata dei soggetti, la loro intenzione di tutelare determinati interessi, prescindendo invece dai comportamenti (scorretti) effettivamente tenuti nella fase di formazione del contratto.
La buona fede acquista invece un maggiore valore quando iniziano a farsi strada le teorie antivolontaristiche che considerano il negozio giuridico produttivo di effetti non in quanto atto voluto, ma in quanto valutato dall’ordinamento come socialmente utile53. Ecco che in questo nuovo contesto il fulcro del contratto non è più il consenso ma la causa dello stesso con la conseguenza che l’eventuale
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Per uno studio della teoria del negozio giuridico v. CAPPELLINI P., Voce Negozio
giuridico (storia del), in Dig. Disc. Priv., Sez. civ., XII, Torino, 1995, 95; FERRI G.B., Voce
Negozio giuridico, in Dig. Disc. Priv., Sez. civ., XII, Torino, 1995, 74 ss.; FRANZONI, Il dibattito
attuale sul negozio giuridico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1995, 409; GALGANO F., Voce Negozio
giuridico (dottrine generali), in Enc. Dir., XXVII, Milano, 1977, 932 ss.; IRTI N., Il negozio
giuridico come categoria storiografica, in Letture bettiane sul negozio giuridico, Milano, 1991;
MIRABELLI G., Voce Negozio giuridico (teoria del), in Enc. Dir., XXVIII, Milano, 1978, 1 ss.; VALLE L., Il dibattito sul negozio giuridico in Italia, in Contr. Impr., 1993, 566.
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divergenza tra dichiarazione negoziale e volontà potrà sortire un effetto invalidante solo se il vizio era percepibile dalla controparte (es. l’errore ostativo determina invalidità solo se riconoscibile).
Ebbene il codice civile attuale sembra accogliere una concezione volontaristica del negozio giuridico ma temperata dal criterio dell’affidamento. Il che rende ancora più rilevante la funzione della buona fede tra le parti contrattuali. Si rammenta in proposito un passaggio importante della Relazione al codice civile del 1942 (n. 623) in cui si afferma che «senza disconoscere il valore dell’elemento volitivo, si può dare, di regola, in caso di conflitto, la prevalenza alla certezza dell’affidamento e all’esigenza della stabilità dei rapporti giuridici, ove, beninteso, l’affidamento si fondi sulla buona fede consapevole del destinatario dell’atto di volontà»54. Quanto riportato consente di affermare che il contratto non viene più considerato quale strumento di composizione di interessi individuali ed egoistici, ma quale mezzo di collaborazione economica e di cooperazione delle attività individuali per il raggiungimento di fini sociali. In tale processo assume dunque una particolare valenza la buona fede oggettiva sicché in caso di discrasia tra volontà e dichiarazione prevale quest’ultima tutelandosi l’affidamento che si è venuto a costituire in capo ad un soggetto in seguito ad un determinato comportamento tenuto dalla controparte.
La concreta applicazione della buona fede, meditata secondo il principio di affidamento, avverrà comunque lentamente in forza di un processo di maturazione delle teorie oggettivistiche. Difatti, nel periodo successivo all’emanazione del codice civile ed ancora fino agli anni ’70 circa, si risentì ancora del clima storico- culturale che incentrava la materia contrattuale sulla soggettività e sulla volontarietà delle parti, sicché la buona fede venne spesso ricondotta ad una formula retorica, priva di autonomo contenuto. Basti pensare che in pieno regime fascista si cercò di ridurre all’estremo l’interpretazione della regola di buona fede,
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Per maggiore chiarezza si riportano ulteriori passaggi della Relazione al codice civile: «in luogo del concetto individualistico di signoria della volontà, l’ordine nuovo deve accogliere quello proprio di autonomia del volere. L’autonomia del volere non è sconfinata libertà del potere di ciascuno; ma, se legittima nei soggetti un potere di regolare il proprio interesse, nel contempo impone ad essi di operare sempre sul piano del diritto positivo, nell’ambito delle finalità che questo sanziona e secondo la logica che lo governa» (n. 603); «contro il pregiudizio incline ad identificare la causa con lo scopo pratico individuale, la causa richiesta dal diritto non è lo scopo soggettivo, qualunque esso sia, perseguito nel caso concreto, ma è la funzione economico sociale che il diritto riconosce ai suoi fini e che solo giustifica la tutela dell’autonomia privata» (n. 613).
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nella convinzione che ciò avrebbe potuto mascherare interventi politici volti a limitare indirettamente l’autonomia privata55
. Questa impostazione la si rinviene anche nella giurisprudenza del dopoguerra ove si afferma espressamente che la buona fede esecutiva può acquisire rilevanza giuridica solo qualora si concretizzi nella violazione di specifiche norme. In altri termini la violazione dei doveri di lealtà e correttezza non si reputava illegittima o colposa, né poteva essere fonte di responsabilità per danni, in assenza di una legge espressa che ne prevedesse una specifica sanzione56.
Alla luce di quanto detto, bene si comprende come il riconoscimento giurisprudenziale della buona fede fu graduale e, seppur con contorni non ancora definiti, avvenne quando essa fu identificata come uno dei principi cardine in materia di obbligazioni57, fino ad assumere a partire dagli anni ’80 un valore preminente durante tutte le fasi del contratto a partire dallo svolgimento delle trattative58, per arrivare all’esecuzione dello stesso59, compreso il momento della sua interpretazione60.
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Vi era chi addirittura sosteneva che i principi di buona fede e correttezza altro non erano che il risultato di una elaborazione politica fondata sulla solidarietà corporativa, per cui con la caduta del regime, venendo meno tale tipo di collegamento si poteva considerare tacitamente abrogata la norma. Così in FERRI G., Diritto agli utili e diritto al dividendo, in Riv. dir. comm., 1963, I, 412 ss..
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Cass., 16 febbraio 1963, n. 357, in Foro pad., 1964, I, c. 1283, con nota di RODOTÀ S.,
Appunti sul principio di buona fede: «I doveri generici di lealtà e correttezza sono entrati nel
nostro ordinamento giuridico, specialmente in materia contrattuale, ma la violazione di tali doveri, quando la legge non ne faccia seguire una sanzione autonoma, costituisce solo un criterio di valutazione e quantificazione di un comportamento. Essi non valgono a creare, di per se stessi, un diritto soggettivo tutelato erga omnes dall’osservanza del precetto del neminem laedere quando tale diritto non sia riconosciuto da un’espressa disposizione di legge; pertanto, un comportamento