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Dobbiamo tanto a GADAMER quanto a COULOUBARITSIS un’altra lettura del capitolo conclusivo degli “Analitici Secondi”. Vediamo in primo luogo ciò che il filosofo tedesco ha scritto in merito:

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come da molte percezioni particolari, attraverso la conservazione del particolare molteplice, si costituisca alla fine l’esperienza, l’unità unica dell’esperienza. Che cos’è questa unità? È chiaro che si tratta dell’unità di un universale. Ma l’universalità dell’esperienza non è ancora l’universalità della scienza. Essa occupa invece in Aristotele una posizione media, che colpisce per la sua indefinitezza, tra le molte percezioni particolari e la vera universalità del concetto. Dall’universalità del concetto prendono origine la scienza e la tecnica. Ma che cos’è l’universalità dell’esperienza, e come trapassa nella nuova universalità del logos? Se l’esperienza ci mostra che un certo medicamento ha un determinato effetto, ciò significa che da una gran quantità di osservazioni si è scoperto qualcosa di comune, ed è chiaro che solo in base a un’osservazione così accertata diventa possibile porre l’autentico problema medico, il problema della scienza: cioè il problema del logos. La scienza sa perché, per quale ragione, questo medicamento ha un effetto terapeutico. L’esperienza non è essa stessa scienza, ma è una premessa necessaria della scienza. Bisogna che tale premessa sia già garantita, cioè che le singole osservazioni mostrino regolarmente lo accadere dello stesso effetto. Solo quando è raggiunta quest’universalità della quale si tratta nell’esperienza si può porre il problema del fondamento, cioè il problema che conduce alla scienza. Ora noi chiediamo: che tipo di universalità è questa? È chiaro che essa riguarda ciò che molte osservazioni particolari hanno di comune. Il ritenere questo elemento comune rende possibile una certa previsione [...]

Aristotele ha, per la logica di questo modo di procedere, una bellissima immagine. Egli paragona le molteplici osservazioni che un osservatore fa a un esercito in fuga. Anche esse sono fuggevoli, cioè non permangono. Ma quando in questa fuga generale una osservazione trova ripetuta conferma, allora essa permane. Qui si ha un primo punto di arresto nella fuga generale. Se a questo punto altri se ne aggiungono, ordinandovisi accanto, alla fine l’intero esercito dei fuggiaschi si ferma e obbedisce di nuovo all’unico comandante. L’unità del comando traduce qui in immagini quel che è la scienza. L’immagine vuol mostrare come in generale si può pervenire alla scienza, cioè alla verità universale, la quale pure non può dipendere dalla casualità delle osservazioni ma deve valere per una reale universalità. Ma come può tale universalità risultare dalla accidentalità delle osservazioni?

L’immagine è importante per il nostro problema in quanto illustra l’aspetto decisivo dell’essenza dell’esperienza. Come tutte le immagini, essa zoppica, ma lo zoppicare di un’immagine non ne rappresenta una insufficienza, bensì è il rovescio necessario della sua utilità sul piano concettuale. L’immagine aristotelica dell’esercito in fuga zoppica in quanto ha un presupposto che non regge. Suppone infatti che prima di questa fuga ci sia stato un momento in cui tutti erano fermi al loro posto. Naturalmente questo non vale per il fenomeno che qui l’immagine vuole illustrare, cioè il costituirsi del sapere. Proprio questa carenza, però, mette in luce chiara ciò che, soltanto, l’immagine voleva illustrare: cioè l’accadere dell’esperienza come un evento su cui nessuno ha potere, per cui anche il peso specifico di questa o quella osservazione come tale non ha una funzione determinante, ma in cui tutto si ordina insieme in una maniera che sfugge alla comprensione. L’immagine riconosce implicitamente la peculiare apertura che caratterizza l’acquisizione dell’esperienza, che si verifica in occasioni diverse, improvvisamente, in modo imprevedibile e tuttavia non senza una preparazione, e che vale da quel momento in poi fino a che sopravvenga un’esperienza nuova; che cioè non è determinante solo per questo o per quello, ma per tutti nell’ambito di una stessa specie. È questa universalità dell’esperienza quella attraverso cui si dà secondo Aristotele la vera universalità del concetto e la possibilità della scienza. L’immagine mostra, quindi, come l’universalità senza principi dell’esperienza (il suo puro raccogliersi in serie) conduca alla fine all’unità dell’¢rc» (termine che significa insieme ‘comando’ e ‘principio’» (VM 428–429).

Malgrado contrasti con l’indeterminazione della focalizzazione aristotelica, GADAMER mette l’accento sul momento dell’acquisizione dell’esperienza attraverso il quale si raggiunge la generalità del concetto e la possibilità della scienza. In ogni nuova esperienza l’uomo evoca esperienze precedenti. In ogni esperienza l’uomo applica il giudizio, la deliberazione, capacità al confine tra intellettuale e passionale la quale condivide la natura di entrambe: ‘deliberazione desiderante’ (ÑrektikÕj noàj) o ‘desiderio deliberativo’ (Ôrexij dianohtik»). La persona con

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127 esperienza non tenta di far fronte ad una situazione nuova con l’intelletto. Al contrario, approfitta dei desideri informati dalla deliberazione e della deliberazione informata dai desideri e risponde con la passione e con l’azione. La deliberazione risiede in una percezione che risponde con flessibilità alla situazione concreta. Per tanto, sembra che qui la focalizzazione gadameriana cerca di mettere in rilievo le strette connessioni che si stabiliscono tra lÒgoj ed

esperienza. Da questo dinamismo dell’esperienza potrà dedursi l’apertura dello stesso GADAMER verso una possibile analitica ermeneutica della fatticità dell’esperienza (Conill 2006a: 180–182; 275), quindi, del succedersi esperienziale in cui consiste l’intellezione.

Da parte sua, COULOUBARITSIS suggerisce che un approfondimento sulla nozione di

™pagwg» ci permette una possibilità di conciliazione tra le nozioni di ™pagwg» e noàj

(Couloubaritsis 1980: 447). Esporrò di seguito la proposta del filosofo belga che cerca di offrire una mediazione in questo dibattito e espliciterò i presupposti ermeneutici dai quali parte nella sua interpretazione del testo aristotelico.

Nella sua analisi COULOUBARITSIS indica che il noàj è associato alla ™pagwg» nella misura

in cui il noàj è risultato di un processo. Per mostrare ciò l’autore parte da un passaggio degli

“Analitici Secondi” (I 10, 76a 31–34) dove lo stagirita scrive: «Principî (¢rc¦j) in ogni genere

chiamo poi gli oggetti, riguardo ai quali non è possibile dimostrare (de‹xai) che sono. Da un

lato, tanto per gli oggetti primi quanto per gli oggetti derivati da questi, noi assumiamo (lamb£netai) che cosa significhino (shma…nei); d’altro lato, per i principî è necessario

assumere (lamb£nein) che sono, mentre per gli altri oggetti è necessario provarlo

(deiknÚnai)». Che il greco si riferisca qui ai principi utilizzando i verbi lamb£nein e deiknÚnai permette a COULOUBARITSIS di congetturare che la conoscenza alla quale lamb£nein si riferisce non allude in assoluto ad una intuizione dei principi fino all’intellezione di qualcosa in funzione di un contesto determinato (Couloumbaritsis 1980: 448). Ciò che si prende come premessa della dimostrazione è l’universale e questo è il risultato di un’attività induttiva. Nella misura in cui la dimostrazione è il risultato di un’attività preceduta dall’induzione, la conoscenza dei principi si integra in un’attività che non può considerarsi intuitiva. Non sembra, di conseguenza che i principi si intuiscano, ma si prendono come punto di partenza, come fatti già stabiliti. Per far valere le tesi secondo cui il noàj è il risultato di un processo, COULOUBARITSIS considera due elementi centrali nel testo degli “Analitici Secondi” (II 19). Qui lo stagirita qualifica il noàj come ›xij, comparando la conoscenza dei

principi e la conoscenza dimostrativa.

Nel capitolo conclusivo degli “Analitici Secondi” qualifica il noàj come ›xij in un paio di

occasioni (Aristot. An. Po. II 19, 99b 18; 100b 6). Il senso di ›xij, in questi passi nei quali il

nostro autore considera il problema della ™pagwg», è quello del risultato di un’attività. È

significativo il fatto che l’ellenico consideri per prima cosa il problema della ™pagwg» insieme

al problema della costituzione delle diverse disposizioni (›xeij) nell’uomo e che solo alla fine

parli del problema del noàj come conclusione del processo d’induzione. Il noàj deve

rappresentare per somiglianza (Ðmo…wj œxei) una ricostruzione ordinata secondo le regole di

una scienza determinata. Così come la scienza dimostrativa espone il risultato di un sapere, alla stessa maniera il noàj deve dar conto del risultato di un determinato sapere. Per ‘risultato’ bisogna intendere qui possesso, ›xij. Il sapere che presenta il noàj in quanto principio del

principio stesso della dimostrazione è la conoscenza delle nozioni prime manifestato nelle premesse della dimostrazione, quindi, in nozioni universali. È per questo fatto, così come indica COULOUBARITSIS, il motivo per cui il filosofo ellenico riesce ad associare ™pagwg» e noàj. Stabilendo l’universale a partire dal particolare, la ™pagwg» costituisce il noàj stesso

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La ™pagwg» consiste nella produzione dell’universale a partire dal particolare. In questo

processo, così come mostrano i “Topici” (I 18, 108b 7–12), la nozione di similitudine svolge un ruolo fondamentale: «L’osservazione della somiglianza (Ðmo…ou qewr…a) è dal canto suo

utile sia per i discorsi induttivi (™paktikoÝj lÒgouj), sia per i sillogismi poggiati su di

un’ipotesi (™x Øpoqšsewj sullogismoÝj), sia per formulare le espressioni definitorie

(Ðrismîn). Rispetto ai discorsi induttivi essa è utile, poiché siamo convinti di suscitare

(™p£gein) l’universale (tÕ kaqÒlou) attraverso l’induzione fondata sui casi singoli (tÍ kaq' ›kasta [...] ™pagwgÍ), che risultano simili (™pˆ tîn Ðmo…wn): non è invero facile indurre

(™p£gein), quando non si conoscono le somiglianze (t¦ Ómoia) degli oggetti». Sembra che la ™pagwg» consista principalmente nella ricerca di similitudini e nella costituzione di un

universale a partire da esse. La ™pagwg» si presenta, di conseguenza, come condizione di

possibilità della nozione stessa di universale. Nei “Metafisici” (I 1, 981a 7) il filosofo ellenico mostra che la conoscenza scientifica si produce nella misura in cui un universale si costituisce a partire da una molteplicità di apprendimento di casi simili (t¦ Ómoia), quindi, a partire dal

momento in cui da una molteplicità di enunciati che esprimono casi simili si può stabilire una proposizione universale. Così, da insiemi di conoscenze empiriche si forma una conoscenza universale, un giudizio universale (kaqÒlou) a partire da diversi giudizi particolari però simili

(t¦ Ómoia).

La captazione delle somiglianze costituisce uno dei quattro strumenti metodologici che i “Topici” (I 14–17) considerano elementi costitutivi della dialettica, dove gli altri tre sono l’elezione delle proposizioni, la distinzione dei diversi sensi e l’analisi delle differenze. ARISTOTELE associa la captazione delle somiglianze al problema della ™pagwg». Nel momento

in cui segnala che la ™pagwg» suppone la captazione delle somiglianze, il nostro autore non

sta pensando ad un’attività intuitiva qualsiasi, ma piuttosto ad un processo del pensiero stesso; questo è così per qualsiasi forma di ™pagwg». La produzione dell’universale richiede

un’attività realmente produttiva come quella che si sviluppa principalmente nell’ordine della captazione delle somiglianze. L’analisi della costituzione dell’universale per mezzo della

™pagwg», così come è presentata negli “Analitici Secondi” (II 19), non è altro che un riassunto

di tutte queste idee.

La captazione delle somiglianze conduce al discernimento dell’identità (taÙtÒn). Da qui,

l’importanza della nozione d’identità, con la quale l’autore inizia il suo studio sui predicabili nei “Topici” (I 7). Il nostro autore distingue tra identità ‘numerica’ (¢riqmù), identità ‘specifica’

(e‡dei) e identità ‘generica’ (gšnei), considerando l’identità numerica quella fondamentale.

Questo porta nei “Topici” (I 7, 103a 25–31) alla seguente affermazione: «Anche questo tuttavia si esprime solitamente in molte guise: anzitutto —ed è il senso piú pertinente— quando si significa l’identità attraverso un nome o una definizione, dicendo ad esempio che soprabito è identico a mantello, e animale terrestre bipede è identico a uomo; in secondo luogo, quando si fornisce l’identità attraverso il proprio (‡dion), come ciò che è suscettibile di

apprendere la scienza si dice identico all’uomo, e ciò che per la natura delle cose è portato in alto si dice identico al fuoco; in terzo luogo infine, quando si trae l’identità dall’accidente (sumbebhkÒj), affermando ad esempio che l’oggetto seduto oppure l’oggetto versato nelle arti

è identico a Socrate. In effetti, tutte queste espressioni vogliono significare l’unità numerica». Se è possibile l’identità si verifica perchè la relazione tra soggetto e predicato è di ordine sinonimico. L’universale che produce la captazione delle somiglianze è quindi di ordine empirico. Su questo principio si basa la formazione delle nozioni prime, dei concetti. L’universale aristotelico non è l’universale platonico, ma presenta uno statuto particolare. A partire da qui la ™pagwg» rende possibile la conoscenza empirica stessa. Come afferma

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129 empirica è cronologicamente precedente, non lo è ontologicamente, posto che la molteplicità degli individui che appare all’anima nella costituzione dell’universale, sarà considerata unicamente dall’anima nella misura in cui gli individui presentino una certa identità tra di essi» (Couloubaritsis 1980: 466). L’identità concepita così costituisce l’universale, caratterizzato dalla sua atemporalità e dall’essere scientificamente conoscibile. Il noàj e gl’intelligibili sono una

cosa sola e contemporaneamente sono la stessa cosa. La ™pagwg» scopre e produce

l’universale e nel momento in cui lo scopre e lo produce ne realizza il noàj, lo attualizza.

Di conseguenza i problemi della ™pagwg» e del noàj, presenti negli “Analitici Secondi” (II

19, 100a 3–b 5 e 100b 5–17, rispettivamente), non sembrano incompatibili. Niente ci permette di affermare che esiste in quest’opera una conoscenza intuitiva rappresentata dalla nozione di

noàj. Con il termine noàj si vuol generalmente indicare l’intellezione. Inoltre, nell’ordine della

conoscenza dei principi sembra che il nostro autore intenda per noàj il risultato e la

conclusione di un processo determinato. La ™pagwg» è quella che esprime questo processo.

Alla fine degli “Analitici Secondi” lo stagirita mette in parallelo l’oggetto della scienza e l’oggetto del noàj, e ciò ci permette affermare che il noàj è una sola cosa insieme al suo

oggetto. Il termine noàj deve intendersi come un termine generico che esprime l’inteleggibilità

stessa del reale, intelligibilità che solo l’attività complessa della ™pagwg» rende accessibile

all’uomo attraverso la comprensione.

Per finire, segnaliamo tre aspetti essenziali per la polemica aristotelica dell’intellezione. Primo, il noàj viene visto come realtà in potenza degli intelligibili. Secondo, il nostro autore

situa in contrasto con questa realtà in potenza l’esistenza di realtà del mondo materiale nelle quali ognuno degli intelligibili esiste solo (mÒnon) in potenza, di modo che l’intelletto (noàj) ha

come oggetto l’intelligibile (tÕ nohtÕn). Terzo ed ultimo, se l’oggetto del noàj è tÕ nohtÕn,

allora qualsiasi realtà materiale non è accessibile che per la sensazione e che questa rende possibile l’attualizzazione del noàj.

Rendendo concreti tutti questi aspetti, l’“Etica Nicomachea” (VI 11, 1143a 35–b 5) riferendosi al noàj afferma che «l’intelligenza (noàj) ha per oggetto i termini ultimi, in

entrambi i sensi; infatti sia i termini primi che i termini ultimi costituiscono il dominio dell’intelligenza (noàj) e non del ragionamento (lÒgoj): vi è infatti un’intelligenza (noàj) che,

per le dimostrazioni, apprende i termini immobili e primi, ed un’intelligenza che nelle dimostrazioni di ordine pratico apprende il termine ultimo e contingente, vale a dire la seconda premessa. Infatti queste premesse sono principî del fine a cui tendere. È infatti dai particolari che si perviene agli universali. Di questi particolari si deve dunque avere una percezione (a‡sqhsin), ed essa è l’intelligenza (noàj)». Così, la conoscenza dei principi da

parte del noàj non implica assolutamente la conoscenza intuitiva, ma piuttosto un processo

molto più complesso.

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