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Il bene, una volta introdotto nell’anima grazie alla fantas…a, è presente in lei come

oggetto intenzionale. Il passo che segue è il desiderio. La parte desiderativa dell’anima svolge un ruolo fondamentale nel ragionamento pratico. Esattamente questa connessione con il desiderio è la caratteristica fondamentale che separa l’intelletto pratico da quello teorico. Nelle pagine che seguono indagherò la connessione tra il desiderio e la ragione, essenziale per comprendere il senso della teoria aristotelica dell’azione.

L’essere umano si chiama in tanti modi, come in tanti modi si può dire vivere però il principio motore è unico. In “Sull’anima” (III 10) si esamina nel dettaglio l’ipotesi secondo la quale ‘intelletto pratico’ (praktikÕj noàj) è un ‘principio motore’ (kinoàn). Rapidamente il

nostro autore scarta questa ipotesi per concludere sull’unità del kinoàn nella forma del ÑrektikÒn: «Uno solo, dunque, è il motore primo, la facoltà appetitiva» (Aristot. An. III 10,

433a 21). Se la divisione in parti è reale, il numero delle parti sarà infinito, visto che dovrà identificarsi con la molteplicità delle parti del corpo, divisibile all’infinito, come qualsiasi materia, e anche con la molteplicità degli atti dell’anima (Aristot. An. III 10, 433b 2). Questo sarebbe solo un fallimento per lo stagirita. Così, dopo aver affermato l’identità del desiderio e della facoltà motrice (Aristot. An. III 10, 433a 31), critica coloro che dividono l’anima in parti reali (Aristot. An. III 10, 433b 1–6). Questa separazione viene rifiutata alludendo al numero infinito di facoltà che una separazione del genere comporterebbe. Studiamo nel dettaglio il testo:

«Ad ogni modo appare che due sono i princìpi del movimento (kinoànta), o l’appetito o l’intelletto (À Ôrexij À noàj), se però consideriamo l’immaginazione (fantas…an) come una specie di intellezione (nÒhs…n tina) —e, in effetti, spesso molti uomini, tralasciata la scienza (par¦ t¾n ™pist»mhn), seguono le immaginazioni (fantas…aij) e negli altri animali non c’è intellezione né ragionamento, ma solo immaginazione (oÙ nÒhsij oÙd logismÕj œstin, ¢ll¦ fantas…a). Entrambi questi, dunque, possono produrre il movimento locale (kinhtik¦ kat¦ tÒpon), intelletto e appetito (noàj kaˆ Ôrexij): l’intelletto, quello cioè che ragiona in vista di uno scopo (Ð ›nek£ tou logizÒmenoj), è quindi intelletto pratico (noàj [...] Ð praktikÒj): esso si differenzia per il fine (tù tšlei) teoretico (qewrhtikoà). L’appetito, a sua volta, ha sempre in vista uno scopo (¹ Ôrexij <d'> ›nek£ tou p©sa), perché ciò di cui si ha appetito è, proprio questo, principio dell’intelletto pratico (¢rc¾ toà praktikoà noà) e quel che è l’ultimo (œscaton) è il principio dell’azione. Di conseguenza, appare ragionevole che questi due siano i principi del movimento (t¦ kinoànta), appetito e pensiero pratico (Ôrexij kaˆ di£noia praktik»), giacché l’appetibile (tÕ ÑrektÕn) muove (kine‹) e la ragione in tanto muove in quanto suo principio è l’appetibile (tÕ ÑrektÒn). Anche l’immaginazione (fantas…a), quando muove, non muove senza l’appetito (Ótan kinÍ, oÙ kine‹ ¥neu Ñršxewj). Uno solo, dunque, è il motore primo (tÕ kinoàn), la facoltà appetitiva (tÕ ÑrektikÒn): se fossero due a muovere, intelletto e appetito (noàj kaˆ Ôrexij), muoverebbero in virtù d’un carattere comune: ora, come si vede, l’intelletto non muove senza l’appetito (¥neu Ñršxewj); in realtà, la volizione (boÚlhsij) è una forma di appetito (Ôrexij) e quando ci si muove seguendo un ragionamento (kat¦ tÕn logismÕn), ci si muove anche seguendo la volizione. L’appetito muove anche contro il ragionamento (par¦ tÕn logismÒn) perché il desiderio è una specie di appetito (™piqum…a Ôrex…j t…j ™stin). L’intelletto è sempre retto: l’appettito, invece, e l’immaginazione (Ôrexij d kaˆ fantas…a) possono essere retti e non retti. Pertanto, quel che muove è sempre l’appetibile (tÕ ÑrektÒn), ma questo può essere un bene reale o un bene apparente (À tÕ ¢gaqÕn À tÕ fainÒmenon ¢gaqÒn), non però un bene qualunque, ma sempre un bene pratico (tÕ praktÕn ¢gaqÒn). Bene pratico è quello che ammette di essere

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anche altrimenti (tÕ ™ndecÒmenon kaˆ ¢llwj œcein).

Che dunque è siffatta facoltà (dÚnamij) dell’anima chiamata appetito a produrre il movimento, è evidente. Quanto a quelli che distinguono le parti dell’anima, se la distinguono e la dividono secondo le sue potenze (kat¦ t¦j dun£meij), ne risultano moltissime: nutritiva (qreptikÒn), sensitiva (a„sqhtikÒn), noetica (nohtikÒn), deliberativa (bouleutikÒn) e anche appetitiva (ÑrektikÒn), ché queste differiscono tra loro più che la parte desiderativa (™piqumhtikÕn) dall’impulsiva (qumikÒn). E poiché nascono appetiti contrari l’uno all’altro, il che càpita quando la ragione e gli appetiti siano contrari e si verifica negli esseri che hanno la percezione del tempo (™n to‹j crÒnou a‡sqhsin); perché l’intelletto (noàj) comanda di resistere in vista del futuro (di¦ tÕ mšllon), mentre il desiderio (™piqum…a) è mosso dall’immediato —e, infatti, ciò che è immediatamente dilettevole (¹dÝ [...] ¡plîj) gli appare assolutamente dilettevole e assolutamente buono (¢gaqÕn ¡plîj), proprio perché non vede il futuro (tÕ mšllon), quindi il principio motore (tÕ kinoàn) sarà specificamente uno e cioè la facoltà appetitiva in quanto appetitiva (tÕ ÑrektikÒn, Î ÑrektikÒn) e, in ultima analisi, l’oggetto appetibile (tÕ ÑrektÒn), perché questo muove senza essere mosso (kine‹ oÙ kinoÚmenon) per il solo fatto di essere pensato immaginato —ma numericamente i motori (t¦ kinoànta) saranno molteplici.

Il movimento suppone tre cose: primo, il motore (tÕ kinoàn), secondo, ciò con cui muove (ù kine‹), terzo il mosso (tÕ kinoÚmenon). Il motore (tÕ d kinoàn) a sua volta è duplice, uno immobile (tÕ mn ¢k…nhton), l’altro motore e mosso (tÕ d kinoàn kaˆ kinoÚmenon). Qui, motore immobile è il bene pratico (œsti d tÕ mn ¢k…nhton tÕ praktÕn ¢gaqÒn), motore e mosso, la facoltà appetitiva (tÕ d kinoàn kaˆ kinoÚmenon tÕ ÑrektikÒn); perché ciò che è mosso, è mosso in quanto appetisce, e l’appetito è una sorta di movimento (k…nhs…j t…j) o piuttosto un atto (¹ ™nerge…v), mosso (tÕ d kinoÚmenon), poi, è l’animale. Infine lo strumento (Ñrg£nJ) col quale l’appetito muove è già una cosa corporea: pertanto se ne deve trattare a proposito delle funzioni comuni al corpo e all’anima. Comunque, per dirla sommariamente, ciò che produce il movimento (tÕ kinoàn) per mezzo di organi si trova, dove principio e fine coincidono, com’è ad esempio la giuntura: là, infatti, il convesso e il concavo sono rispettivamente fine e principio (e per questo l’uno è fermo, l’altro in movimento): logicamente sono distinti, ma secondo la grandezza inseparabili. Perché ogni animale si muove o per spinta o per trazione: bisogna quindi che ci sia, come in un cerchio, un punto fermo e che di qui abbia inizio il movimento (t¾n k…nhsin).

In generale, dunque, come è stato detto, è in quanto appetisce (Î ÑrektikÕn) che l’animale può muoversi (aØtoà kinhtikÒn) e non appetisce senza l’immaginazione (ÑrektikÕn d oÙk ¥neu fantas…aj). L’immaginazione è sempre razionale o sensitiva (fantas…a d p©sa À logistik¾ À a„sqhtik»): di quest’ultima partecipano anche gli altri animali» (Aristot. An. III 10, 433a 9–b 30).

Sono quattro le tesi principali esposte dal filosofo ellenico in De Anima III 10 (Irwin 1988: §§ 174–178, 330–336 e § 191, 359–360). Primo, gli animali hanno la facoltà di muoversi localmente visto il loro motore. Il principio interno di questo movimento è il ‘desiderio’ (Ôrexij), o la ‘facoltà desiderosa? (ÑrektikÒn); secondo, il desiderio è, di per se stesso ‘messo

in movimento’ dall’‘ogetto del desiderio’ (ÑrektikÒn), che il nostro autore in “Sull’Anima” (III

10, 433b 16) designa come il ‘bene pratico’ (tÕ pr£kton ¢gaqÒn). Terzo, il desiderio non si

può esercitare senza l’‘immaginazione’ (fantas…a). Si tratta tanto dell’‘immaginazione

sensitiva’(fantas…a a„sqhtik»), che si trova apparentemente in tutti gli animali, che siano o

no razionali (An. III 10, 433b 30, 434a 5) quanto dell’‘immaginazione calcolatrice’ (fantas…a logistik») (An. III 10, 433b 29), chaimata anche ‘deliberativa’ (bouleutik») (An. III 10, 434a

7), che solamente appartiene agli animali ‘razionali’ (logistikoˆ) (Irwin 1988: §§ 174–178,

330–336 e § 191, 359–360). Alla fine l’animale è mosso dal desiderio grazie ad uno ‘strumento’ (Ôrganon) che ha qualcosa di corporale e deve essere cercato negli atti che anima e corpo

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67 Sono quattro anche i livelli di senso che il nostro autore attribuisce al termine lÒgoj in

“Sull’Anima”: 1) lÒgoj e edoj (lÒgoj e Óroj); 2) lÒgoj e fîn»; 3) lÒgoj e mšson; 4) lÒgoj, f£sij e ¢pÒfasij. Il secondo livello di comprensione tratta lÒgoj in quanto linguaggio. Si

tratta del passaggio da ciò che è meramente ‘sonoro’ (yÒfoj) a ciò che è ‘semantico’ (yÒfoj shmantikÒj), passando attraverso la ‘voce’ (fîn») ed il ‘suono articolato’ (di£lekton). Il testo

che in maniera più significativa ci fa capire questo secondo livello è De Anima II 8, che esamina attentamente il suono e l’udito. In un senso più generale, il ‘suono’ (yÒfoj) è il correlato

oggettivo dell’‘udito’ (¢ko»).

Questa definizione implica una serie di dicotomie fisiche. Per far risaltare la voce c’è bisogno che il suono sia emesso da un essere animato, vivo, e non da una cosa, a meno che non si tratti di una somiglianza di tipo metaforico —la ‘voce’ del flauto. Si aggiunge un altro requisito: «non ogni suono emesso dall’animale è voce, come dicemmo [...] è necessario, quindi, che il percuziente sia animato e compia il suo atto con un’immagine mentale, perché, in realtá, la voce è un suono significativo (œmyucon [...] tÕ tÚpton kaˆ met¦ fantas…aj tinÒj: shmantikÕj g¦r d» tij yÒfoj ™stˆn ¹ fwn»)» (An. II 8, 420b 29–33). Per tanto la costellazione fîn», shmantikÒj, ˜rmhne…a, dialektÒj designa il lÒgoj sotto una doppia

valenza rispetto a ciò che è umano: la rappresentazione e la significazione. Questa è la ragione per cui il termine lÒgoj non viene quasi utilizzato in “Sull’Anima”. C’è da sottolineare la sua

relazione con il bene, suscettibile di uno sfocio nella “Politica” il cui punto di partenza collega il ‘vivere bene’, il fatto che l’essere umano sia un animale politico ed il fatto che esso sia l’unico animale dotato di lÒgoj.

Torniamo al primo dei requisiti. Al termine di De Anima III 10 lo stagirita ci dice che «l’animale può muoversi e non appetisce senza l’immaginazione (¥neu fantas…aj).

L’immaginazione è sempre razionale o sensitiva (fantas…a d p©sa À logistik¾ À a„sqhtik»)». In questo testo, da una parte si afferma la ‘reppresentazione discorsiva’ come

propria dell’essere umano. Dall’altro lato si configura una teoria che trova nel desiderio il principio unico del movimento animale e dell’azione umana. Si definisce ‘fenomeno’ il perdurare dell’immagine, l’impressione delle cose, il mostrarsi delle stesse, di fa…nw, che

significa ‘mostrare’. Il perdurare di questo mostrarsi si denomina fant£zein, ‘fantasticare’, far

perdurare il mostrarsi di qualcosa. Come afferma ZUBIRI (NHD 77) «l’essenza dell’immaginazione è fantasia». La fantas…a constituisce una facoltà che bascula tra la a‡sqhsij,

‘sensibilità’ che tutti gli esseri viventi possiedono, e un’altra facoltà che, in maniera provvisoria potrebbe definirsi come diano…a. Il tipo di fantas…a che possiede la maggior parte degli

animali è collegata alla sensibilità, però non al lÒgoj. Il lÒgoj della fantas…a logistik», in

cambio, è in stretta relazione con la “Retorica” e bisogna intenderlo come ‘discorso’. Per tanto la fantas…a può accompagnare il lÒgoj concepito come ‘linguaggio’, come ‘discorso’.

Possiamo estrarre da qui un criterio retorico nel quale la fantas…a si apre allo spazio della

deliberazione.

Questa accezione del termine lÒgoj è quella che ci permette comprendere la sensazione

pensata dai sensi, principalmente il tatto e l’udito. ZUBIRI considera (NHD 78) che «il logos è, quindi, fondamentalmente, una voce che detta ciò che c’è da dire. In quanto tale, è qualcosa che forma parte dello stesso sentire». Il lÒgoj è il senso intimo della rettitudine del parlare fondato

nell’ascoltare la sua voce. Questa voce ‘riunisce’ (lšgein) tutte le cose sotto una voce unitaria.

Un senso proprio, correlato oggettivo di una sensazione, per esempio un colore per la vista, è una ponderazione tra qualità contrarie bianco/ nero, caldo/ freddo). La ‘sensazione’ (a‡sqhsij), nome che riceve la coincidenza di fatto tra l’‘organo del senso’ (a„sqht»rion) e

l’‘oggeto sentito’ (a„sqhtÒn), è propriamente un lÒgoj: è la ‘misura’, il ‘calcolo’ che permette

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nostro autore indaga la sensazione in generale, pensata in uno a partire del tatto (An. II 12) e nell’altro a partire dall’udito (An. III 2).

Il secondo di questi testi (An. III 2, 426a 27–426b 29) si situa nel capitolo in cui ARISTOTELE tratta del problema del ‘senso comune’ (Irwin 1988: § 164, 313–314 e § 166, 315– 318). Considera i sensi uno ad uno ed arriva alla conclusione che la a‡sqhsij è un lÒgoj nel

senso di ‘proporzione’.

«Dunque, se la consonanza (sumfwn…a t…j) è una sorta di suono (fwn¾) e il suono (fwn¾) e l’udito (¢ko¾) secondo un certo rispetto sono una sola cosa, secondo un altro non sono una cosa sola o identica, se la consonanza (sumfwn…a) è proporzione (lÒgoj), di necessità anche l’udito (t¾n ¢ko¾n) è una sorta di proporzione (lÒgon tin¦). Per questo ogni eccesso, l’acuto e il grave, danneggia l’udito (t¾n ¢ko»n): ugualmente nel caso dei sapori l’eccesso distrugge il gusto, tra i colori il troppo fulgente e il troppo scuro distruggono la vista e per l’odorato un odore violento, dolce o amaro: ciò perchè il senso è una proporzione (æj lÒgou tinÕj Ôntoj tÁj a„sq»sewj). Pertanto i sensibili riescono graditi quando, puri e senza mistione, sono riportati alla debita proporzione (e„j tÕn lÒgon): tali l’acuto, il dolce, il salato, ché allora sono davvero graditi. Ma in generale il misto realizza la consonanza (sumfwn…a) più che l’acuto e il grave e per il tatto (¡fÍ) ciò che può essere scaldato o freddato. Il senso, quindi, è proporzione (¹ d' a‡sqhsij Ð lÒgoj): ogni eccesso lo turba o addirittura lo corrompe» (Aristot. An. III 2, 426a 2–b 7).

Il lÒgoj è sumfwn…a. Ogni sensazione è lÒgoj, proporzione e consonanza tra qualità

sentite che si oppongono, e il piacere sorge quando quest’opposizione non risulta eccessiva ma piuttosto una proporzione equilibrata e costituisce un termine medio. Di conseguenza la sensazione intesa come proporzione sviluppa il giudizio (mšson kritikÒn) e la fisica dà passo

all’etica mentre il calcolo logico all’azione.

Il principale interesse di questo testo però consiste in articolare il giudizio caratteristico della sensazione dei propri e di una delle attività del ‘senso comune’ (a‡sqhsij koin») come

giudizio che lega queste relazioni, idiote in senso letterale, che sono i sensi e le sensazioni. Il senso comune è il principio unico e principio di unità che permette, nella misura in cui accompagna ogni percezione propria, mettere in relazione i sensi propri e le sensazioni di questi propri, che senza di esso risulterebbero eterogenei e incompatibili.

A mo’ d’ipotesi si potrebbe dire che esiste un passaggio dal lÒgoj–proporzione al lÒgoj–

enunciato quando si passa dalla relazione tra opposti —bianco/ nero— alla relazione tra queste relazioni—un colore bianco/ un tatto morbido— complicando la trama della kr…sij,

della ‘scelta pratica’, quindi, quando si passa dal ‡dion al koinÒn, alla comunità dei propri.

Questa unità di senso, sotto il nome di ciò che si può chiamare senso comune, ci conduce all’unità dell’oggetto.

Il senso comune permette unire i sensi propri simultanei, orientandoli o percependoli come orientati. La cosa importante è che in una sola operazione si ha l’unità di un oggetto di senso e la possibilità della predicazione. Con la predicazione, in quanto sintesi e giudizio, sorge la possibilità dell’‘errore’. Così l’errore può essere descritto come ‘illusione’ (¢pat£tai), visto

che sussiste errore, quando non c’è un numero sufficiente di sensi propri per arrivare ad una conclusione. Una prospettiva predicativa non basta per creare l’errore. È necessaria una sintesi. Con il senso comune, che assicura la distinzione e la convergenza dei propri, ci troviamo non solo davanti alla doppia operazione di presupposizione e costruzione dell’oggetto sensibile, ma anche davanti alla doppia operazione di immersione nell’elaborazione della discorsività.

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69 Di tutto ciò che è stato detto in precedenza, si potrebbe sottolineare quanto segue. In primo luogo, il passaggio alla discorsività a partire dalla sensazione. In secondo luogo la relazione tra la conoscenza e la pratica. In terza analisi il potere critico della sensazione: la sensazione non è altro che un lÒgoj che ancora conserva la possibilità di logificare però che in

quanto tale è comune a tutte le anime.

Secondo NUSSBAUM (1995: 344) esiste uno stretto vincolo tra la spiegazione dell’azione e la valutazione etica delle vite e degli esseri umani. Nei testi dello stagirita l’investigazione riguardo all’azione umana s’inquadra nell’ambito di un’indagine più ampia sul movimento degli animali. Così, l’elleno selezionò un termine che indicava la caratteristica comune a tutti i movimenti animali diretti ad un oggetto: Ôrexij. Nessun altro termine svolge la funzione per

la quale il nostro autore usa Ñršgesqai, che forse implica l’introduzione di una nozione

generale di volere o desiderare. 'Epiqum…a e ™piqume‹n vengono rapportati strettamente agli

appetiti corporali; boÚlhsqai e boÚlhsij sembrano più vincolati ai giudizi riguardo al bene ed

al ragionamento. Non è facile trovare una traduzione per questo termine. ‘Desiderio’ è il più appropriato; per lo meno, è chiaramente vincolato al suo oggetto. In questo modo comprendiamo più facilmente il contenuto delle affermazioni aristoteliche nel senso che

boÚlhsij, qÚmoj e ™piqum…a sono forme della Ôrexij e che in ogni movimento animale è

presente la Ôrexij. Sembra che il nostro autore pensi che qualsiasi cosa sia una forma di

inclinazione interna attiva e diretta ad un oggetto; e che questo tipo d’inclinazione è comune ai movimenti degli umani e degli altri animali.

Il filosofo ellenico stabilisce un parallelismo tra Ôrexij e di£noia. Il senso ed il ‘valore’ del

desiderio si scoprono grazie al loro modo di approcciarsi o allontanarsi da qualcosa (diÒxij kaˆ fug»). La Ôrexij è confermata, quando rincorre ed ottiene ciò che desidera. Questo pro-

cesso è una componenete fondamentale della vita. Il mondo esterno ci trascina verso ciò che desideriamo. La nostra tendenza manifesta una certa indeterminazione e necessità, e la ten- sione che ci muove è espressione di un dialogo che baratta con noi tutto ciò che noi non siamo. Essere è desiderare. Ogni supposto momento ‘ontologico’ della realtà umana è espres- sione della tendenza che lo costituisce. Di conseguenza l’ontologia non può esserlo di un ente immobile. Essere vuol dire essere nel tempo.

Il desiderio discorre nell’animale che ha lÒgojparallelamente a questo lÒgoj, per questo

«la scelta è o un intelletto desiderante (ÑrektikÕj noàj) o un desiderio ragionante (Ôrexij dianohtik»); e un tale principio è l’uomo» (Aristot. EN VI 2, 1139b 4–5). La riflessione e tutti

i processi dianotetici, in quanto tali, non muovono nulla, se non ciò che è orientato fuori di sé ed è pratico. La di£noia pratica domina anche l’intenzione creativa «e ciò che è oggetto di

produzione (poihtÒn) non è il fine in senso assoluto —ma fine relativo e di qualcosa di de-

terminato, bensì lo è ciò che è oggetto dell’azione morale (praktÒn). Infatti la buona condotta

(eÙprax…a) è fine in senso assoluto (tšloj) ed il desiderio ha questo fine per oggetto» (Aristot.

EN VI 2, 1139a 35–1139b 4). In questo essere composto da desiderio ed intelligenza si fa pre- sente la specificità dell’esistenza umana. È difficile trovare momenti nei quali, in qualche modo, non intervengano entrambi i componenti. Il filosofo, nello stabilire questa composi- zione, non fa altro che essere coerente con la famosa definizione dell’uomo come animale con

lÒgoj (Aristot. Pol. I 2, 1253a 10).

In “Sul Movimento degli Animali” (6, 700b 17–18) enumera cinque elementi che chiama “motori dell’animale”: intelligenza (di£noia), immaginazione (fantas…a), scelta (proa…resij),

volontà (boÚlhsij) e appetito (™piqum…a), che possono raggrupparsi in due: cognizione

(nÒhsij) e desiderio (Ôrexij). Le facoltà conoscitive presentano all’animale numerosi oggetti

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una parte sarà disponibile o sarà ‘possibile’ quando l’animale veda o scopra un modo per ottenerlo. Le facoltà conoscitive portano a termine una doppia funzione. In primo luogo presentano il fine alla conoscenza dell’animale poi agiscono in modo da far passare l’animale attraverso la Ôrexij del fine di quell’azione diretta a un oggeto del mondo concreto e

disponibile. In molti casi queste operazioni non si distinguono: la Ôrexij dell’animale può

essere invogliata all’attività in maniera giusta dalla visione dell’elemento che poi si cerca di raggiungere. D’altro canto, la distinzione può essere fatta spesso. Il resultato finale è che la

Ôrexij svolge un ruolo d’importanza capitale in quanto ‘motore’; da sola, però, non fa nulla

senza la collaborazione della percezione o del pensiero. Gli animali agiscono in base ai loro desideri, anche se nei limiti imposti dal mondo della natura. Per il filosofo, la nÒhsij prepara la Ôrexij, e la Ôrexij, la p£qh (Aristot. MA 8, 702a 17–19); e tutto succede ‘simultaneamente’ e

con ‘rapidità’ visto il modo in cui l’azione e la passione sono correlate tra sé.

I legami tra Ôrexij, cognizione e movimento, sono logici e concettuali. Sembra che siano

di due tipi. In primo luogo, sul piano del desiderio o della percezione del concreto, ognuna s’identifica e si distingue dagli altri elementi simili per il fine o oggetto della vista. Non si può dare una spiegazione all’Ôrexij che conduce all’azione senza menzionare di cui essa è Ôrexij.

In secondo luogo, in una prospettiva generale, l’autore ellenico attribuisce la possessione di

Ôrexij e fantas…a —gli elementi interpretativi e selettivi della percezione, in virtù dei quali le

cose/la cosa del mondo ‘appaiono/appare’ (fa…netai) davanti alla creatura come una certa

classe di cose— ad una creatura ovviamente perchè si muove, in quanto parte di ciò che significa essere una creatura mobile. Dal concetto generale di Ôrexij come qualcosa che si

produce internamente, in determinate circostanze, in combinazione con il tipo adatto di percezione e pensiero, si seguirà in modo naturale e rapido l’azione.

La razionalità ha un carattere dialogico che inizia dalla teoria dell’argomentazione aristotelica. La logica aristotelica è dialogica. Il carattere dinamico della razionalità fa da ponte tra la particolarità dei casi concreti e le regole, leggi e principi universali. Implica una dialettica tra universale e particolare. L’uomo prudente delibera in accordo con il lÒgoj descritto dai

nostri autori nella seguente maniera: «La virtù è dunque una disposizione (›xij) che orienta la

scelta deliberata, consistente in una via di mezzo rispetto a noi, determinata dalla regola (lÒgJ), vale a dire nel modo in cui la determinerebbe l’uomo saggio» (Aristot. EN II 6, 1106b

36–1107a 2). In vari passaggi il filosofo ellenico descrive la funzione di questo lÒgoj, cono-

sciuto come ÑrqÒj lÒgoj, nella prudenza (Aristot. EN II 2, 1103b 32–33; III 5, 1114b 29; III

11, 1119a 20; IV 2, 1122b 23–28; V 11, 1138a 10; VI 1, 1138b 25.34; VII 3, 1147b 3; VII 4, 1147b 31; VII 8, 1151a 12.21). Visto che la prudenza non può essere né tšcnh™pist»mh,

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