Nei colori accesi e nelle immagini che si succedono lo scorrere della storia mapuche, i volti delle vittime con le bocche spalancate in urlo senza suono e il rosso del sangue che cola dalle sciabole sguainate dei carnefici chiuse nelle loro immacolate divise, la terra e il sole, ogni cosa costruita ad arte che possa rievocare il dolore e il passato, la voglia di un futuro che non dimentichi109.
È questa profonda e sincera partecipazione che Claudio Ceotto racconta dell’incontro avuto nelle terre di questo popolo ancestrale.
Laureato in Lettere e specializzato in Storia delle esplorazioni geografiche nonché grande appassionato di culture altre, Claudio Ceotto è l’autore del resoconto di un viaggio, che parte da Buenos Aires e giunge fino ai confini della terra, dal titolo di Mapuche, un popolo invisibile. Per mezzo di conversazioni e descrizioni di panorami mozzafiato di Cile e Argentina, lo scrittore genovese narra un’avventura alla scoperta della gente della terra, di quello che ha lui stesso definito “un popolo invisibile”, un popolo che nessuno vorrebbe che esistesse e che, invece, è vivo e continua a lottare.
Il netto rifiuto di un’unica immagine di storia e di un’unica verità, la ferma volontà di trovare una memoria tramandata dagli antenati, quella che nessuna recinzione, violenza o genocidio possono in alcun modo cancellare è ciò che ha indotto Claudio Ceotto a scrivere sui Mapuche e su uno di quei luoghi che si fa fatica a immaginare, la Patagonia:
Terre lontane meravigliose, ricche e quasi sconosciute, abitate da gente fiera nel difendersi dall’invasore. Allora si pensa che quei popoli così lontani nel tempo siano scomparsi; certo, la penetrazione degli europei, le successive campagne di conquista, l’influsso della religione cristiana di sicuro hanno spazzato via tradizioni, miti e divinità di quelle popolazioni “selvagge”. Tutto quasi vero e in quel quasi si racchiude quella piccola, insignificante resistenza oltre che di un popolo, dell’essenza di quel popolo110.
Nonostante l’impossibilità di scattare fotografie, di fare delle riprese all’interno delle riserve e lo smarrimento in aeroporto del registratore e quindi di tutte le
109 C. CEOTTO, Mapuche, un popolo invisibile, Youcanprint, Tricase (Lecce), 2012, p. 108. 110 Ivi, p. 3.
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testimonianze raccolte nel corso del viaggio, le immagini vivide, cariche di emozioni e la voglia di ricrearle fanno sì che tutto rimanga impresso nella mente dello scrittore in maniera indelebile.
Proprio come Deus, il già citato personaggio de El país del diablo, Ceotto sente che «quel vagare senza meta per la nostra maiuscola America, mi ha cambiato più di quanto credessi. Io, non sono più io, perlomeno non si tratta dello stesso io interiore»111. Il suo resoconto di viaggio altro non è che un racconto di vita. In uno dei numerosi capitoli di Mapuche, un popolo invisibile riporta l’incontro avuto con Adriana Markus. Donna di origini tedesche riuscita a scappare dalla Germania nazista, spiega che l’Argentina è stata per lei un rifugio, una terra, che ci tiene a sottolineare sia interamente terra mapuche, a cui lei sente di appartenere. A Zápala, città della provincia di Neuquén, la presenza di persone indigene è piuttosto alta ma nonostante ciò è opinione diffusa che i Mapuche vivano più a sud. Con il suo lavoro di ostetrica ha appreso l’amara verità secondo cui le donne mapuche, provando vergogna per il loro essere considerate indigene, preferiscono nascondere la propria origine. Al genocidio del secolo di Rosas e Roca ecco quindi affiancarsi un altro tipo di genocidio, indubbiamente meno violento ma altrettanto infido e doloroso, un genocidio culturale.
In altre pagine di questa emozionante narrazione, troviamo la storia di Doña Segunda e della sua famiglia. Testimonianza che lo stesso Ceotto afferma di aver raccolto a Vuelta del Río grazie a una donna, Blanquita, che ha fatto da mediatrice dato che Doña Segunda e il resto della famiglia conoscono soltanto la lingua della terra, il mapudungun. Questi infatti, in quanto comunità rurale, hanno perpetuato la tradizionale cultura mapuche rimanendo fedeli alla propria lingua, alla propria religione, rifiutando ostinatamente di essere considerati degli awinkados112, ovvero degli indigeni che si sono europeizzati e che, rinnegando quindi la propria identità, sono diventati impuri.
Una volta capito che Ceotto è italiano, la prima cosa che la comunità fa notare
111 Ivi, p. 60.
112 Aggettivo che deriva dalla parola winka. Parola che può avere come traducente italiano
“ladro”, ha assunto nel corso del tempo anche il significato di invasore o usurpatore e, per traslato, di “spagnolo” o “europeo”.
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è il fatto do trovarsi proprio ai confini con l’estancia113 della multinazionale italiana dei fratelli Benetton, questione alquanto delicata che verrà approfondita nelle pagine a seguire. Pur mostrandosi disposti a parlare, in un primo momento la famiglia di Doña Segunda ammette di poterlo fare soltanto dopo che anche le altre famiglie siano state avvisate e sia stato stabilito un luogo di incontro dove sarebbe stato possibile riunire tutti in cerchio, al centro del quale Ceotto avrebbe potuto rivolgere loro le proprie domande.
Fortunatamente però lo scrittore riesce a raccogliere le loro impressioni senza dover percorrere diversi chilometri per riunire la comunità mapuche locale. La ragione che li spinge a mostrarsi tanto diffidenti nei riguardi di chi vorrebbe riprenderli e fotografarli è da ricercare nello sfruttamento delle immagini usate a fini commerciali, nell’essere trattati come oggetti da museo, mentre tutto ciò che loro vorrebbero è essere lasciati liberi di vivere nella propria terra.
Non è giusto che uno, solo perché non ci sono delle carte che provano la proprietà e ha un po’ di denaro, arriva e si porta via tutto mandandoti a vivere chissà dove; tutti sappiamo come si fa a distruggere quelle carte o a prendere in giro delle persone che non sanno leggere, ma questo non è giusto, semplicemente non è giusto e basta114.
Queste sono le parole con cui Ceotto riassume quel sentimento di rabbia che trapela dalle poche frasi che Doña Segunda gli ha concesso e, come lei, concentra in poche righe il significato che quella stessa terra ha per lui:
La Patagonia ti entra dentro con quel suo nulla colmo di emozioni, pieno di silenzio e vento, respiri il suo stesso respiro, un’amante difficile e capricciosa di cui non puoi fare a meno, per cui faresti qualsiasi cosa, colma di ombre, di gente che è arrivata a morire per lei115.
L’interesse nutrito da persone come Claudio Ceotto nei confronti della Patagonia e della sua gente mostra una natura di gran lunga diversa rispetto a quell’interesse che spinge una multinazionale come Benetton a varcare i propri confini nazionali per raggiungere la terra dei Mapuche. Tutti conoscono il marchio Benetton, pochi sanno quanto credano davvero nei loro United Colors. Quella di Vuelta del Río, comunità in cui abbiamo appreso vive anche la famiglia di Doña Segunda, è una comunità stanziata all’interno della riserva del
113 Grande tenuta sudamericana in cui si alleva il bestiame. 114 C. CEOTTO, op. cit., p. 79.
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Cushamen, riserva creata fra la città di San Carlos de Bariloche e quella di Esquel. Questa riserva risale ai tempi della conquista del deserto con l’intento di confinare quei pochi mapuche-tehuelche che erano sopravvissuti al genocidio dell’esercito di Roca. Più di mezzo secolo dopo, una volta costituita la provincia del Chubut, le amministrazioni che si sono succedute hanno concesso dei titoli di proprietà dei terreni all’interno della riserva Cushamen tanto ai latifondisti quanto ai non-mapuche, non mostrando alcun riguardo per le leggi statali e avendo soprattutto una scarsa e ridotta considerazione nei confronti degli abitanti di quella terra.
É nel 1991 che i fratelli Benetton acquistano in Argentina otto immense tenute, sette delle quali si trovano in Patagonia, per un totale di novecentomila ettari. Su questi enormi appezzamenti di terra destinati al pascolo di quasi pressappoco novecento mila pecore, alla produzione di legname e all’allevamento bovino. Delle terre ottenute c’è anche quella in cui vive la comunità di Vuelta del Río. Secondo quanto scrive Leslie Ray, interessato al pari di Claudio Ceotto e Perla Suez a offrire al mondo l’opportunità di volgere lo sguardo sul popolo della terra:
Non espulsero tutti i residenti; riservarono all’insediamento di alcune famiglie un piccolo appezzamento […]. Vivono lì 30 famiglie, circa centocinquanta persone. La comunità ha sempre vissuto di allevamento ovino, che ora però è impraticabile a causa della scarsità della terra e dei recinti che i “proprietari” italiani hanno fatto costruire. La terra nell’area di Leleque comprata dai Benetton era la stessa che la Compagnia delle Terre del Sud Argentino116 acquisì a seguito della Conquista del deserto.
Benetton comprò l’atto di proprietà della terra datato 1896. I Mapuche credono che il loro diritto sulla terra sia precedente a questo, ma non hanno documenti per provarlo117.
É con la promessa di creare posti di lavoro in quel territorio immenso e lasciare intatti i villaggi che Benetton inizia a occupare “legalmente” gran parte delle terre patagoniche. Promessa, però la loro, che da lì a pochi anni rivela la propria natura: nel 1999, infatti, un articolo del Clarín, testata nazionale argentina, riporta la notizia riguardante la volontà di Benetton di deviare il corso del fiume Lepa con lo scopo di migliorare le condizioni dei pascoli
116 Vedi p. 35.
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destinati alle loro celebri pecore merino. Tutto ciò accade senza che sia effettuato alcuno studio sul possibile impatto ambientale ma soprattutto senza avere nessun minimo riguardo per le popolazioni che vivono a valle. A seguito di tale azione, Ronald Macdonald, amministratore di una delle tenute Benetton, ha difeso la linea della multinazionale affermando che: «pescare non è proibito, perché il fiume è proprietà dello stato; tuttavia, è proibito camminare lungo le sue sponde, perché il terreno è proprietà privata»118. Oltre al danno la beffa ritengo sia l’espressione che possa riassumere una tale affermazione.
Altro caso di sopruso compiuto da Benetton che, fortunatamente, ha avuto una eco internazionale, grazie soprattutto all’attenzione rivoltagli dal premio Nobel argentino Adolfo María Pérez Esquivel119, è quello della famiglia Curiñanco:
Alle 8.40 del mattino del 2 ottobre 2002, dodici poliziotti in tenuta antisommossa e muniti di cani fecero irruzione a Santa Rosa, vicino a Leleque, un appezzamento gestito dalla famiglia Curiñanco. In quel momento Atilio Curiñanco era nei campi e sua moglie, Rosa Rúa Nahuelquir, si trovava nella modesta casa che avevano costruito. Quando lei rifiutò di farli entrare, i poliziotti le ordinarono di andarsene. Il vice commissario Pérez, incaricato dell’operazione, avvertì Rosa che se avesse fatto resistenza l’avrebbero portata via in manette. «Nessuno può intralciarli (i Benetton), perché sono quelli che hanno più soldi di tutti», le disse. La dimora di lamiera dei Curiñanco fu completamente smantellata dai funzionari, poi sequestrarono i loro mezzi di sostentamento […]. In appoggio all’operazione stazionò in permanenza nella proprietà una roulotte della polizia120.
Episodi come questo sopracitato sono, purtroppo, ancora all’ordine del giorno. Tuttavia, se c’è qualcosa che dei Mapuche non può essere né piegata né tantomeno recintata è senza dubbio la loro proverbiale resistenza.
Nel febbraio del 2003 viene promossa una manifestazione in segno di protesta a Leleque, fuori delle terre recintate dal gruppo italiano, con numerosi dimostranti fra Mapuche e semplici sostenitori, al fine di mostrare il proprio supporto ai Curiñanco. Diretta conseguenza della manifestazione è l’arresto del
118 Ibidem.
119 Nato il 26 novembre 1931, Adolfo María Pérez Esquivel è un pacifista argentino. Arrestato
nel 1975 dalla polizia brasiliana, viene incarcerato l’anno seguente in Ecuador. Nel 1977 la polizia argentina lo tortura e lo tiene in stato di fermo per 14 mesi. Mentre si trova in prigione, riceve il Memoriale della Pace di Papa Giovanni XXIII e nel 1980 viene insignito del Premio Nobel per la pace per aver denunciato gli abusi commessi dalla dittatura militare argentina negli anni settanta del '900.
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suo organizzatore, Mauro Millán, fondatore dell’Organizzazione 11 ottobre, con l’accusa di aver commesso crimini contro la proprietà privata, accusa in seguito ritirata. «Qui noi stiamo lottando per soli 500 ettari, contro un milione di ettari di Benetton»121 protesta Rosa.
Il 31 marzo 2004 viene emessa la sentenza: la terra è dei Benetton. I coniugi Curiñanco decidono allora di ricorrere in appello contro tale verdetto e spostare la propria lotta contro Benetton, che, come difesa, ricorre al fatto che tra la multinazionale e i Mapuche della zona, gran parte dei quali impiegati nelle “sue” terre, non ci sono mai stati screzi.
È adesso che entra in scena Esquivel.
Venuto a conoscenza del caso Curiñanco, il premio Nobel per la pace ci tiene a sottolineare il fatto che lavorare per Benetton non significa chiaramente approvarne il comportamento.
Nel novembre dello stesso anno, su invito di Esquivel, i Curiñanco vengono in Italia per incontrare Luciano Benetton. Durante tale incontro Benetton si mostra pronto a donare alla comunità mapuche 2.500 ettari di terra in una zona non specificata della Patagonia, “dono” che, a buon diritto, i Curiñanco rifiutano. Mesi dopo, l’ufficio governativo della provincia di Chubut procede a un sopralluogo sugli undici mila ettari nella zona di Piedra Parada122 che Benetton aveva comunque messo a disposizione della provincia e che vengono legittimamente rifiutati in quanto la terra di quell’area è sterile e improduttiva. Nel febbraio 2007 Rosa e Atilio occupano la loro terra ancora una volta. Nel giugno 2009 inizia il processo per stabilire la proprietà legale della tenuta di Santa Rosa.
Dopo aver passato in rassegna simili vicende, risulta alquanto difficile credere che Benetton si faccia realmente portavoce del “All human beings are born free and equal in dignity and right”123 dato che privando i Mapuche del diritto alla propria terra, li ha privati del diritto alla vita.
121 Cit. in ivi, p. 122.
122 Territorio a nord-ovest della provincia di Chubut.
123 “All human beings are born free and equal in dignity and rights. They are endowed with
reason and conscience and should act towards one another in a spirit of brotherhood” è il primo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani firmata a Parigi il 10 dicembre 1948.
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«Non si può comprare la dignità di un popolo. Credo che Rosa e Atilio abbiano una dignità, e non è qualcosa che si possa comprare con il denaro… Ha ben altro valore. E tutta la ricchezza dei Benetton non può reggere il confronto»124. Ecco allora che tra le pagine de El país del diablo, i toccanti resoconti della Patagonia di Claudio Ceotto e le storie di vita di Leslie Ray sembra davvero di udire in lontananza la voce del deserto, di ascoltare l’inno alla vita della gente della terra: Marici Weu!