In questo capitolo cercherò di ricostruire la teoria della deliberazione presente nel libro III dell’“Etica Nicomachea” alla luce di quanto visto nei capitoli precedenti. Alcuni elementi della teoria aristotelica della deliberazione sono stati presentati in precedenza, dove è apparsa questa questione nell’ambito, però, del libro VI della “Etica Nicomachea”. Di conseguenza, le pagine che seguono possono essere considerate, in parte, una sintesi conclusiva di quanto già detto.
Nell’“Etica Nicomachea” (III 3) l’ellenico illustra la natura della deliberazione. In primo luogo indica l’oggetto della stessa, che è il campo dell’etica e della politica e, più nel dettaglio, le azioni che in questo campo dipendono da noi (III 3, 1112a 21–31) e non si possono determinare in funzione di una ™pist»mh, ma che piuttosto appartengono all’ambito del æj ™pˆ tÕ polÚ (III 3, 1112a 34–b 11). Con ciò, il nostro autore mette le basi per lo studio della
deliberazione da un punto di vista etico e non solo tecnico.
Come sottolineato nel capitolo precedente, è l’intelletto pratico quello che presenta l’anima attraverso l’immaginazione dell’oggetto di azione che si considera soggettivamente come un bene. Per fare in modo che quest’oggetto si converta in principio di movimento è necessario l’intervento della facoltà deliberativa che converte l’oggetto rappresentato in scopo.
È l’intelletto pratico che cerca di controllare quali siano i mezzi per raggiungere il fine a cui tende la facoltà deliberativa. In questo modo, i mezzi costituiscono una catena il cui termine è il fine e il cui principio è raggiungibile da parte dell’agente (Aristot. EN III 3, 1112b 15–20). Ogni anello intermedio di questa catena è un giudizio intermedio riguardo al mezzo migliore per il seguente mezzo. A partire da tutto ciò è possibile estrarre più elementi dell’analisi aristotelica della deliberazione.
P
Prriimmaappaarrttee..IIllpprroobblleemmaaddeellllaaddeelliibbeerraazziioonnee
76
della facoltà desiderativa. Questo fine, il bene che muove l’azione, è il bene realizzabile: «Invece deliberiamo sulle cose che dipendono da noi e che sono oggetto d’azione [...] Ed ogni categoria di uomini delibera sulle cose che possono essere fatte mediante loro stessi [...] quelle cose che sorgono per opera nostra e non sempre nello stesso modo, su queste deliberiamo» (Aristot. EN III 3, 1112a 31–b 3). È lo stesso stagirita a concludere che «il deliberare ha luogo nelle cose che avvengono per lo più, ma di cui non si sa come finiranno, vale a dire nelle cose il cui esito non può essere determinato» (Aristot. EN III 3, 1112b 7–9). Questo passaggio ci mostra due caratteristiche del principio della deliberazione. Prima di tutto una certa regolarità, che è condizione di possibilità della deliberazione, visto che senza di essa sarebbe impossibile stabilire la catena dei mezzi che ci permettono di concludere la deliberazione. In secondo luogo la contingenza, caratteristica intrinseca della deliberazione, visto che, come lo steso filosofo greco dice, non si delibera circa ciò che è necessario (Aristot. EN III 3, 1112a 22–26; 1112b 1; VI 5, 1140a 30–31). Posto che il fine dell’azione è il principio della deliberazione, nemmeno ciò che è necessario può essere oggetto di deliberazione. Inoltre il filosofo ellenico nega che si possa deliberare riguardo a cose che non sono alla nostra portata (Aristot. EN III 3, 1112a 29–31; VI 5, 1140a 32), giacchè non è possibile stabilire la catena dei mezzi da questo fine fino all’agente. Questo ci indica un fatto interessante: la deliberazione è aperta ad un possibile risultato negativo, all’impossibilità quindi di incontrare un mezzo per raggiungere il fine desiderato (Aristot. EN III 3, 1112b 23–25).
Facoltà: Inteletto pratico Facoltà desiderativa Inteletto pratico + Facoltà desiderativa
Fase: Rappresentazione→Giudizio pratico → Desiderio → Deliberazione → Decisione → Azione
Enunciato: (di x) (“x è un bene”) (mi propongo x come
fine) (“y è il miglior (desidero y) (faccio y) mezzo per x”)
Osservazioni: Vero se lo fa il virtuoso, falso se lo fa il vizioso Sottomesso o no alla ragione Corretta se la fa il prudente
Figura 1. Teoria della deliberazione (Oriol 2004: 53)
Stabilito il fine, inizia il processo della deliberazione. Si tratta di trovare la catena dei mezzi che unisce questo principio con il mezzo più vicino all’agente. La deliberazione è necessaria per stabilire i mezzi che conducono al fine preposto, data l’esigenza di molteplici vie di accesso per arrivare al fine stesso. Così come «il medico non delibera se debba guarire» (Aristot. EN III 3, 1112b 13), non si delibera sul fine, che è qualcosa di dato nella deliberazione, il suo principio, ma sui mezzi per raggiungere questo fine, mezzi che a loro volta si trasformano in fini dell’azione. I fini sono oggetto della virtù, i mezzi del ragionamento. La virtù morale è la causa della rettitudine della deliberazione, così come è sottolineato in questo testo:
«Ma la buona deliberazione è una forma di rettitudine della deliberazione (ÑrqÒthj tij ™stin ¹ eÙboul…a boulÁj). Perciò dobbiamo per prima cosa ricercare qual è la natura e qual è l’oggetto della deliberazione (¹ boul¾ zhthtša prîton t… kaˆ perˆ t…). E poiché la rettitudine (ÑrqÒthj) si predica in più sensi, è evidente che non ogni rettitudine della deliberazione è la buona deliberazione. Infatti l’intemperante (¢krat¾j), vale a dire il malvagio (faàloj), se è abile raggiungerà col calcolo ciò che si è proposto. Di conseguenza si troverà ad aver deliberato correttamente (éste Ñrqîj œstai bebouleumšnoj), ma ad aver ottenuto un grande male. Ora, è correntemente ammesso che l’aver deliberato bene è un bene (doke‹ d’ ¢gaqÒn ti tÕ eâ bebouleàsqai). Infatti tale rettitudine della deliberazione costituisce la buona deliberazione (¹ g¦r toiaÚth ÑrqÒthj boulÁj eÙboul…a), quella rettitudine, cioè, che tende a raggiungere il bene (¹
3 3..SScceellttaa
77 ¢gaqoà teuktik»). Ma è possibile raggiungere il bene con un falso sillogismo (yeude‹ sullogismù); è possibile, cioè, raggiungere quello che si deve fare (Ö mn de‹ poiÁsai tuce‹n) ma non col mezzo con cui si deve, bensì che il termine medio sia falso. Di conseguenza non è ancora buona deliberazione neppure questa rettitudine per la quale si raggiunge ciò che si deve, ma non col mezzo con cui si deve. Inoltre si può raggiungere <ciò che si deve> dopo aver deliberato per molto tempo, o raggiungerlo rapidamente (œti œsti polÝn crÒnon bouleuÒmenon tuce‹n, tÕn d tacÚ)» (Aristot. EN VI 9, 1142b 17–26).
I mezzi sono oggetto della ragione e del desiderio. PLATONE riferisce la distinzione fini– mezzi al concetto di fine ultimo e fa dipendere tutte le scelte dalla corretta determinazione del fine ultimo (Plat. Lys. 218D–219D). Al contrario, ARISTOTELE affronta la questione dei fini e dei mezzi prescindendo dal problema del fine come ultimo o intermedio e non si riferisce mai al concetto di ‘fine ultimo’. In quanto fine generale, il fine non è oggetto di deliberazione. Tanto nell’“Etica Eudemia” come nell’“Etica Nicomachea” lo stagirita restringe il campo della scelta e della deliberazione alla scelta dei mezzi per un fine già dato. Di fatto, dice che non si sceglie un fine, per esempio essere felice, ma piuttosto si sceglie un’azione che conduce ad un fine (Aristot. EN III 2, 1111b 16–30). La deliberazione non è qualcosa che si realizzi in astratto ma che sempre si concretizza in una scelta privata.
Contrariamente a quegli autori che affermano che i mezzi sui quali si delibera sono universali (Belgum 1990: 210), in modo da farsì che sia il sillogismo pratico ciò che permetta concretizzare in un’azione individuale questo universale più vicino, non sembra che la deliberazione versi sull’universale. L’immaginazione presenta qualcosa necessariamente somigliante al desiderio e i mezzi che si connettono a questo fine sono anch’essi particolari, contingenti. È per questo che la deliberazione si distingue dal ragionamento scientifico. La differenza che ARISTOTELE stabilisce tra la prudenza e la scienza si basa precisamente sulla distinzione tra la conoscenza universale e quella privata o singola, rispettivamente (Aristot.
EN VI 8, 1142a 23–28). Così, il mezzo che ci proponiamo per un fine è singolare, giacchè «le azioni fanno parte delle cose particolari» (Aristot. EN III 1, 1110b 6–7). Nel sapere pratico le virtù dell’intelletto e quelle del carattere vanno insieme necessariamente. Entrambe coprono lo stesso ambito pratico, l’ambito della scelta:
«poiché la virtù (ºqik¾ ¢ret¾) è una disposizione che dirige la scelta (›xij proairetik»), e la scelta è un desiderio deliberato (proa…resij Ôrexij bouleutik»), per questo bisogna che il calcolo (lÒgon) sia vero (¢lhqÁ) ed il desiderio retto (Ôrexin Ñrq»n), se la scelta è buona (proaresij spouda…a), e che ci sia identità tra quello che il calcolo enuncia ed il desiderio persegue. Dunque questo pensiero e questa verità sono di ordine pratico (¹ di£noia kaˆ ¹ ¢l»qeia praktik»)» (Aristot. EN VI 2, 1139a 22–26).
Qui il lÒgoj ¢lhq»j, il quale concorda con il desiderio, è evidentemente la virtù della
parte deliberativa dell’anima, quindi, la frÒnhsij. Il lÒgoj e la Ôrexij sono componenti tanto
della frÒnhsij quanto della virtù etica. Di fatto, la virtù morale è una disposizione relativa alla
scelta (›xij proairetik» [...] ærismšnV lÒgJ) e la virtù intellettuale pratica, la frÒnhsij, è
vera solo se in accordo con il desiderio corretto. Dal punto di vista della scelta pratica, difficilmente si distinguono i due elementi. Ciò che realmente preoccupa ARISTOTELE è differenziare chiaramente il suo concetto di sapere pratico da quello platonico sottolineando la relazione con fattori razionali.
«Il principio dell’azione morale è dunque la scelta —principio nel senso di causa efficiente non di causa finale— ed i principî della scelta sono il desiderio ed il calcolo indirizzato ad un fine (lÒgoj Ð ›nek£ tinoj). Per questo la scelta non è né senza intelletto e pensiero (noà kaˆ diano…aj), né senza una disposizione morale (ºqikÁj [...] ›xewj). Infatti la condotta buona ed il
P
Prriimmaappaarrttee..IIllpprroobblleemmaaddeellllaaddeelliibbeerraazziioonnee
78
suo contrario nella prassi non esistono senza pensiero (di£noia) e senza carattere (½qoj)» (Aristot. EN VI 2, 1139a 31–35).
Questo “ragionamento orientato verso qualcosa” (lÒgoj Ð ›nek£ tinoj) è stato recepito
come “ragionamento che tende ad un fine”, “calcolo dei mezzi per raggiungere un fine” o “calcolo orientato ad un fine”. ARISTOTELE, in cambio, parla di lÒgoj Ð ›nek£ tinoj per
contrapporre questo lÒgoj a quello della ™pist»mh, della scienza che possiede la verità tecnica
separata dal desiderio e dall’azione, non per significare che la frÒnhsij ha come oggetto i fini
o i mezzi (Natali 1989: 83). Questo è ciò che ARISTOTELE vuole caratterizzare come ragionamento pratico:
«Ma il pensiero di per sé non muove nulla, bensì il pensiero indirizzato ad un fine, vale a dire pratico. Questo comanda anche sull’attività poietica; infatti chiunque produce, produce in vista di un fine, e ciò che è oggetto di produzione non è il fine in senso assoluto —ma fine relativo e di qualcosa di determinato, bensì lo è ciò che è oggetto dell’azione morale. Infatti la buona condotta è fine in senso assoluto ed il desiderio ha questo fine per oggetto» (Aristot. EN VI 2, 1139a 35–b 4).
La frÒnhsij svolge un ruolo predominante nel libro VI dell’“Etica Nicomachea” e si
converte nell’oggetto dell’intero libro. Il lÒgoj del quale si parla qui viene identificato con la
razionalità pratica, che coincide con l’attività della frÒnhsij. Il nostro autore ha dichiarato
così qual è la virtù della parte deliberativa dell’anima: la scelta. L’elemento sul quale questo testo insiste di più è la mescolanza di ragione e desiderio nella scelta, che viene denominato molte volte ‘desiderio deliberato’ (Ôrexij bouleutik»), ‘intelligenza desiderosa’ (ÑrektikÕj noàj), ‘desiderio intelligente’ (Ôrexij dianohtik»). Scrive: «Per questo la scelta non è né senza
intelletto e pensiero, né senza una disposizione morale. Infatti la condotta buona ed il suo contrario nella prassi non esistono senza pensiero e senza carattere» (Aristot. EN VI 2, 1139a 33–35). L’unione di intelletto e desiderio è la scelta o, più precisamente, il principio (¢rc»)
della scelta.
C’è da notare che su queste stesse linee lo stagirita fa un altro avvertimento interessante sulla scelta. Si riferisce all’impossibilità di deliberare sul passato: «Nulla poi di ciò che è passato è oggetto di scelta (oÙk œsti d proairetÕn oÙdn gegonÒj): ad esempio nessuno sceglie
d’aver saccheggiato Ilio. Sul passato infatti neppure si delibera, ma su ciò che sarà e che è possibile (oÙd g¦r bouleÚtai perˆ toà gegonÒtoj ¢ll¦ perˆ toà ™somšnou kaˆ ™ndecomšnou), e il passato non può non essere stato. Perciò dice giustamente Agatone: “di
una sola cosa anche Dio stesso è privato,/ fare che ciò che è stato fatto non possa esistere”» (Aristot. EN VI 2, 1139b 5–11). E se non si può deliberare sul passato, contraddistinto dalla necessità, si arriva alla conclusione che la deliberazione riguarderà il futuro, ciò che è contingente e quello che può essere in un altro modo.
Il proposito del libro VI dell’“Etica Nicomachea” è studiare le virtù del pensiero, quindi, gli stati ottimali secondo cui il pensiero (di£noia), “realizza la verità”. Il nostro autore
distingue tra la realtà che persegue il pensiero e quella accorde al desiderio corretto e che dirige il pensiero all’azione (VI 2, 1139a 29–31). All’inizio del capitolo 3 di questo stesso libro, il filosofo ellenico riprende la discussione su queste virtù: «Riprendendo dunque da più indietro, parliamo di nuovo delle virtù dianoetiche. Poniamo che le disposizioni con le quali l’anima dice il vero, affermando o negando, siano in numero di cinque. Queste sono l’arte (tšcnh), la
scienza (™pist»mh), la saggezza (frÒnhsij), la sapienza (sof…a) e l’intelletto (noàj). Col
giudizio e l’opinione è infatti possibile cadere in errore» (Aristot. EN VI 3, 1139b 15–19). I capitoli 3 e 4 del libro VI dell’“Etica Nicomachea” si occupano della ™pist»mh e della
3 3..SScceellttaa
79
tšcnh in rapporto con la frÒnhsij. Qui lo stagirita descrive la natura del frÒnimoj, le cui
caratteristiche sono le seguenti. In primo luogo essere capaci di deliberare bene riguardo a se stessi. In secondo luogo, essere capaci di deliberare non riguardo a fini privati, ma piuttosto sul buon modo di vivere la vita, quindi, sul modo di raggiungere la felicità. In terzo luogo il suo oggetto non sono le cose immutabili, come ciò di cui si occupa la scienza ma piuttosto le cose mutabili, che dipendono da noi. Quarto, queste cose non si verificano per dimostrazioni, visto che nel loro ambito qualsiasi cosa può essere in un altro modo. Quinto e viene di conseguenza, queste cose non sono in nessun modo tecnica, visto che la frÒnhsij e la tecnica
appartengono a generi distinti. Per ultimo, il suo fine non si differenzia dall’attività stessa, visto che questa è la eÙprax…a. Tutto questo dimostra, per dirlo con le parole di RICHARDSON
(1997: 189), che «la deliberazione razionale si incarna essenzialmente nella persona che delibera e non si può astrarre da un insieme di relazioni tra proposizioni».
Lo stagirita considera la deliberazione dell’uomo prudente come un tipo di deliberazione applicata in senso generale (EN VI 5, 1140a 25–28) e la contrappone a quella di coloro i quali deliberano bene solo in senso parziale (EN VI 5, 1140 a 28–30) lasciando da parte il caso della
tšcnh. Di seguito egli prende in analisi il rapporto tra la frÒnhsij con la ™pist»mh per
mostrarne le differenze. Tra gli argomenti esposti qui troviamo, in primo luogo, che la deliberazione non si riferisce a ciò che non può essere in un altro modo né a ciò che è necessario o impossibile. La scienza è un giudizio conclusivo che si verifica per dimostrazione. Al contrario, non ci può essere dimostrazione di ciò le cui premesse sono contingenti, visto che la conclusione lo sarà allo stesso modo. Questo basta per separare la scienza dalla prudenza, anche se entrambe sono ragionamenti che partono da premesse vere e hanno come termine conclusioni vere, però in un caso in forma dimostrativa e nell’altro in forma deliberativa. Rimarrà quindi da spiegare in che senso la deliberazione è un sillogismo, però non un sillogismo dimostrativo, visto che la dimostrazione non è solo un sillogismo corretto, ma piuttosto che la deliberazione, oltre a premesse vere, universali e necessarie (Aristot. An. Po. I 1–8) si compie grazie all’esercizio di una ›xij che è il ÑrqÒj lÒgoj della deliberazione. La
scienza si differenzia dall’arte in funzione della distinzione tra pr©xij e po…hsij (Aristot. EN
VI 5, 1140b 6–7).
Il nostro autore chiarisce esplicitamente che non è accettabile l’opinione degli antichi secondo la quale la possessione della sof…a, la forma di teoria più elevata, che consiste nel
conoscere davvero i principi della realtà e di ciò che si dipana da essi e che questo comporti necessariamente il possesso della frÒnhsij e del sapere pratico (EN VI 7). Così, egli caratterizza la frÒnhsij in opposizione alla sof…a: la frÒnhsij si occupa, in primo luogo,
delle cose umane e dell’oggetto della deliberazione; in secondo luogo, delle cose che possono essere in un altro modo; in terza analisi, delle cose che possiedono un tšloj, come lo possiede
il bene pratico umano; quarto e ultimo, per la frÒnhsij è più importante la conoscenza della
seconda premessa, quella privata, e il fatto di arrivare ad una scelta personale, più che conoscere l’universale e i principi in maniera astratta. È da questo punto di vista, quello della
frÒnhsij, che si presenta l’opposizione tra la ™pist»mh e la sof…a.
«La saggezza ha ad oggetto le cose umane, vale a dire quelle cose sulle quali è possibile deliberare (¹ d frÒnhsij perˆ t¦ ¢nqrèpina kaˆ perˆ ïn œsti bouleÚsasqai). Infatti noi diciamo che questo è per eccellenza il compito del saggio, deliberare bene (toà g¦r fron…mou m£lista toàt' œrgon ena… famen, tÕ eâ bouleÚesqai), e nessuno delibera sulle cose che non possono essere altrimenti da quelle che sono (bouleÚetai d' oÙdeˆj perˆ tîn ¢dun£twn ¥llwj œcein), né su quelle delle quali non vi è un fine (oÙd' Óswn m¾ tšloj ti œsti), e questo sia un bene realizzabile (praktÕn ¢gaqÒn). L’uomo che delibera bene in senso assoluto (Ð d' ¡plîj eÜbouloj) è colui che mira al migliore dei beni realizzabili per l’uomo secondo un calcolo (Ð toà
P
Prriimmaappaarrttee..IIllpprroobblleemmaaddeellllaaddeelliibbeerraazziioonnee
80
¢r…stou ¢nqrèpJ tîn praktîn stocastikÕj kat¦ tÕn logismÒn). Né la saggezza ha per oggetto soltanto gli universali (tîn kaqÒlou), ma deve conoscere anche i particolari (t¦ kaq' ›kasta): essa infatti dirige l’azione, e l’azione ha rapporto con i particolari (praktik¾ g£r, ¹ d pr©xij perˆ t¦ kaq' ›kasta). Per questo certe persone sprovviste di conoscenze universali sono più capaci d’agire di altre che possiedono tali conoscenze (diÕ kaˆ œnioi oÙk e„dÒtej ˜tšrwn e„dÒtwn praktikèteroi); e, tra gli altri, le persone d’esperienza (oƒ œmpeiroi). Se uno infatti conoscesse che le carni leggere sono facili a digerirsi e salutari, ma ignorasse quali carni sono leggere, non produrrà salute, ma la produrrà piuttosto chi sa che le carni d’uccello sono [leggere e] salutari. La saggezza dirige l’agire (¹ d frÒnhsij praktik»); di conseguenza deve possedere ambedue le conoscenze, o di preferenza quella concernente i particolari. Ma anche qui una sarà architettonica» (Aristot. EN VI 7, 1141b 8–22).
Di seguito affronta un problema importante, la relazione tra il sapere dell’uomo politico ed il sapere pratico dell’individuo (EN VI 8). Ci presenta qui una serie di distinzioni tipiche delle opinioni popolari, le quali riflettono la struttura istituzionale e la politica della società atenese del suo tempo:
«La politica e la saggezza sono una medesima disposizione (›xij), anche se non hanno la medesima essenza. Della saggezza che ha ad oggetto la città una forma, in quanto architettonica, è saggezza legislativa (frÒnhsij nomoqetik»), l’altra, in quanto concerne i particolari, prende il nome che è comune a tutte e due le parti: quello di saggezza politica (politik»). Essa dirige l’agire, è cioè atta a deliberare (aÛth d praktik¾ kaˆ bouleutik»). Infatti il decreto è oggetto dell’azione politica, essendo la conclusione di una deliberazione. Perciò soltanto di uomini che operano in questo modo concreto si dice che fanno politica; soltanto costoro infatti agiscono come gli artigiani.
Ma correntemente si crede anche che saggezza sia soprattutto quella che ha per oggetto la persona singola, cioè l’individuo (perˆ aÙtÕn kaˆ ›na); e questa assume il nome comune (tÕ koinÕn Ônoma), quello di saggezza (frÒnhsij). Delle altre forme di saggezza una ha preso il nome di economia, un’altra di legislazione, un’altra ancora di politica, e di quest’ultima una forma è deliberata, l’altra giudiziaria. Dunque una forma di conoscenza consisterà nel sapere ciò che è bene per noi. Ma è una forma molto diversa dalle altre. Ed è opinione comune che chi conosce le cose che lo riguardano è saggio (doke‹ Ð t¦ perˆ aØtÕn e„dëj kaˆ diatr…bwn frÒnimoj enai), mentre i politici attendono a molte faccende» (Aristot. EN VI 8, 1141b 23–1142a 2).
Sembrerebbe che la forma di saggezza per antonomasia sia quella che si riferisce all’individuo, la frÒnhsij. Non è questa, ma piuttosto il sapere pratico rapportato alla pÒlij la
cosa più importante. In questo testo differenzia la politica in ‘legislativa’ e ‘politica’ (b 24–26), mentre più in là, la differenzia in ‘deliberativa’ e ‘giuridica’ (b 32–33). Alla fine del testo appare anche l’economia.
La posizione aristotelica nei capitoli 12 e 13 del libro VI dell’“Etica Nicomachea” può riassumersi così. In primis, per una scelta virtuosa sono necessari, allo stesso modo, ¢ret» e frÒnhsij. In secondo luogo, non è possibile possedere uno dei due elementi in una delle due
parti dell’anima a cui appartengono senza possederlo, allo stesso tempo, nell’altra parte dell’anima, quindi, nessuno può essere frÒnimoj senza un equilibrio delle passioni dell’anima