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Verso la fine del capitolo 9 di “Sull’Interpretazione” (9, 19a 33) il filosofo ellenico introduce la soluzione al problema delle proposizioni singolari sul futuro appellando ad un principio generale della sua filosofia: «i discorsi sono veri analogamente (Ðmo…wj oƒ lÒgoi ¢lhqe‹j) a come lo sono gli oggetti (ésper t¦ pr£gmata)». Questa affermazione riflette,

secondo gli interpreti, una teoria sommaria della verità come piena corrispondenza delle ‘parole’ (lÒgoi) con le ‘cose’ (pr£gmata). Qual è la funzione che ha questo principio nella

soluzione di un problema come quello dei futuri contingenti? Il capitolo di “Sull’Interpretazione” discute e combatte un argomento chiamato determinista, il quale deduce dalla verità o falsità di tutte le proposizioni, la necessità di ciò che succede. Fino a che

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punto è possibile parlare di verità o falsità anche per gli accadimenti futuri?

Fin dai primi decenni del secolo XX questo testo aristotelico è diventato un problema, come dimostra il rinnovato interesse di cui è stato oggetto (Łukasiewicz 1930, Schlick 1931, Scholz 1931, Baylis 1936, Becker 1936, Du Lac 1949, Baudry 1950, Williams 1951, Weiss 1952, Prior 1953, Quine 1953, Linsky 1954, Viano 1954, Butler 1955, Prior 1955, Anscombe 1956, Grant 1967, Lenz 1957, Łukasiewicz 1951, Taylor 1957, Albritton 1957, Saunders 1958, King–Farlow 1958, Bradley 1959, Patzig 1959, Sambursky 1959, Schuhl 1960, Strang 1960, Wolff 1960, Kneale 1962, Taylor 1962, Rescher 1963, Burrell 1964, Hintikka 1964, Ihring 1965, Prior 1967, Cahn 1967, Calongero 1968, Sainati 1968, Frede 1970, Morpurgo Tagliabue 1971, Wieland 1972, McKim 1972, Celluprica 1977, Donini 1989, Gaskin 1995).

L’interesse per la problematica che presenta il capitolo 9 di “Sull’Interpretazione” non è tanto di indole storica quanto filosofica. Leggere questo testo filosoficamente ci porta, da un lato a considerare l’importanza di un’interpretazione che situi il testo in una collocazione storica e, da un’altra parte, ci fa chiedere fino a che punto si può prescindere da un’approssimazione filologica nella comprensione di un testo filosofico. Prima di affrontare l’esame delle interpretazioni del testo bisogna indicare grosso modo i punti più problematici che hanno occupato in misura maggiore la critica. Lo schema espositivo è molto semplice. È possibile dividere il testo in tre parti: 1) Int. 9, 18a 28–34; 2) Int. 9, 18a 34–19a 6; 3) Int. 9, 19a 7–fino alla fine.

Dopo aver definito, nel capitolo 4, il discorso apofantico come quel discorso al quale compete essere vero o falso e dividere, nel capitolo 5, i discorsi apofantici in ‘affermazione’ (kat£fasij) e ‘negazione’ (¢pÒfasij), il nostro autore tratta, nel capitolo 7, delle relazioni tra

vari tipi di ¢pof£nseij, quindi, di ‘giudizi’. Si considerano tre esempi. Primo, il caso in cui due

giudizi affermano rispettivamente l’appartenenza o la non appartenenza di qualcosa ad un oggetto universale presentato sotto forma universale come per esempio “ogni uomo è bianco” e “nessun uomo è bianco”, tra queste susiste una relazione di contraddizione (œsontai ™nant…ai); questo significa che entrambi i giudizi possono essere veri allo stesso tempo, però il

fatto che uno dei due sia falso non implica che l’altro debba essere vero. Secondo, se si afferma l’appartenenza e la non appartenenza ad un oggetto universale, però non presentato in forma universale, come per esempio “uomo è bianco” e “uomo non è bianco”, i due giudizi non saranno contrari, visto che sono ‘indefiniti’, e possono essere entrambi veri. In ultima analisi, se esiste una relazione di contraddizione tra affermazione e negazione (¢ntike‹sqai ¢ntifatikîj), quando un giudizio afferma all’appartenenza ad un oggetto in forma universale

e l’altro la non appartenenza in forma particolare e viceversa: per esempio, “ogni uomo è bianco ” e “qualche uomo non è bianco” o “nessun uomo è bianco” e “qualche uomo è bianco”. In un insieme di giudizi contraddittori è necessario che uno sia vero e l’altro falso (¢n£gkh t¾n ˜tšran ¢lhqÁ enai À yeudÁ).

In “Sull’Interpretazione” (9, 18a 27–34) lo stagirita fa un riassunto delle tesi esposte fin qui, però introduce un elemento nuovo rispetto ai capitoli precedenti, la determinazione temporale, per cui i giudizi si classificano in base al fatto di riferirsi al passato, al presente e al futuro. Si dice così che rispetto a ciò che è, è necessario che ogni affermazione o negazione sia vera o falsa (¢n£gkh t¾n kat£fasin À t¾n ¢pÒfasin ¢lhqÁ À yeudÁ enai). Segue una

precisazione rispetto alla quantità dei giudizi. In primo luogo, se l’affermazione o negazione si riferisce ad un oggetto universale preso universalmente o ad un oggetto singolo, si avrà sempre una vera ed una falsa (¢eˆ t¾n mn ¢lhqÁ t¾n d yeudÁ). In secondo luogo, se in

cambio si riferiscono ad un oggetto universale non considerato universalmente, questo non è necessario. La novità è rappresentata dai giudizi singolari sul futuro che si definiscono oÙc

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Ðmo…wj. Bisogna capire che per questi non serve il principio secondo cui ¢n£gkh t¾n kat£fasin À t¾n ¢pÒfasin ¢lhqÁ À yeudÁ enai. Uno dei problemi più discussi se

riferisce precisamente all’uso aristotelico delle espressioni ¢n£gkh t¾n kat£fasin À t¾n ¢pÒfasin ¢lhqÁ À yeudÁ enai e t¾n mn ¢lhqÁ t¾n d yeudÁ.

ARISTOTELE presenta in “Sull’Interpretazione” (9, 18a 34–b 9) una prima dimostrazione delle conseguenze che sono derivate dall’accettazione, incluso per i giudizi singoli su fatti del futuro, del seguente principio: «se tra affermazione e negazione, in ogni caso, una dev’essere vera e l’altra invece falsa, risulta altresí necessario che ogni determinazione appartenga oppure non appartenga ad un oggetto». Se uno dice che qualcosa sarà e l’altro dice che non sarà, è necessario che uno dei due dica la verità. E se è vero dire che qualcosa è bianco o non è bianco, è necessario che sia bianco o non bianco, se qualcosa è bianco o no, era vero affermare o negare la cosa. Il nostro autore conclude che il ragionamento è valido, «nulla è né diviene per caso, o secondo due possibilità indifferenti (oÙdn ¥ra oÜte œstin oÜte g…gnetai oÜte ¢pÕ tÚchj oÜq' ÐpÒter' œtucen)».

La seconda parte dell’argomento determinista esposta in “Sull’Interpretazione” (9, 18b 9– 16) chiarisce come dalla verità di una proposizione consegue la necessità del fatto affermato. Il procedimento è il seguente: se qualcosa è bianco ora, era vero prima dire che fosse bianco, in modo che è sempre vero dire di qualsiasi delle cose che arrivano ad essere lo sarebbe state. E se sempre era vero dire che è o che sarà non è possibile che una tale cosa non sia o non arrivi ad esserlo. Tutto ciò che sarà è necessario che arrivi ad essere. Niente succede per caso. Sulla validità di questa argomentazione la critica ha lavorato in modo particolarmente accurato, posto che solo se il procedimento è valido e non vuole accettare la conclusione —come fa lo stagirita— non resta altra cosa che reputare anche le premesse. In che modo lo fa il nostro autore è la questione su cui si separano gli interpreti. Segue un passaggio in “Sull’Interpretazione” (9, 18b 17–25) nel quale si dice che non è possibile sfuggire all’argomento determinista affermando che nessuna delle due ipotesi sia vere (¢ll¦ mn oÙd' æj oÙdšterÒn ge ¢lhqj ™ndšcetai lšgein, oŒon Óti oÜt' œstai oÜte oÙk œstai), posto

che nel caso per esempio di una battaglia navale sarebbe necessari dire se domani avverrà o no, cosa che è assurda.

Nella parte centrale del capitolo 9 di “Sull’Interpretazione” (9, 18b 26–19a 23) si fanno due osservazioni. La prima è che se si accetta la conclusione determinista che afferma che tutto succede per necessità, non sarà necessario deliberare, visto che in ogni caso succederà ciò che sarebbe dovuto succedere. La seconda osservazione è, fino ad un certo punto una correzione, della forma nella quale si presentava l’argomento determinista. In “Sull’Interpretazione” (9, 18a 35) abbiamo quest’affermazione «quando una persona affermi che un oggetto sarà qualcosa ed un’altra neghi questa stessa attribuzione, è chiaro che una delle due persone deve necessariamente dire la verità», e per questo si passa a considerare il caso in cui un’asserzione è vera. In questo stesso testo si precisa che non è importante che due persone pronuncino due asserzioni contraddittorie tra loro, posto che ciò che importa è la verità o la falsità delle asserzioni, indipendentemente dal fatto che siano o no pronunciate (9, 18b 36–38). La prima delle due osservazioni è stata oggetto di speciale attenzione, visto che lo stagirita afferma che dal determinismo derivano conseguenze fatali, come ad esempio l’impossibilità per l’uomo di modificare con le sue azioni il corso degli accadimenti.

Dopo aver esposto l’argomento determinista e aver segnalato l’assurdità dello stesso, il nostro autore propone, nella parte finale del capitolo 9 di “Sull’Interpretazione” (9, 19a 23– 39), la sua soluzione al problema. In primo luogo afferma che è evidente (Ðrîmen) che i fatti

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sempre in atto hanno la possibilità di arrivare a non essere. La premessa dalla quale parte qui il nostro autore è quella della libertà umana, che sta alla base della sua etica e la contingenza, elemento anch’esso fondamentale nella sua ontologia.

Segue un’importante distinzione tra due concetti di necessità con la quale collega il resto del capitolo (9, 19a 23–26): «Che ciò che è sia, quando è (tÕ mn oân enai tÕ ×n Ótan Ï), e

che ciò che non è non sia, quando non è (kaˆ tÕ m¾ ×n m¾ enai Ótan m¾ Ï), risulta certo

necessario; non é però necessario, che tutto ciò che è sia, né che tutto ciò che non è non sia (oÙ mšntoi oÜte tÕ ×n ¤pan ¢n£gkh enai oÜte tÕ m¾ ×n m¾ enai)». Di fatto non è lo

stesso l’essere necessario di tutto ciò che è, quando è e l’essere necessario in senso assoluto (¡plîj). Lo stagirita afferma che lo stesso discorso vale per la contraddizione, sostenendo che

«per necessità ogni oggetto è o non è, come pure, sarà o non sarà», però non è necessario dire una delle due cose separatamente all’altra. Così come si può leggere in “Sull’Interpretazione” (9, 19a 27–32) necessariamente per esempio domani ci sarà o non ci sarà una battaglia navale, però non necessariamente domani ci sarà una battaglia navale o necessariamente non ci sarà una battaglia navale.

Il passo seguente è introdotto da un éste che lo unisce al precedente e che costituisce la

parte più discussa di tutto il capitolo, visto che la sua interpretazione è decisiva per comprendere la tesi che il nostro autore contrappone al determinismo. Si afferma qui che gli enunciati sono veri in maniera simile alle cose reali e che come queste possono succedere indifferentemente secondo due possibilità (Ósa oÛtwj œcei éste ÐpÒter' œtuce kaˆ t¦ ™nant…a ™ndšcesqai), è necessario che comportino in maniera simile la contraddizione. Così,

rispetto alle cose che non sempre sono e non sempre non sono, necessariamente una parte della contraddizione dev’essere vera o falsa (¢n£gkh mn q£teron mÒrion tÁj ¢ntif£sewj ¢lhqj enai yeàdoj), non questa o quella, ma qualsiasi a caso, e può succedere che una sia

più vera che l’altra (oÙ mšntoi tÒde À tÒde ¢ll' ÐpÒter' œtucen, kaˆ m©llon mn ¢lhqÁ t¾n ˜tšran, oÙ mšntoi ½dh ¢lhqÁ À yeudÁ).

Una prima lettura di questo capitolo mostra in che misura sono presenti nel testo problemi ermeneutici che giustificano l’interesse e la difficoltà interpretativa che ha suscitato già dall’antichità.

«Rispetto agli oggetti che sono ed a quelli che sono stati, è dunque necessario che tra l’affermazione e la negazione una risulti vera e l’altra invece falsa (¢n£gkh t¾n kat£fasin À t¾n ¢pÒfasin ¢lhqÁ À yeudÁ enai): si avrà sempre un giudizio vero contrapposto ad un giudizio falso (¢eˆ t¾n mn ¢lhqÁ t¾n d yeudÁ), sia riguardo agli oggetti universali, presentati in forma universale, sia riguardo agli oggetti singolari, come già si è detto. Riguardo invece agli oggetti universali, che non sono espressi in forma universale, ciò non risulta necessario, ed in proposito si è pure parlato. D’altro canto, rispetto agli oggetti singolari che saranno (™pˆ d tîn kaq' ›kasta kaˆ mellÒntwn), le cose si presentano diversamente (oÙc Ðmo…wj). In effetti, se tra affermazione e negazione, in ogni caso, una dev’essere vera e l’altra invece falsa, risulta altresí necessario che ogni determinazione appartenga oppure non appartenga ad un oggetto; di conseguenza, quando una persona affermi che un oggetto sarà qualcosa ed un’altra neghi questa stessa attribuzione, è chiaro che una delle due persone deve necessariamente dire la verità, se si ammette che ogni affermazione sia vera oppure falsa. Entrambe le determinazioni non potranno infatti appartenere simultaneamente a tali oggetti. In realtà, se è vero dire che un oggetto è bianco, oppure che non è bianco, esso sarà necessariamente bianco, oppure non sarà bianco, e d’altra parte, se un oggetto è bianco, oppure non è bianco, era vero affermare oppure negare la cosa. Del pari, se la determinazione non appartiene all’oggetto, chi l’attribuisce a questo dice il falso, e d’altro canto, se chi attribuisce la determinazione all’oggeto dice il falso, la determinazione non appartiene all’oggetto. In tal caso è dunque necessario, che tra l’affermazione e la negazione una risulti vera e

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133 l’altra invece falsa. Ed allora, nulla è né diviene per caso, o secondo due possibilità indifferenti (oÙdn ¥ra oÜte œstin oÜte g…gnetai oÜte ¢pÕ tÚchj oÜq' ÐpÒter' œtucen), e nulla potrà essere o non essere; tutte le cose risultano piuttosto determinate per necessità, e non sussiste alcuna indifferenza tra due possibilità (in effetti, la verità è detta o da chi afferma o da chi nega), poiché altrimenti qualcosa potrebbe indifferentemente prodursi oppure non prodursi: ciò che può accadere in due modi indifferenti non è infatti, né sarà, in una certa situazione piuttosto che nella situazione contrapposta. Oltre a ciò, se qualcosa è adesso bianco, era vero in precedenza dire che sarebbe poi stato bianco; di conseguenza, è sempre stato vero dire rispetto a qualsivoglia oggetto prodottosi, che sarebbe poi stato. E cosí, se è sempre stato vero dire che un oggetto era o sarebbe poi stato, non è possibile che questo non fosse o che non fosse poi stato. Ciò che non è possibile, d’altro canto, che non si sia prodotto, è impossibile che non si sia prodotto; inoltre, ciò che è impossibile che non si sia prodotto, è necessario che si sia prodotto. Per tutti gli oggetti che sarebbero poi stati, è dunque necessario che si siano prodotti. Di conseguenza, nulla potrà essere secondo due possibilità indifferenti, o per caso: se un qualcosa avvenisse infatti per caso, non sarebbe piú determinato per necessità. Neppure certo si può dire che vera non è né l’affermazione né la negazione, sostenendo ad esempio che un qualcosa né sarà né non sarà (¢ll¦ mn oÙd' æj oÙdšterÒn ge ¢lhqj ™ndšcetai lšgein, oŒon Óti oÜt' œstai oÜte oÙk œstai). In tal caso risulterebbe anzitutto necessario, che la negazione non sia vera, quando l’affermazione è falsa, e che l’affermazione non sia vera, quando la negazoine è falsa. Oltre a ciò, se risulta vero il dire che un oggetto è bianco e grande, è allora necessario che entrambe le determinazioni appartengano all’oggetto, e se d’altro canto è vero il dire che tali determinazioni apparterranno domani all’oggetto, esse vi apparterranno domani necessariamente. Se per contro domani un qualcosa né sarà né non sarà, ciò che può accadere in due modi indifferenti —ad esempio una battaglia navale— non potrà realizzarsi: si dovrebbe dire, in effetti, che la battaglia navale né si verifica né non si verifica.

Alle suddette conclusioni assurde, e ad altre consimili, si giunge dunque, se davvero si vuol sostenere, a proposito di ogni affermazione e di ogni negazione —si riferiscano poi queste ad oggetti universali, presentati in forma universale, oppure ad oggetti singolari— che uno dei due giudizi contrapposti è necessariamente vero, mentre l’altro è falso, e se si vuol dire che nulla tra ciò che diviene può sussistere in due modi indifferenti, ma che piuttosto tutte le cose sono e divengono per necessità. In tal modo, non occorrerebbe piú che noi prendessimo delle decisioni, né che ci sforzassimo laboriosamente, con la convinzione che compiendo una determinata azione si verificherà un determinato fatto, e che non compiendo invece una determinata azione non si verificherà un determinato fatto. Nulla impedisce, in effetti, che un uomo predica anche di dieci mila anni la realtà di un fatto, e che un altro uomo neghi tale affermazione; di conseguenza, si verificherà necessariamente quella delle due cose, non importa quale, che già all’atto della predizione era vero dire. Né certo ha alcuna importanza, che delle persone abbiano pronunciato o meno due giudizi contradditorî: in realtà, è evidente che i fatti sono quelli che sono, anche se un uomo non ha affermato qualcosa ed un altro uomo non l’ha negato. Non è infatti per la circostanza di essere stato negato, oppure affermato, che un qualcosa sarà o non sarà, e che un avvenimento si verificherà dopo dieci mila anni, piuttosto che non in qualsiasi altro momento di tempo. Di conseguenza, se in ogni tempo la situazione delle cose ha fatto sí che fosse allora vero esprimere l’affermazione oppure la negazione, era cosí già necessario che questo fatto si sia prodotto, e tutto ciò che si è prodotto sia sempre in una situazione tale da prodursi per necessità. Ciò infatti, di cui si è detto secondo verità che sarà, non è possibile che non si produca; del pari, rispetto a ciò che si produce, è sempre stato vero dire che sarà.

Senza dubbio, bisogna ammettere che queste asserzioni risultano impossibili. Noi vediamo (Ðrîmen) infatti che gli eventi futuri prendono principio dalle deliberazioni (¢rc¾ tîn ™somšnwn kaˆ ¢pÕ toà bouleÚesqai) e dalle azioni (kaˆ ¢pÕ toà pr©xa… ti), e che in linea generale agli oggetti che non sempre sono in atto tocca indifferentemente il potere di essere o di non essere; per tali oggetti entrambe le cose sono possibili, sia l’essere che il non essere, cosicché risultano possibili sia il divenire che il non divenire. E molti oggetti si comportano evidentemente a questo modo; ad esempio, un determinato mantello ha la possibilità di venir tagliato in due, eppure non

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sarà tagliato, ma si logorerà prima di allora. Per tale mantello sussiste poi ugualmente la possibilità di non venir tagliato in due, dato che esso non risulterebbe consunto in precedenza, se non fosse davvero in grado di non essere tagliato in due. Di conseguenza, ciò si dirà pure di tutti gli altri aspetti del divenire, cui va attribuito un cosifatto potere. È dunque evidente, che non tutti gli oggetti sono o divengono per necessità; si deve dire piuttosto, che alcuni oggetti possono accadere indifferentemente in due modi, caso in cui l’affermazione non risulta affatto piú vera della negazione, e che a riguardo di altri oggetti una delle due possibilità è preminente e si verifica con maggior frequenza, nonostante che anche la seconda possibilità possa presentarsi, e non si verifichi allora la prima.

Che ciò che è sia, quando è, e che ciò che non è non sia, quando non è, risulta certo necessario; non é però necessario, che tutto ciò che è sia, né che tutto ciò che non è non sia (TÕ mn oân enai tÕ ×n Ótan Ï, kaˆ tÕ m¾ ×n m¾ enai Ótan m¾ Ï, ¢n£gkh: oÙ mšntoi oÜte tÕ ×n ¤pan ¢n£gkh enai oÜte tÕ m¾ ×n m¾ enai). In effetti, l’essere per necessità di tutto ciò che è, quando è, non equivale all’essere per necessità, assolutamente (¡plîj), di tutto ciò che è. Similmente si dica per ciò che non è. Del pari, lo stesso discorso vale per i giudizi contraddittorî in proposito. Certo, per necessità ogni oggetto è o non è, come pure, sarà o non sarà, ma non è davvero necessario dire una delle due cose, separata dall’altra. Con ciò intendo dire, ad esempio, che necessariamente domani vi sarà una battaglia navale, oppure non vi sarà, ma che non è tuttavia necessario che domani vi sia una battaglia navale, né d’altra parte è necessario che domani non vi sia una battaglia navale. Ciò che invece risulta necessario, è che domani avvenga o non avvenga una battaglia navale. Di conseguenza (éste), dal momento che i discorsi sono veri analogamente a come lo sono gli oggetti, è chiaro che a proposito di tutti gli oggetti, costituiti cosí da accadere indifferentemente in due modi, secondo delle possibilità contrarie (Ósa oÛtwj œcei éste ÐpÒter' œtuce kaˆ t¦ ™nant…a ™ndšcesqai), anche la contraddizione si comporterà necessariamente in maniera simile. È appunto ciò che avviene riguardo agli oggetti che non sono sempre, oppure a quelli che non sempre non sono. In tali casi è infatti necessario che una delle due parti della contraddizione sia vera e l’altra invece falsa, ma non è tuttavia necessario che una determinata parte sia vera oppure falsa; sussiste piuttosto un’indifferenza tra due possibilità, e quand’anche uno dei due casi risulti piú vero, la verità e la falsità non saranno tuttavia già decise sin da principio (¢n£gkh mn q£teron mÒrion tÁj ¢ntif£sewj ¢lhqj enai yeàdoj, oÙ mšntoi tÒde À tÒde ¢ll' ÐpÒter' œtucen, kaˆ m©llon mn ¢lhqÁ t¾n ˜tšran, oÙ mšntoi ½dh ¢lhqÁ À yeudÁ).

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