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La clausola generale di buona fede nell’ordinamento italiano

LA BUONA FEDE OGGETTIVA NELL’AMBITO DEL CONTRATTO

2. La clausola generale di buona fede nell’ordinamento italiano

Fino ad ora, è parso preliminare alla presente ricerca, delineare l’excursus storico circa le origini della nozione di buona fede, al fine di comprenderne la sua mutevolezza concettuale in relazione al contesto socio-culturale all’interno del quale si è evoluta. Da qui in avanti si procederà ad una disamina più precisa della

contratto, che possono essere presenti anche in una minuta. In altri termini il giudice deve verifica la sussistenza del requisito “dell’affidamento legittimo” che una parte ha ingenerato nell’altra rispetto alla successiva conclusione del contratto. Secondo altra precedente Cass. 17 giugno 1974, n. 1781, in Foro it., 1974, c. 1200, si rileva una responsabilità precontrattuale per violazione del dovere di lealtà, nell’ipotesi in cui «la parte receda dalla trattativa senza giustificato motivo, dopo aver indotto l’altra parte all’assunzione di spese inerenti al futuro contratto». Con questa pronuncia i giudici di legittimità iniziano a mettere in evidenza che la buona fede vuole garantire non tanto il buon esito delle trattative, bensì che le trattative vengano svolte lealmente e correttamente.

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La giurisprudenza specifica anche il ruolo della buona fede durante la fase dell’esecuzione del contratto, riconoscendo un generale dovere di cooperazione delle parti tra loro, finalizzato al perseguimento dello scopo contrattuale, affermando a più riprese sia nella giurisprudenza di merito che di legittimità che per una corretta applicazione dell’art. 1375 c.c., al fine di raggiungere lo scopo del contratto, le parti devono modificare il proprio comportamento qualora ciò si renda necessario in base alle circostanze di fatto. Un’interessante applicazione della clausola generale della buona fede nell’esecuzione del contratto, si rinviene nell’ambito degli obblighi contrattuali delle società assicurative. Tra le numerose sentenze si cita Cass., 5 marzo 1994, n. 2177, in Arch. circolaz., 1994, 844, secondo cui il comportamento dell’assicuratore viola l’obbligo di correttezza e buona fede, implicito nel contratto di assicurazione, non solo quando, avvalendosi del patto di gestione, gestisca la lite in modo da arrecare pregiudizio all’assicurato, “per eccessiva cura dei propri interessi”, ma anche “quando decida, senza motivo, di non aderire ad una vantaggiosa proposta di transizione con il terzo danneggiato”; in tale ipotesi si ritiene che l’assicuratore non esegua il contatto di assicurazione secondo un comportamento in buona fede.

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Tra le tante si può riportare Cass., 8 giugno, 1979, n. 3250, in Foro pad., 1979, I, c. 182, la quale affronta la questione relativa alla disdetta di un contratto di assicurazione “entro un termine prefissato”. Ci si chiede nello specifico se il termine della disdetta si debba calcolare dal momento della spedizione della lettera raccomandata o dal momento del suo ricevimento. Secondo la Cassazione, ai sensi dell’art. 1366 c.c., «non può che ritenersi in buona fede chi interpreti la clausola nel primo senso (al momento della spedizione della raccomandata di disdetta), essendo ragionevole presumere che, qualora si fosse voluto intendere il secondo significato, lo si sarebbe dovuto chiarire espressamente, perché comportante effetti ben più gravosi per la parte».

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MERUZZI G., La trattativa maliziosa, Padova, 2002, 106; PIETROBON V., Voce Affidamento, in

Enc. giur., I, Roma, 1988, 1 e ss.; ID., Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, op. cit., 3, ove si evince che l’affidamento ha un ruolo consistente nella realizzazione di una giustizia sostanziale anche nei rapporti fra le parti di un contratto.

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Nei successivi §§ approfondiremo il significato attuale della clausola generale di buona fede.

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struttura della clausola di buona fede oggettiva, per approdare al suo significato attuale tenendo conto anche di alcuni spunti comparatistici.

Si è fatto cenno di come il codice civile del 1942, mediante i vari referenti normativi, abbia esaltato il valore della buona fede rispetto al passato, attribuendo ad essa il ruolo di principio regolatore delle condotte umane a partire dalla formazione del contratto fino ad arrivare al momento della sua esecuzione. Affinché questa preminente finalità potesse nel concreto realizzarsi, il legislatore si è dovuto affidare ad una tecnica di semplificazione, in quanto sarebbe stato impossibile per la legge disciplinare in maniera dettagliata ogni singola fattispecie concreta e specifica che si fosse verificata nella realtà fattuale, soprattutto quando questa abbia ad oggetto le più svariate condotte (scorrette) che un soggetto può assumere nelle varie fasi del contratto.

Per questa ragione è stata individuata la buona fede come clausola generale che esprime una regola di condotta astratta ed oggettiva all’interno della quale è possibile riassumere i concetti di lealtà, correttezza, solidarietà, rispetto della controparte e della parola data, nonché per taluni anche la diligenza63. Non è dato approfondire l’analisi delle tesi, non condivisibili, di coloro che sostengono la diversità concettuale tra la buona fede e la correttezza. Il legislatore, infatti, talvolta parla di buona fede (per es. negli artt. 1337, 1375 c.c.), talaltra discorre di correttezza (es. art. 1175 c.c.), inducendo a sostenere che le stesse abbiano due significati differenti64. Si ritiene invece preferibile affermare che la correttezza sia proprio una delle principali espressioni della buona fede contrattuale65.

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Sulle differenze concettuali dei diversi termini utilizzati talvolta come sinonimi della buona fede v. UDA G.M., L’esecuzione del contratto secondo buona fede, in Nuova giur. civ.

comm., II, 1992, 184 ss. 64

Si legge in BARASSI L., Teoria generale delle obbligazioni, III, Milano, 1948, 2 ss., che la buona fede di cui all’art. 1375 c.c., presiederebbe all’attuazione di rapporti obbligatori nascenti da contratto, mentre la correttezza di cui all’art. 1175 c.c. troverebbe la sua fonte in rapporti non aventi origine nel contratto. In BETTI E., Teoria generale, op. cit., 68 ss., emerge l’impostazione secondo cui la buona fede presuppone l’esistenza di uno specifico rapporto, mentre la correttezza prescinde da esso. Più precisamente mentre la buona fede è destinata ad intervenire nella fase ermeneutica ed in quella di attuazione del rapporto obbligatorio, imponendo un atteggiamento di cooperazione nell’interesse altrui, la correttezza si traduce in un comportamento di astensione da indebite ingerenze nell’altrui sfera giuridica. Sulla non coincidenza tra il concetto di buona fede e correttezza vedi anche DELL’AQUILA E., La correttezza nel diritto privato, Milano, 1980. V. infra, § 5.

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In questo senso BIANCA C.M., La nozione di buona fede quale regola di comportamento

45 Secondo un’autorevole impostazione66

è possibile raggruppare le norme attinenti alla buona fede oggettiva in due categorie: da una parte le norme che prevedono la buona fede intesa come comportamento leale e corretto durante la conclusione del contratto; dall’altra le norme che configurano la buona fede come criterio di interpretazione del contratto ovvero come criterio di condotta nell’adempimento delle obbligazioni. In presenza di svariati fenomeni giuridici, la nostra attenzione, per le ragioni espressamente evidenziate nel primo capitolo, si rivolgerà preminentemente alla buona fede nella formazione del contratto, al fine di valutare e comprendere se la violazione di essa possa, contrariamente all’impostazione tradizionale, interferire con le regole di validità contrattuali, determinando per l’appunto l’invalidità del negozio al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge.

Nello specifico ci si vuole riferire alla regola espressa dall’art. 1337 c.c. secondo cui “le parti, nella formazione del contratto e nello svolgimento delle

trattative, devono comportarsi secondo buona fede”. Ebbene, il tenore astratto

della norma richiama la struttura di una clausola generale, con tutte le implicazioni positive e negative che conseguono dalla sua applicazione pratica.

Le clausole generali, diversamente dalle norme redatte secondo una tecnica casistica, si caratterizzano per una normazione sintetica la quale consente di sussumere in esse le più svariate fattispecie concrete67. Le clausole generali, infatti, è come se fossero delle “norme in bianco” in quanto sono espressione di una regola generale ed astratta in cui manca l’indicazione specifica dei fatti giuridici rilevanti. Il carattere della elasticità ha dunque il vantaggio di consentire al giudice di interpretare la norma in chiave evolutiva, di identificare nuovi divieti e nuovi obblighi in relazione alla varietà e molteplicità delle circostanze fattuali che via via si presentano innovate nelle differenti realtà economiche-sociali, di estendere in definitiva il panorama dei fatti giuridicamente rilevanti. In altri termini, il dovere generale imposto ai contraenti di comportarsi secondo buona fede esprime una semplificazione normativa che ha la funzione di colmare le

in Dig., Sez. civ., II, 1988, Torino, 169 ss.; GALGANO F., Il negozio giuridico, in Tratt. dir. civ.

comm., Cicu A. e Messineo F. (diretto da), Mengoni L. (continuato da), III, Milano, 1988, 433. 66

MONTEL A., Buona fede, in Noviss. Dig., II, Torino, 1957, 603.

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DI MAJO A., Clausole generali e diritto delle obbligazioni, cit., 539; MENGONI L.,

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lacune legislative, posto che sarebbe impossibile per la legge individuare tassativamente tutte le fattispecie di abuso fra le parti, l’una a danno dell’altra, concretamente realizzabili. La clausola generale di buona fede, pertanto, rappresenta tendenzialmente una norma di «chiusura» necessaria al sistema legislativo, in quanto permette allo stesso di creare una sorta di raccordo tra il diritto e i valori etico-sociali, di evolversi e di adeguarsi alle nuove esigenze economiche mediante l’attività giurisprudenziale di autointegrazione di alcuni vuoti normativi volutamente strutturali68.

Le clausole generali, a parte gli indubbi vantaggi poc’anzi evidenziati, non sono, però, scevre di complicazioni pratiche riscontrabili nell’esperienza dei vari ordinamenti continentali. Attribuire elasticità ad una norma, consentirle di adattarsi, modellarsi alle nuove realtà sociali, implica necessariamente nel contempo un ampliamento della discrezionalità dei giudici i quali avranno, dinanzi al caso concreto, un margine di scelta più vasto circa la soluzione applicabile.

In uno stato di diritto come il nostro, secondo il principio di separazione dei poteri, il ruolo del giudice è quello di dare esecuzione alla legge mediante la funzione propria di interpretazione delle norme. Quanto più le norme sono formulate in maniera generica, tanto maggiore sarà il margine di apprezzamento e di valutazione attribuito al giudice. Diversamente, la presenza di norme strutturate in maniera casistica, la discrezionalità dell’interprete è certamente limitata dai confini rigorosi predeterminati dal legislatore. Il timore legittimo è quindi quello che un più ampio potere giudiziale possa minare la certezza del diritto nonché determinare disuguaglianze sociali date dalla varietà delle diverse decisioni assunte dai vari giudici non soggetti a limiti legali stringenti. In realtà, per evitare tali rischi ed escludere che la valutazione del giudice possa sfociare in arbitrio sarà importante che quest’ultimo si affidi alle regole di esperienza e di costume, ai valori socialmente riconosciuti in riferimento alla ratio legis sottesa alla clausola generale di interesse.

Nel caso della regola di buona fede si deve, allora, tener conto dei principi di solidarietà, di lealtà e correttezza comunemente richiesti alle parti che si

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GALGANO F. – VISINTINI G., Degli effetti del contratto,op. cit., 95; UDA G.M.,

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accingono alla stipulazione di un contratto, in modo da individuare, all’interno dell’esperienza sociale, delle figure sintomatiche e patologiche in grado di violare la regola espressa dalla norma69. In questo modo il limite al potere del giudice è rappresentato dai modelli di decisione già precedentemente sperimentati70.

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