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ARISTOTELE utilizza il termine sullogismÒj nel campo teorico per indicare ciò che

secondo la definizione presente negli “Analitici Primi” (I 1, 24b 18–20) è una deduzione in generale più che un ‘sillogismo’ in senso stretto: «Il sillogismo, inoltre, è un discorso in cui, posti taluni oggetti, alcunché di diverso dagli oggetti stabiliti risulta necessariamente, per il fatto che questi oggetti sussistono». In “Analitici Primi” (I 23) il nostro autore cerca di dimostrare che tutte le deduzioni fatte a partire da questa definizione devono svilupparsi nello schema delle tre figure sillogistiche.

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85 adatta alla teoria della deliberazione descritta. Questa teoria ha ricevuto tradizionalmente il nome di “teoria del sillogismo pratico”, sebbene, come dice KENNY (1979: 111), lo stagirita non ha mai parlato nei suoi testi di un “sillogismo pratico”. È vero che l’autore ellenico utilizza il termine sullogismÒj per riferirsi ai ragionamenti pratici. Per esempio nell’“Etica

Eudemia” (II 11, 1227b 24–25) afferma che lo scopo non ha né sullogismÒj né lÒgoj.

Nell’“Etica Nicomachea” (VI 9, 1142b 22) si dice che è possibile raggiungere il bene attraverso un ‘ragionamento falso’ (sullogismÕj yeud»j). D’altro canto, secondo KENNY (1979: 111),

l’espressione ‘ragionamenti di ordine pratico’ (sullogismoˆ tîn praktîn), così come la

presenta lo stagirita (Aristot. EN VI 12, 1144a 31), è fonte di confusione.

Da una parte non solo sono più gli esempi di sillogismo pratico che presenta il filosofo ellenico —una decina— che i riferimenti teorici allo stesso ma anche vero che in molte occasioni gli esempi sembrano non corrispondere alla teoria, come segnala giustamente BROADIE (1974: 19). Inoltre, secondo MILO (1966: 56) la rigidezza degli esempi di sillogismo pratico è tale da farli sembrare difficilmente applicabili nella teoria. Da una parte l’uso della nomenclatura tecnica suggerisce che il filosofo ellenico concepisce il sillogismo pratico come qualcosa di strumentale, analogo al ragionamento descritto negli “Analitici Primi”. Esistono, per tanto, forti dubbi rispetto al fatto che nel contesto dell’etica aristotelica il sillogismo pratico è la forma del ragionamento pratico in generale e della deliberazione in particolare. È in questo modo che lo hanno rilevato HARDIE (1968: 249), per il quale il sillogismo pratico non è parte della deliberazione e, più recentemente, COOPER (1975: 24), che ha proposto un modello alternativo, secondo il quale il sillogismo pratico segue cronologicamente la deliberazione e consiste nell’applicazione del risultato di questa —la scelta di un determinato tipo di azioni— nel caso particolare. Nella stessa linea di pensiero troviamo MONTOYA (1983: 242), che afferma: «la teoria del sillogismo pratico è tanto logicamente quanto cronologicamente posteriore alla deliberazione e sembra essere stata forgiata di proposito per dare una risposta al problema della debilità morale». Altri autori, però, sostengono che il sillogismo pratico serve a dare un modello teorico all’azione umana, come NUSSBAUM (1978: 205). Tutti questi approcci sembrano plausibili ed utili; però equiparare la deliberazione al sillogismo pratico risulta molto limitato. Forse le ragioni che hanno condotto nella modernità a tali equiparazioni —o riduzioni— della teoria aristotelica della deliberazione alla teoria del sillogismo pratico potrebbero trovarsi nelle parole di MUGUERZA: «la filosofia —prima ancilla

theologiae— si appresta oggi a diventare ancilla scientiae [...] risulta quasi un topico obbligato

avvertire in che modo un interesse unilaterale per i problemi della conoscenza possa presagire un futuro oscuro per l’umanità se allo stesso tempo non si presta un’attenzione simile ai problemi posti dall’azione umana» (Muguerza 1977: 19).

Nelle pagine che seguono cercherò di rispondere alla domanda riguardo a se sia o no possibile sostenere che anche il sillogismo pratico segue le stesse norme e se le tre figure sillogistiche degli “Analitici Primi” costituiscono anch’esse una regolazione del ragionamento pratico che il filosofo greco presenta nel momento in cui affronta il problema della teoria della deliberazione. L’interpretazione che cercherò di giustificare è quella che la deliberazione sia un tipo di ragionamento pratico e non sillogistico. Considero, così come ha rilevato RICHARDSON nel suo eccellente libro Practical Reasoning about Final Ends (1997), che «ci si infila in una strada senz’uscita se si pensa al sillogismo pratico come il modello della deliberazione. Per trovare un’uscita c’è da evitare di dare tanta importanza al sillogismo pratico» (Richardson 1997: 34). Forse la teoria aristotelica della deliberazione ci dà un modello più ampio di razionalità partendo dal quale è possibile una miglior comprensione dell’azione rispetto alla spiegazione che ci offre il sillogismo pratico. Questo servirà a dimostrare, per dirlo con parole di FRAIJÓ (2006: 87), che «la razionalità moderna non si estingue nel razionalismo cartesiano o hegeliano, né nella razionalità tecnico–strumentale. L’eredità che ci arriva è più complessa e ricca. La

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modernità è un umanesimo».

Il sillogismo pratico non motiva l’azione da solo, non ne è capace. Nello schema che spiega il sillogismo pratico, il desiderio è assente ed è lo stesso autore ellenico a sostenere che la conoscenza morale si acquisisce non grazie ad una mera ricerca speculativa, ma grazie ad abitudini, per carattere (Milo 1966: 94). In De Memoria et Reminiscentia (2, 453a 7–14) lo stagirita afferma che la deliberazione è una ‘una specie di sillogismo’ (sullogismÒj tij), non un vero

sillogismo. Entrambi condividono il fatto di essere due forme di z»thsij. Il nostro autore

afferma, in molti passaggi che la deliberazione è una z»thsij. Questo ci permetterebbe di

sostenere l’idea che «il sillogismo pratico è una rappresentazione formale del processo psichico che genera l’azione» (Natali 1989: 149). La deliberazione è la ricerca del termine medio (Aristot. An. Po. II 2), ricerca che non necessariamente deve svilupparsi in maniera sillogistica, ma piuttosto coincide con il momento congetturale del sapere pratico nel quale ARISTOTELE tanto insiste. Si aggiunga che «la maggioranza delle deliberazioni che riteniamo razionali resistono ad essere formalizzate» (Richardson 1997: 41).

Per difendere la mia tesi mi occuperò, in primo luogo, delle analogie tra le due forme di sillogismo. In secondo luogo, esaminerò la natura e la funzione delle due premesse del sillogismo pratico e delle conclusioni. In terza, ed ultima analisi, presenterò una valutazione globale della teoria del sillogismo pratico, distinguendolo dalla teoria aristotelica della deliberazione. Solamente alla fine si vedrà l’importanza pratica della mia difesa della teoria aristotelica della deliberazione nei confronti dell’elevato numero di dottrine filosofiche fortemente influenti nell’attualità, che riducono l’arrivo al sapere pratico ad una comprensione unicamente analitica dello stesso. In rapporto con queste interpretazioni riduttive «probabilmente si ha bisogno di quello che J. Muguerza ha chiamato “un cordiale abbozzo di ragione”» (Fraijó 2006: 33); sono necessarie insomma, «forme generose di razionalità» (Fraijó 2006: 87). Non è possibile, con semplice ragionamento logico, trascendere l’ambito della scelta, passare dai fatti al fare. Inoltre, nessuno ragiona in questa maniera nel momento di scegliere come deve agire (Ramírez 2003c: 226). Detto meglio, come dimostrerò nella seconda parte del mio studio, è la deliberazione retorica che si occupa di decidere ciò che è conveniente nell’operare.

Il filosofo ellenico confronta il ragionamento scientifico con quello pratico, dimostrando con esso che ci sono analogie rilevanti tra i due. In molte occasioni, il nostro autore si serve di termini tecnici estrapolati dal vocabolario della logica per descrivere fasi o elementi del ragionamento pratico. Lo stagirita afferma che il sillogismo pratico si divide in ‘due tipi di premesse’ (dÚo trÒpoi tîn prot£sewn), una ‘universale’ (kaqÒlou) e l’altra ‘particolare’

(kat¦ mšroj o kaq’ ›kasta). Tali protasi sono qualificate anche in maniera più generale

come due ‘consapevolezze’ (Øpol»yeij), e se si ripete due volte quella ‘particolare’ (kaq’ ›kasta) si riferisce alle ‘azioni pratiche’ (t¦ prakt£) (Aristot. EN VI 7, 1141b 14–21; VI 8,

1142a 20–23; VII 3, 1146b 35–1147a 5; EE II 10, 1226b 23; An. III 11, 434a 16).

Nell’“Etica Eudemia” (II 10, 1227b 8) e nell’“Etica Nicomachea” (VI 12, 1144a 32) dice che la prima premessa è un ‘principio’ (¢rc») che consiste, come afferma nei “Metafisici” (VII

7, 1032b 5) e in “Sull’anima” (III 11, 434a 16), in un ‘ragionamento che è nell’anima’ (lÒgoj ™n tÍ yucÍ). Questo ‘ragionamento’ (lÒgoj) viene qualificato in diversi modi, alcuni generali,

altri più specifici: è un ‘oggetto di riflessione’ (dianohtÒn: Aristot. MA 6, 700b 24), una ‘tesi’

(qšsij, qšmenoi: Aristot. EN III 3, 1112b 15) e, più precisamente, una ‘posizione’ o ‘ipotesi’

(ØpÒqesij: Aristot. EN VI 12, 1144a 33–36; EE II 11, 1227b 25. 29–30). La seconda premessa

è un ‘termine estremo’ (œscaton Óroj: Aristot. EN VI 8, 1142a 26), un ‘oggetto di calcolo

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87 26–28), e oggeto di ‘ricerca’, ‘investigazione’ (skšyij: Aristot. EE II 10, 1226b 28; 1227a 10–

12; II 11, 1227b 13–18) e ‘riflessione intellettuale’ in generale (no»sij: Aristot. Metaph. VII 7,

1032b 17). Inoltre, essa deriva dalla ‘sensazione’ (a‡sqhsij: Aristot. EN VI 8, 1142a 27, 1143b

5). Il termine medio è oggetto di ‘ricerca’ e ‘analisi’ (z»thsij, ¢n£lusij: Aristot. EN III 3, 1112b 20, 22, 23–24, 28–29, 1113a 5, VI 9), di ‘delimitazione’ e ‘giudizio’ (¢forismšnon, kriqšn: Aristot. EN III 3, 1113a 3–4). La ‘conclusione’ è qualificata come sumpšrasma

(Aristot. EN VII 3, 1147a 27; MA 7, 701a 11–12, 20, 23).

Insieme all’“Etica Nicomachea” (III 3), nell’“Etica Eudemia” (II 10) si trova un’ampia discussione sulla scelta deliberata (proa…resij). Quest’ultimo testo ci offre alcuni dati

importanti per comprendere la natura della prima premessa del sillogismo pratico. Tanto nell’“Etica Eudemia” come nell’“Etica Nicomachea” il nostro autore nega che scelta (proa…resij) e opinione (dÒxa) possano uguagliarsi. Nell’“Etica Nicomachea” (III 2, 1112a

11) rifiuta di occuparsi del problema secondo il quale la dÒxa precede la scelta, mentre

nell’“Etica Eudemia” affronta la questione. Uno degli argomenti con i quali esclude l’uguaglianza tra la proa…resij e la dÒxa è il seguente:

«Nessuno si propone alcun fine, bensì i mezzi che conducono al fine. Ad esempio nessuno si propone di essere in salute, bensì di camminare o di star seduto in vista della salute; né di essere felice, ma di arricchirsi o di affrontare un pericolo in vista dell’esser felice. E in generale è evidente che sempre chi fa un proponimento si propone qualcosa e in vista di qualcosa; vi è dunque da un lato ciò in vista di cui ci si propone un’altra cosa, dall’altro lato ciò che si propone in vista di un’altra cosa. Si vuole soprattutto il fine, e si opina, ad esempio, di dover aver salute e star bene. Perciò è evidente che il proponimento è una cosa diversa dall’opinione e dalla volontà. La volontà e l’opinione riguardano infatti soprattutto il fine, mentre invece il proponimento non lo riguarda» (Aristot. EE II 10, 1226a 7–17).

Dato che scegliere significa scegliere una cosa invece che un’altra lo stagirita ammette nell’“Etica Eudemia” (II 10, 1226b 23) l’esistenza di un’‘assunzione del perchè’ (ØpÒlhyij toà di¦ t…), che in questo contesto significa assumere una causa finale. Di questa consapevolezza

del fine è sede la parte deliberativa dell’anima, non la parte scientifica e contemplativa, come si dice in questo testo:

«Infatti facoltà deliberativa è quella parte dell’anima che sa vedere una causa» (Aristot. EE II

10, 1226b 25–26).

Il possesso della causa finale è condizione necessaria per fare in modo che esista deliberazione:

«e il fine è un tipo di causa: infatti ciò per cui si agisce è una causa. E diciamo causa ciò in vista di cui esiste o avviene qualcosa, come il trasporto di sostanze è la causa del viaggiare, se è per questo che si viaggia. Perciò coloro che non hanno alcuno scopo sono incapaci di deliberare» (Aristot. EE II 10, 1226b 26–30).

Essendo causa, il fine è ‘principio’ (¢rc») e ‘ipotesi’ (ØpÒqesij) o deriva da esso. Questo si

fa patente nel testo che segue:

«Poiché quando si delibera, si delibera sempre in vista di qualcosa e poiché chi delibera ha sempre uno scopo rispetto al quale discerne ciò che è utile, intorno al fine nessuno delibera, bensì esso è principio e ipotesi, quali sono le ipotesi nelle scienze teoretiche. Di ciò già abbiamo detto brevemente al principio, e più esattamente ne abbiamo trattato negli Analitici. Però l’esame dei mezzi che conducono al fine può esser fatto da tutti o con abilità o senza abilità, così come quelli

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che deliberano se fare o non fare la guerra con questo» (Aristot. EE II 10, 1227a 5–13).

Per il filosofo ellenico il fine dell’azione è oggetto di una ‘consapevolezza’ (ØpÒlhyij) che

consiste nell’associazione di un’‘opinione’ (dÒxa) a una delle forme di desiderio. La sede di

questa ‘opinione’ (dÒxa) è la parte dell’anima chiamata ‘calcolatrice’ (tÕ logistikÒn) o

‘opinante’ (tÕ doxastikÒn) (Aristot. EN VI 1, 1139a 12.14, EN VI 5, 1140b 26, EN VI 13,

1144b 14). Solo la deliberazione ed il ‘sapere pratico’ (frÒnhsij) possono trasformare in

principio dell’azione questa dÒxa: deliberazione e ØpÒlhyij del fine si differenziano in quanto

la seconda può rimanere una semplice ‘affermazione’ (f£sij) (Aristot. EN VI 9, 1142b 13–14)

e la prima è la ricerca del termine medio che orienta al desiderio in vista di un’azione concreta. Nello studio della seconda premessa c’è da tener da conto alcuni casi in cui questa non appare. Primo, azioni governate da certe scienze particolari dotate di ¢kr…beia. In secondo

luogo azioni derivate da una forma particolare di fragilità volitiva. In terza analisi, casi in cui la seconda premessa è molto evidente. Nel primo caso, non c’è deliberazione, posto che la deliberazione è la ricerca del termine medio e in questo caso abbiamo solo il fine e l’azione utile al raggiungimento. Questo viene spiegato nei seguenti testi:

«Nel campo di quelle delle scienze che sono rigorose e sufficienti in se stesse no vi è deliberazione (kaˆ perˆ mn t¦j ¢kribe‹j kaˆ aÙt£rkeij tîn ™pisthmîn oÙk œsti boul»): ad esempio sull’ortografia (infatti non abbiamo dubbi su come si deve scrivere)» (Aristot. EN III 3,

1112a 34–b2).

«Perciò noi non deliberiamo intorno alle cose che vi sono presso gli Indi, né che il cerchio si trasformi in quadrato: quelle cose, infatti, non dipendono da noi, questa è del tutto impossibile a compiersi. Ma non deliberiamo neppure intorno a tutte le cose che sono fattibili da noi; e di qui ancora risulta evidente che, in senso assoluto, il proponimento non è un’opinione. Però le cose che ci proponiamo e quelle che sono fattibili appartengono tutte a quelle che dipendono da noi. Perciò uno potrebbe anche porre la questione perché i medici deliberano intorno alle cose di cui essi hanno scienza, mentre i grammatici non deliberano su quelle. La causa è che, potendo l’errore sorgere in due modi (infatti noi sbagliamo o nel ragionare o eseguendo una cosa secondo la sensazione), nella medicina è possibile sbagliare in entrambe le maniere, invece nella grammatica solo nell’azione e nella prassi; perché, se si volesse ragionare su di essa, si andrebbe all’infinito» (Aristot. EE II 10, 1226a 28–b 2).

Il secondo caso è una forma particolare di ¢kras…a. In questo caso si passa

immediatamente dalla percezione di una situazione particolare all’azione, senza fermarsi a deliberare e senza la minor premessa:

«L’impulsività sembra infatti ascoltare in qualcosa la regola (œoike g¦r Ð qumÕj ¢koÚein mšn ti toà lÒgou), ma ascoltarla di traverso (parakoÚein), come i servitori precipitosi, i quali, prima d’aver ascoltato tutto quello che vien detto loro, schizzano via, e poi sbagliano l’esecuzione dell’ordine; e come i cani che, prima d’aver osservato se è un amico, appena soltanto si bussa alla porta abbaiano. Così l’impulsività, che per il calore e la precipitazione della sua natura ascolta, ma non ascolta un ordine, muove alla vendetta (oÛtwj Ð qumÕj di¦ qermÒthta kaˆ tacutÁta tÁj fÚsewj ¢koÚsaj mšn, oÙk ™p…tagma d' ¢koÚsaj, Órm´ prÕj t¾n timwr…an). Infatti la regola (lÒgoj) o l’immaginazione (fantas…a) mostrano che ci sono stati commessi un oltraggio o un’offesa, e l’impulsività, come se un ragionamento le avesse fatto concludere che si deve muovere guerra contro chi ha compiuto tale atto, subito pertanto imperversa» (Aristot. EN VII 6, 1149a 24–

34).

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89 «il ragionamento, senza soffermarsi in una delle due premesse, quella evidente, non la esamina; per esempio, se camminare è un bene per l’uomo, non si sofferma sul fatto che egli stesso è un uomo. Per tale ragione, tutto ciò che facciamo senza pensare, lo facciamo rapidamente. Di fatto, quando uno agisce in vista di ciò che riguarda la sensazione o l’immaginazione o la ragione, fa immediatamente quello che desidera. Al posto della domanda o del pensiero, sorge l’atto del desiderio. Devo bere, dice l’appetito: qui v’è una bevanda, dice la sensazione o l’immaginazione o la ragione; si beve immediatamente» (Aristot. MA 7, 701a 26–33).

La funzione della seconda premessa è quella di mettere in relazione la prima premessa con la situazione concreta quando non risulta evidente il corso dell’azione da seguire, visto che per poter agire si deve realizzare come prima cosa la ricerca del termine medio; questo è quello che lo stagirita chiama ‘deliberazione’. La seconda premessa esprime una causa immediata, che è la prima a mettersi in pratica e che costituisce la causa motrice rispetto al fine (Aristot. EE I 8, 1218b 19–21). Proprio di questi fini è il fatto di costituire un ‘bene pratico’. Il fine del sillogismo è dimostrare, attraverso una causa finale, che effettivamente è possibile individuare un modo di raggiungere il fine, ‘essere sano’, in una situazione data:

«La definizione stessa dimostra che il fine è la causa delle azioni a esso soggette. Infatti è dopo aver definito il fine che si dimostrano le altre cose, che cioè ciascuno degli altri beni è un bene: infatti è il fine che è la causa di essi. Ad esempio, se la salute è una data cosa, è necessario che tale debba essere ciò che giova ad essa» (Aristot. EE I 8, 1218b 17–20).

Nei “Metafisici” (VII 7, 1032b 6–29) l’elleno distingue ciò che è generato in maniera naturale da quello che viene generato mediante tšcnh e separa, in questo modo di generare, il

ruolo svolto dal pensiero del movimento di produzione vero e proprio. L’attenzione qui si focalizza sulla funzione della causa formale e la determinazione dei termini medi prende la forma di una specificazione progressiva del fine.

«Il termine “sano” è il risultato del seguente procedimento cogitativo: poiché la salute è questa data cosa (™peid¾ todˆ Øg…eia), è indispensabile che un determinato soggetto, se vorrà esser sano, abbia queste determinate proprietà, ad esempio un equilibrio fisico; e per realizzare quest’ultimo c’è bisogno di calore; e in questo modo il medico continua sempre a riflettere, finché risalga, alla fine (œscaton), a qualcosa che egli stesso è in grado di produrre. E da questo punto in poi il procedimento che viene ormai eseguito, ossia il procedimento che mira a conseguire la salute, si chiama “produzione”. Ne consegue che, in un certo senso, la salute è generata dalla salute e la casa dalla casa, o, per meglio dire, che la casa materiale è generata da quella immateriale; difatti l’arte medica o quella della costruzione sono la forma della salute o della casa, e sostanza immateriale io chiamo, appunto, l’essenza.

Nei processi di generazione e nei movimenti bisogna distinguere una fase cogitativa da una fase produttiva: la fase cogitativa è quella che procede dal principio e dalla forma, quella produttiva ha, invece, come punto di partenza il compimento della fase cogitativa. La stessa cosa si verifica anche in ciascuno degli stadi intermedi. Dico, ad esempio, che se una persona vorrà guarire, dovrà anzitutto trovare l’equilibrio fisico. E che cosa vuol dire “trovare anzitutto l’equilibrio fisico”? Vuol dire questa determinata cosa, che sarà conseguita a patto che sia procurato calore. E quest’ultimo che cosa è? È quest’altra determinata cosa. Ma appunto quest’ultima cosa esiste già in potenza; e ormai essa è in potere del medico. Ciò che produce la salute e da cui prende inizio il processo della guarigione è la forma che risiede nell’anima, qualora la guarigione sia il prodotto dell’arte; se, invece, essa proviene dal caso, la causa della guarigione si identifica con qualunque cosa che sia punto di partenza della produzione per colui che produce secondo arte; ad esempio, nell’ambito della guarigione, il punto di partenza starà, forse, nel procurar calore al malato (e questo si procura, poniamo, con la frizione); pertanto il calore presente nel corpo è o una parte (mšroj) della salute oppure la premessa di qualcosa di tal genere, che è parte della salute, e ciò può verificarsi <o immediatamente> o mediante una serie di intermedi; e questo è il minimo

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indispensabile che produce la parte (mšroj) della salute ed è <anche esso stesso>, in tal modo (œscaton), una parte (mšroj) della salute, e allo stesso modo vi è un minimo indispensabile per produrre una casa (ad esempio le pietre) o anche per produrre le altre cose» (Aristot. Metaph. VII 7, 1032b 6–29).

Su questo testo dobbiamo considerare quanto segue. In primo luogo l’espressione ™peid¾ todˆ Øg…eia (VII 7, 1032b 6) indica una definizione di salute, e la deliberazione ha come primo

passo il compito di stabilire questa definizione. In secondo luogo il termine œscaton (VII 7,

1032b 9.27) segnala l’ultimo elemento che appare nella deliberazione, definito da ARISTOTELE nell’“Etica Nicomachea” (III 3, 1112b 23) come «ciò che è ultimo nell’analisi, è primo nella generazione (tÕ œscaton ™n ¢nalÚsei prîton enai ™n tÍ genšsei)». In terzo luogo il

termine mšroj (VII 7, 1032b 28) indica una parte costitutiva del fine, per esempio ‘caldo’ o

‘freddo’ come elementi costitutivi della ‘salute’. In quarta ed ultima analisi, lo stagirita ci presenta una serie di termini: ‘curarsi’, ‘equilibrare’, ‘scaldarsi’. Qui la deliberazione parte da

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