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INDICE
INTRODUZIONE ...
p. 3
CAPITOLO I ...
p. 5
1.1 La gente della terra: i Mapuche... p. 5
1.2 La araucanización ... p. 12
1.3 Juan Manuel de Rosas e la campaña del desierto ... p. 17
1.3.1 La conquista del desierto
... p. 23
1.4 Storia e finzione ne El país del diablo ... p. 25
1.4.1 Un romanzo ibrido
... p. 26
1.4.2 Analisi narratologica
... p. 31
1.5 Perla Suez e il suo paese del diavolo ... p. 37
1.5.1 La solitudine del deserto: Drogo e Deus,
due personaggi a confronto
... p. 37
1.5.2 Alla scoperta di Perla Suez
... p. 39
1.6 Il ruolo della machi nella comunità mapuche ... p. 43
1.7 I Mapuche oggi: tra (r)esistenza e autonegazione ... p. 46
1.8 Interesse culturale e interessi commerciali: da Claudio
Ceotto ai fratelli Benetton ... p. 51
CAPITOLO II
... p. 58
Il paese del diavolo, traduzione de El país del diablo di
Perla Suez ... p. 58
Glossario... p. 171
2
CAPITOLO III ...
p. 176
Commento alla traduzione ...
p. 176
3.1 Approccio traduttivo ... p. 176
3.2 Le tendenze deformanti ... p. 179
3.3 Tradurre El país del diablo ... p. 183
3.3.1 I realia
... p. 183
3.3.2 Nomi propri
... p. 188
3.3.3 Riprodurre l’oralità
... p. 188
3.4 Caratteristiche dello spagnolo parlato in Argentina ... p. 192
3.4.1 Fenomeni morfosintattici
... p. 192
3.4.2 Fenomeni lessicali
... p. 196
3.5 Similitudini e ripetizioni ... p. 197
CAPITOLO IV ...
p. 200
Entrevista a Perla Suez ...
p. 200
BIBLIOGRAFIA
... p. 204
SITOGRAFIA ...
p. 206
DIZIONARI ...
p. 207
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Introduzione
Il presente lavoro è incentrato su una delle opere della scrittrice argentina Perla Suez: El país del diablo.
Vincitore nel 2015 del Premio Sor Juana Inés de la Cruz, El país del diablo è un romanzo a oggi inedito in Italia. Il nome di questa scrittrice argentina non è però totalmente sconosciuto al nostro Paese, dal momento che nel 2009 viene pubblicata I fiumi della memoria, traduzione italiana della Trilogía de Entre
Ríos.
Il primo capitolo di questa tesi è in gran parte dedicato ai Mapuche, a quel popolo indigeno originario del Cile centro-meridionale e del sud dell’Argentina di cui vengono narrate le origini, i miti, le guerre e a cui appartiene Lum, la protagonista de El país del diablo.
Dopo aver delineato un quadro generale del panorama storico, sociale e culturale attorno a cui ruota l’intera opera, ho riservato la parte centrale di questo primo capitolo all’idea di letteratura che la stessa Perla Suez ha illustrato in numerose interviste, inclusa quella che mi ha gentilmente rilasciato, grazie alle quali sono riuscita a tracciare il sentiero che l’ha condotta al paese del diavolo. Nei paragrafi finali di questa prima parte volgo invece lo sguardo alle vicende odierne dei Mapuche, alle loro storie, alle loro continue lotte, alla loro fiera resistenza.
Il secondo capitolo, nonché nucleo centrale di questo lavoro, è costituito dalla traduzione dell’intero romanzo.
Dopo lunghe esitazioni e attente riflessioni, ho deciso di aggiungere un glossario alla mia proposta di traduzione. Volendo concedere al lettore italiano l’esperienza dell’estraneo e non volendo ricorrere all’ultima ratio1, ovvero alla nota a piè di pagina, ho ritenuto che riunire in un elenco tutte le parole intimamente legate alla regione patagonica e alla cultura mapuche sarebbe stata la scelta più rispettosa e fedele nei confronti del testo originale.
1 Cit. in U. ECO, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani Editore,
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Nel terzo capitolo sono illustrate le strategie adottate nel corso della traduzione. Il commento, introdotto e sostenuto da un supporto teorico fornito dai numerosi studi sulla traduzione, analizza caso per caso le questioni più spinose e i fenomeni morfosintattici e lessicali peculiari di questo romanzo.
Il quarto e ultimo capitolo con cui concludo questo lavoro è invece riservato all’intervista, avvenuta tramite mail, che la scrittrice argentina mi ha generosamente concesso alcuni mesi fa. Le risposte fornitemi da Perla Suez costituiscono senza alcun dubbio una preziosa chiave di lettura per potersi addentrare in un romanzo come El país del diablo.
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Capitolo I
1.1 La gente della terra: i Mapuche
Nella profondità del mare viveva un grosso serpente chiamato Cai-Cai. Le acque obbedivano ai suoi ordini e un giorno cominciarono a ricoprire la terra. Ten-Ten, un altro serpente esattamente potente come il primo, che viveva sulla sommità delle colline, consigliò ai Mapuche di arrampicarsi sulla collina all’innalzarsi delle acque. Molti Mapuche non ce la fecero a scalare la collina, così morirono e furono trasformati in pesci. L’acqua saliva e saliva; i Mapuche si misero dei recipienti sulla testa per proteggersi dalla pioggia e dal sole. Fecero dei sacrifici e le acque si calmarono; quelli che erano sopravvissuti scesero dalle colline e popolarono la terra. In questo modo nacquero i Mapuche2.
Tramandato oralmente di generazione in generazione, questo è il mito della creazione del popolo mapuche. “Lingua della terra” è la traduzione italiana di
mapudungun, nome che questo popolo ha attribuito alla propria lingua. La
parola mapuche stessa significa “popolo della terra” (mapu-terra, che-popolo); ed è proprio il legame con la terra la chiave di lettura della loro storia: una storia fatta di lotte e resistenza, di negazione e identità.
Durante il XVI secolo, epoca in cui gli europei approdarono nella zona oggi nota come Cile, Gulu Mapu in mapudungun, la zona occupata dai Mapuche si estendeva a nord fra il fiume Aconcagua e l’isola di Chiloé. Al loro arrivo i Mapuche saranno stati almeno mezzo milione. Possedevano delle conoscenze specifiche e strumenti adeguati alla coltivazione, caccia, pesca e raccolto e si concentravano negli spazi prossimi al tipo di risorsa necessaria e lì disponibile. Una delle aree maggiormente abitate era quella tra Arauaco e la parte a est della Cordigliera di Nahuelta, in quanto la presenza di piccoli o grandi corsi d’acqua permetteva la pesca. Le Ande erano fonte di svariati alimenti tra cui il
pewen (l’araucaria). Gli animali più cacciati, grazie anche all’aiuto dei kiltros (i
cani addomesticati) erano puma, guanaco, pudù e cervi huemul.
Quella dei Mapuche poteva essere definita una forma di proto-agricoltura poiché coltivavano su piccola scala e la loro produzione riguardava soltanto
2 Cit. in L. RAY, La lingua della terra, I Mapuche in Argentina e Chile, BFS Edizioni, Pisa,
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poche specie. Il sistema, chiamato roce (taglia-e-brucia), consisteva nella ripulitura di un’area boschiva che veniva prima data alle fiamme e poi seminata. Tuttavia, fu nelle vallate del nord e del centro del Cile che nacque la prima vera forma di agricoltura, frutto dell’influenza della civiltà Inca. I Mapuche del Sud, invece, non erano a conoscenza di una simile organizzazione agricola, sebbene avessero appreso l’uso del wa (mais) e del kinwa (quinoa) dal vicino Perù. La loro alimentazione era a base di patate, fagioli e farina che ricavavano dalla noce del pewen. L’allevamento di wekes (lama) e di
chiliwekes (guanaco) era largamente praticato anche se solo per i consumi
domestici. In seguito all’arrivo degli animali portati dagli spagnoli, l’intera economia mapuche avrebbe subito notevoli cambiamenti3.
La conoscenza dei miti e degli dei di questo popolo è un ulteriore cammino che conduce a una migliore comprensione delle loro tradizioni e forme di vita. I Mapuche credono nell’esistenza di molteplici divinità, figure superiori che interagiscono con gli esseri umani e determinano la loro vita sulla terra. Pertanto, appare doveroso e necessario passare in rassegna alcune di queste principali entità soprannaturali.
Unkusé-Unfichá racchiude in sé la figura della madre e del padre eterno,
creatore del mondo e liberatore dal cataclisma apocalittico. È un dio generoso ma che a volte dimentica gli esseri umani, cosicché questi diventano vittima di calamità e miserie.
Pillán è lo spirito ancestrale di uno dei membri della comunità che da vivo
partecipava ai riti della famiglia e della comunità. Secondo questa credenza mapuche, questo spirito rappresenta un mezzo di comunicazione tra la vita terrena e quella ultraterrena.
Witranalhue è l’essere misterioso che gli stregoni infondono a coloro che
hanno bisogno di fortuna, ricchezza e animali.
Anchimallen è la bambina dagli occhi vivaci, morta a causa di una malattia
improvvisa. Dopo essere stata sepolta vicino a una ruka4, come da tradizione, viene riportata in vita da una strega divenendo messaggera di morte per i
3 Ivi, p. 33.
7
bambini in tenera età e per gli adulti che incrociano il suo passo durante la notte.
Chon-Chon, spirito notturno chiamato anche Tué Tué, è la testa alata di una
strega che si distacca da un tronco nel cuore della notte per andare dove vuole recare danno.
Ñaquim, dio del pantano, è incarnato nel corpo di un bimbo: non
riconoscendone la vera natura e vedendolo piangere viene preso tra le braccia da chiunque lo incontri, correndo così il rischio di contrarre una malattia epidermica.
Waillepén è un diavolo sotto forma di animale dalle estremità attorcigliate che
vive nei boschi. Provoca deformazioni ai neonati, ai bambini e ai cuccioli ancora nel ventre delle loro madri. Per tale ragione, i Mapuche eliminavano tutte le creature nate deformi così da evitare la presenza di figli del diavolo nell’etnia.
Infine c’è Genechén, dominatore della gente (gené= dominar e ché=gente). I gesuiti, per meglio comprendere questa nuova religione, avevano fatto corrispondere questo dio al Dio unico cristiano. Invece, questo dio unico e creatore dell’universo i Mapuche lo immaginavano alla stregua degli altri esseri buoni:
Genechén: ser creador de todo; domina la tierra como rey o pastor, da vida o fecundidad a los hombres, animales o plantas, dispone de las fuerzas de la naturaleza para dicha y perdición de los hombres. Lo llaman Padre porque creen que han sido engendrados por él, lo suponen parecido al hombre pero de una naturaleza más sutil, tal vez espiritual y tienen de su naturaleza idea tan confusa que no saben si es hombre o mujer5.
Per comprendere appieno questo popolo millenario è impossibile prescindere dalla loro cosmovisione bipartita secondo una concezione verticale e una orizzontale. Secondo la prima, i Mapuche intendono il cosmo come l’insieme di sette piattaforme quadrate e sovrapposte nello spazio, create in ordine discendente e aventi come modello la piattaforma più alta, in cui risiedono le divinità creatrici. Di fatto, il mondo naturale altro non è che riproduzione di tale gerarchia soprannaturale. L’insieme di queste piattaforme definisce
5 Cit. in J. ROBERTO BÁRCENAS, Culturas indígenas de la Patagonia, Editorial Turner,
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l’ubicazione delle tre zone cosmiche, rispettivamente di cielo, terra e inferno. Le quattro piattaforme del bene, meli, ñom, wenu o wenu e mapu, sono la dimora degli dei benefici e dagli avi; opposte a queste sono le due piattaforme del male, anka wenu e minche mapu, abitate dagli spiriti cattivi. È dunque dalla lotta tra le forze del bene e quelle del male che nasce la terra (mapu). I Mapuche avallano quindi una prospettiva dialettica e dualistica che vede nella congiunzione di queste due forze opposte la condizione sufficiente e necessaria per l’equilibrio dell’intero cosmo. María Ester Grebe Vicuña, a tal proposito, scrive:
El anka wenu está ubicado casi unánimamente entre el mapu y el meli ñom wenu. Sin embargo, hay algunos aspectos divergentes. Contra ocho testimonios que mencionan la existencia de seis plataformas cósmicas, hay siete que coinciden en señalar la presencia de una séptima plataforma, el minche mapu. Dicha plataforma es una región subterránea que recibe varias denominaciones: trufkén mapu (tierra de las cenizas),
laftrache mapu (tierra de la gente pequeña) y kofkeche mapu (tierra de la
gente del pan). La omisión de esta plataforma puede ser interpretada como un conocimiento de antiguo origen que esté en proceso de extinción, […] como un bloqueo de comunicación por ser un conocimiento excesivamente oculto. […] Los mapuches evitan en lo posible hablar de tópicos que implican alguna relación directa o indirecta con las fuerzas del mal, por creer que «hablar del mal llama el mal»6.
In base a una concezione orizzontale, l’universo mapuche viene invece rappresentato come una piattaforma quadrata orientata rivolta ai quattro punti cardinali7. Secondo quanto riportato da diverse testimonianze, il centro di questo quadrilatero terrestre (anën mapu, “terra su cui siamo seduti”) costituisce la porzione di terra da loro occupata, il nillatué, centro rituale concesso dagli dei. Tale visione cosmica trae origine dal Popol Vuh, il libro sacro degli indios del Guatemala:
Según la leyenda de los cuatros hermanos Ayar, marcó la tierra el hermano mayor, y tirando con una honda cuatro piedras hacia las cuatro partes del mundo, tomó posesión de ella. […] Así los incas dividieron su señorío en cuatros partes y pusieron frente a ellas a cuatro señores orejones8.
6 Ivi, p. 221.
7 In mapudungun est, sud, nord e ovest sono rispettivamente puel mapu, willi mapu, mapu piku
e nau mapu o lafkén.
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Una concezione del mondo siffatta dà origine a un ordine spaziale bipartito in etico e cerimoniale. Il primo assegna ai quattro punti cardinali le connotazioni di bontà e malvagità secondo associazioni legate a elementi empirico-naturali e magico-religiosi.
I Mapuche ritengono che gli elementi presenti in natura rispondano tanto alla volontà umana quanto a quella soprannaturale e che al fine di rendere intellegibile quest’ultima sia necessario ricorrere alla magia e alla religione. Secondo tale cosmologia, est e sud rappresentano la buona sorte e le divinità benefiche portatrici di abbondanza e buona salute, mentre ovest e nord simboleggiano la cattiva sorte e gli spiriti malvagi che disseminano sulla terra temporali, malattie e morte. È per tale ragione che, ad esempio, durante il rito della fertilità, il nillatún, tutte le attività si orientano prima verso est e poi verso sud, con le spalle a ovest e a nord9.
Per quanto concerne l’ordine spaziale delle cerimonie, i Mapuche si dispongono in cerchio e scandiscono il tempo attraverso il numero di volte che si compie un giro completo. Il disporsi in cerchio avviene anche nella quotidianità quando vengono serviti cibo e bevande come il mate o la chicha ma anche durante i rituali religiosi come quello della fertilità (il nillatún) o della post iniziazione delle machi10 (il neikurrewén), in cui le danze seguono il
verso di tale cerchio attorno al palo sacro o all’albero cosmico che rappresenta il centro del mondo.
La loro visione del mondo appare intimamente legata alla simbologia dei colori. Il bianco e l’azzurro, nelle loro varianti di violetto, blu e celeste, rappresentano i colori del cielo e delle nuvole. Essendo i due colori associati alla sfera del soprannaturale e al bene, vengono utilizzati dalle machi e durante il nillatún. Il nero, invece, è il simbolo della notte, dello spirito del male e della morte, mentre il rosso è il colore che viene comunemente associato alla guerra e al sangue. Il verde, infine, simboleggia la natura in tutto il suo splendore: è il colore della fertilità e della madre terra.
9 Alle ragioni empirico-naturali e magico-religiose si devono aggiungere quelle derivanti dai
fatti storici. Difatti, tanto l’invasione degli inca quanto quella degli spagnoli arrivò da nord.
10
Dalla concezione del mondo soprannaturale e naturale unita alla teoria dei colori scaturisce la divisione dicotomica terrestre. Est e sud vengono associati ai colori del bene, dunque all’azzurro e al bianco; nord e ovest al male e quindi al colore nero. Chiaramente, il centro della terra rimanda al verde del mondo naturale. Tuttavia, il colore supremo sembra essere il ayon, identificato con il bianco trasparente e il chiarore della luce. L’ordine dell’universo mapuche si presenta pertanto come un’unione di regioni cosmiche e punti cardinali messi in relazione fra loro attraverso i colori e l’opposizione bene-male.
Secondo i Mapuche, il cosmo è popolato da esseri soprannaturali, benefici e malefici, e gli esseri umani, rispettivamente ubicati all’interno delle quattro piattaforme del bene, nelle due del male e sulla terra. Gli esseri umani si dividono a loro volta in quattro grandi famiglie che risiedono nelle quattro regioni della terra: i pewenches (gente dell’est), i williches (gente del sud), i
pikunches (gente del nord) e i lafkenches (gente dell’ovest). Basandosi sulla
propria stratificazione sociale, raggruppano le loro divinità e spiriti secondo due criteri: il primo riguarda la differenza relativa allo status dei membri di ciascuna famiglia di divinità e spiriti; il secondo rimanda alla loro classificazione gerarchica.
Le divinità e gli spiriti si dispongono simmetricamente in famiglie composte da esseri antropomorfi e antroposociali. A sua volta, ogni famiglia si compone di un’unità formata dal sesso (maschile-femminile) e dall’età (vecchiaia-gioventù)11. Conseguentemente, la differenza di status fa sì che la posizione predominante sia quella dei primi due elementi di ciascuna unità (maschile-vecchiaia): la donna è perciò subordinata all’uomo come i giovani agli anziani. La gerarchia di ciascuna famiglia dipende dalla propria posizione all’interno dell’universo.
Gli spiriti del male non sono invece gerarchicamente classificati perché in loro regna il disordine e il caos; pertanto non formano alcun gruppo simmetrico ma appaiono piuttosto come esseri solitari e isolati.
11
Benefici o malefici che siano, gli esseri soprannaturali determinano la sopravvivenza dei Mapuche sulla terra.
12
1.2 La araucanización
Era la tarde, y la hora en que el sol la cresta dora
de los Andes. El Desierto incommensurable, abierto, y misterioso a sus pies se extiende12 El desierto, E. Echeverría
La terra dei Mapuche è il Wallmapu, territorio circondato a est dal Puel Mapu, a ovest dal Gulu Mapu, a sud dal Willi Mapu e a nord dal Piku Mapu13. Per i conquistatori d’oltreoceano questa terra rappresentava un territorio vuoto, inabitato, deserto, una terra nullius14.
Tuttavia, a differenza di quanto si voleva credere, il Puel Willi Mapu, la Patagonia, non era affatto inabitata quando nel 1520 Ferdinando Magellano vi approdò. All’arrivo degli europei il Gulu Mapu, area oggi facente interamente parte del Cile, era allora occupata dai Mapuche. Questi ultimi erano conosciuti anche come Reche, popolo puro o autentico, e ai tempi dovevano essere circa mezzo milione.
Nel XV secolo gli abitanti dell’attuale Cile del nord erano sotto il potere dell’impero inca, che cercò di estendere la propria ala anche verso i territori del centro-sud non riuscendo però nell’intento. L’indole nobile e inflessibile dei Mapuche fece sì che gli Inca si rivolgessero a loro con il dispregiativo di auca, cioè ‘barbari’ in quechua. I più ritengono che da questo termine derivi
araucanos, parola con cui, qualche decennio dopo, gli spagnoli avrebbero
indicato i Mapuche.
Numerosi furono gli attacchi che il popolo mapuche dovette fronteggiare nella prima metà del XVI secolo. Nel 1536 il conquistatore spagnolo Pedro de Valdivia marciò diretto a sud attraverso il deserto di Atacama15 e fondò la città di Santiago nel 1541. Nel 1544 i Pikunke, popolo che abitava la zona a nord
12 E. ECHEVERRÍA, El matadero – La cautiva, Ediciones Cátedra, Madrid, 2011, p. 125. 13 L. RAY, op. cit., p. 32.
14 Ibidem. Leslie Ray ricorre a tale espressione latina che le potenze europee utilizzavano
all’epoca delle conquiste coloniali per indicare i territori che, non a buon diritto, ritenevano possibile occupare dato che non consideravano gli abitanti originari come una nazione.
13
del Maule16, finirono sotto il potere della corona spagnola. Nel 1546 i Mapuche e le truppe spagnole si trovarono faccia a faccia per la prima volta. Nonostante questo scontro andò a favore dei primi, i secondi ripresero la propria marcia verso sud e fondarono una nuova città vicino al fiume Bío-Bío, Concepción. Il nemico seguitava a guadagnare terreno.
I lonko17, i leader delle comunità mapuche, capirono che l’invasione spagnola era ormai certa. Lautaro, Leftraru in mapudungun, divenne un toki, valente leader militare, dopo essere stato fatto prigioniero da Valdivia. Quando i Mapuche si ritrovarono a dover combattere la cavalleria spagnola ebbero paura che cavaliere e animale fossero un’unica entità invincibile, ma Lautaro li aiutò a sfatare questo mito insegnando ai propri guerrieri tanto a cavalcare quanto a usare diverse tattiche, come l’attaccare di sorpresa i forti o l’attirare le truppe spagnole lontano da questi per assaltarle. Nel 1553 Lautaro e i suoi attaccarono il forte di Tucapel e catturarono Valdivia, che fu obbligato a bere oro fuso con l’accusa di aver tentato di ridurre in schiavitù il popolo mapuche, “di popolare la terra con gente di altri mondi, e di impossessarsi di tutti”18.
Il XVI secolo si concluse con un’importante vittoria dei Mapuche, capitanati dal toki Pelentaro19 nella battaglia di Curalaba, che costrinse gli spagnoli ad abbandonare le città che avevano fondato a sud del Bío-Bío.
Nel gennaio del 1641, gli spagnoli e i Mapuche negoziarono una tregua e siglarono il trattato di Kilín, con il quale i primi riconobbero il fiume Bío-Bío come frontiera e l’indipendenza del territorio mapuche, che accettarono di abbandonare a eccezione però del forte di Arauco; i secondi, invece, si impegnarono a non valicare la frontiera, a lasciare che i religiosi predicassero in quelle terre e a liberare i prigionieri. Sfortunatamente però la pace non durò a lungo in quanto gli spagnoli vennero meno ai patti compiendo ripetute incursioni nella parte interna dell’Araucanía20.
16 Il Maule, che significa “piovoso” in mapudungun, è uno dei maggiori fiumi cileni.
17 “Capo” in mapudungun, è il leader che ha anche il compito di amministrare la giustizia.
Questa carica non è ereditaria ma viene ricoperta soltanto dopo aver dimostrato i propri meriti e le proprie abilità nella gestione della vita della comunità e dei rapporti con il mondo esterno.
18 L. RAY, op. cit, p. 35. 19 Pelentraru in mapudungun.
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Nonostante simili scorrerie, durante il secolo successivo le autorità delle rispettive fazioni cercarono di siglare numerosi parlamentos (accordi). Fu così che gli anni a venire incarnarono, sebbene soltanto momentaneamente, un periodo di prosperità per il popolo mapuche21. Tuttavia, le battaglie portate avanti contro gli spagnoli accrebbero lo stimolo di molti Mapuche nel ricercare un luogo più sicuro in cui vivere.
Formata dalle province di Neuquén, Río Negro, Chubut e Santa Cruz e con i suoi quasi 800.00 km2, la Patagonia occupa la zona più australe del territorio argentino. Dal punto di vista geomorfologico, presenta due zone distinte: la zona andina in cui la Cordigliera con le sue vallate e i suoi laghi fa da padrona e la zona extra-andina caratterizzata dalla presenza di altipiani, steppe ed enormi zone desertiche che si estendono fino all’Oceano Atlantico. Secondo quanto affermato precedentemente, veniamo a conoscenza del fatto che l’est era considerato dai Mapuche il principale punto cardinale in quanto indicava la direzione in cui sorgeva il sole e quindi la vita. Per tale ragione, il Puel Mapu, ovvero la Patagonia, fornì un’occasione per coloro desideravano avere una nuova esistenza. Come precisato dall’antropologo argentino Carlos Martínez Sarasola:
Voleva la tradizione che là dove sorge il sole, oltre le enormi montagne, vi fosse un posto incantato di pini e laghi fra le nevi. E oltre questo, la pianura, che supponeva essere quasi infinita. Questo posto meraviglioso era l’odierna provincia di Neuquén, in Argentina, forse il luogo più praticato dai Mapuche per attraversare le montagne data la morfologia ideale, con un gran numero di valichi. Così i Mapuche incrociarono i Pehuenche, con cui stabilirono i primi contatti22.
A partire dal XVII secolo la presenza di questo popolo acquisì via via una maggiore intensità, in concomitanza con il loro espandersi in territori già però
21 Gli anni compresi fra il 1793 e il 1881 furono una sorta di età dell’oro per questa civiltà.
Essa, infatti, si era evoluta da uno stadio pre-agricolo a uno mercantile ampiamente sviluppato grazie ai rapporti commerciali che intratteneva al suo interno e, in particolar modo, con i winka (i non-Mapuche) Il sistema economico, che fino a quel momento ruotava intorno a caccia e pesca, introdusse l’allevamento di bovini, cavalli e pecore. Chiaramente, questo tipo di allevamento era uno delle conseguenze delle importazioni del colonialismo spagnolo.
15
abitati da altri popoli, come i Tehuelche23 e i Pehuenche24. Mentre i primi vivevano nella vastità che si estende tra la Pampa umida e la Terra del Fuoco, i secondi occupavano quella che oggi è l’attuale provincia del Neuquén. Inizialmente i Mapuche si stanziarono sulle colline pre-andine, sul versante argentino di Neuquén e Río Negro a essere precisi; in un secondo momento si addentrarono, attraverso le Pampas, fino alla provincia di Buenos Aires.
Questo processo è comunemente noto come araucanización e descrive la penetrazione, dapprima lenta e graduale e poi decisa, dei Mapuche nella regione pampeana e patagonica. Il loro ingresso in terra argentina produsse l’assorbimento culturale dei Tehuelche e, successivamente, la loro supremazia su questi. Tale dinamica raggiunse il proprio apice attorno alla prima metà del XIX secolo, momento culminante che sancì la definitiva egemonia del popolo mapuche grazie alle azioni promosse dal grande toki Kalfukurá25, in particolare alla decisione di insediarsi nelle Salinas Grandes. Infatti, altra ragione, puramente economica in questo caso, che aveva incoraggiato i Mapuche a viaggiare a est delle Ande fu precisamente la ricerca del sale. Come si vedrà anche ne El país del diablo, al centro della Pampa vi erano queste enormi riserve saline il cui controllo passò nella prima metà del XIX secolo ai Mapuche.
Nonostante la araucanización non condusse al predominio di una cultura sull’altra, contribuì di certo a creare una complicata interrelazione umana, all’interno della quale le differenti caratteristiche dei rispettivi popoli si combinarono tra loro al punto da generare nuovi gruppi etnici, come ad
23 Denominati in tal modo dai Mapuche, i Tehuelche o “gente brava” si suddividevano in tre
gruppi principali: gli abitanti del nord, quelli del sud e gli ona. I primi due gruppi vivevano di caccia, attività che li obbligava a costanti spostamenti. La loro organizzazione sociale si fondava su un gruppo di famiglie guidate da un cacique, ovvero da colui che organizzava le battute di caccia e indicava la direzione dei loro spostamenti.
24 Il loro nome ha il significato di “gente de los pinares” ed è stato attribuito loro perché il
pehuén, il pinolo dell’Araucanía, costituiva il loro alimento di base. Si organizzavano in gruppi di famiglie che, a differenza dei Mapuche e dei Tehuelche, non avevano dei capi a ricoprire il ruolo di autorità. Nel corso del XV e de XVI secolo questa comunità avvertirà, con un’intensità sempre maggiore, la presenza dei Tehuelche mentre da sud arriveranno le prime influenze mapuche. L’esito di simili pressioni da parte di altri popoli condusse alla preminenza tehuelche prima e all’assimilazione ai Mapuche poi.
25 M. BULLRICH (a cura di), Mapuches del Neuquén, Arte y cultura en la Patagonia
16
esempio i ranqueles26.
La propensione dei Mapuche a muoversi periodicamente rese necessario far subentrare alla ruka, la loro tradizionale abitazione di legno e paglia, il toldo, una tenda ottenuta mettendo insieme delle pelli che venivano tese su dei paletti in legno. Altro cambiamento che apportarono alle loro abitudini fu ad esempio quello relativo all’uso della boleadora, una pietra rivestita in cuoio e legata a una corda che veniva utilizzata per afferrare la preda per le zampe e atterrarla. Indubbiamente però, il cambiamento maggiore e di gran lunga più fecondo fu l’impiego del cavallo. Questo ampliò considerevolmente la capacità e la velocità degli spostamenti e degli attacchi ai nemici, permise di trasportare carichi più pesanti e costituì una significativa fonte di nutrimento nonché di baratto. Tuttavia, cosa più importante su cui soffermarsi è il rapporto quasi simbiotico che i Mapuche stabilirono con questo animale. Come si leggerà tra le pagine de El país del diablo, e in particolar modo nel legame tra la protagonista e la sua giumenta, i Mapuche trascorrono gran parte delle loro giornate con il proprio cavallo, come se essere umano e animale fossero una cosa sola, intimamente e fraternamente legati, figli entrambi della madre terra. Sarà infatti in sella a questi animali che i Mapuche si ritroveranno nel XIX secolo a dover combattere violente e sanguinose battaglie contro un nemico che tentava espandere i propri confini in nome di un’espressione binaria che a partire da quel momento segnerà indelebilmente la realtà argentina: civiltà e barbarie.
17
1.3 Juan Manuel de Rosas e La campaña del desierto
Laggiù tutto è immensità: immensa è la pianura, immensi sono i boschi e i fiumi, sempre incerto è l’orizzonte che si confonde con la terra, tra nubi e tenui foschie che in lontananza non permettono di distinguere il punto in cui termina il mondo e inizia il cielo. A sud e a nord è minacciata dai selvaggi, che attendono le notti di luna per riversarsi come branchi di iene sul bestiame che pascola nei campi e sulle popolazioni indifese. Nella carovana di carri che solitaria attraversa la Pampa col suo passo pesante, e che di tanto in tanto si ferma a riposare, i viaggiatori riuniti attorno al debole fuoco rivolgono meccanicamente gli occhi a sud al più leggero sussurro del vento che agita le sterpaglie, per affondare lo sguardo nelle tenebre profonde della notte, in cerca delle sagome sinistre di quell’orda selvaggia che da un momento all’altro può coglierli alla sprovvista27.
Da queste poche righe, indicative però di un dilagante e purtroppo consolidato atteggiamento repressivo nei confronti degli indigeni, si possono indubbiamente cogliere e intravedere le ragioni che avrebbero condotto a definire il territorio argentino in termini di civiltà e barbarie. Riducendo il conflitto a tali termini, appare dunque possibile asserire che Domingo Faustino Sarmiento28 identificasse con la parola “civiltà” il progresso di matrice europea, la raffinatezza dei costumi e la supremazia dell’uomo sulla natura; con la parola “barbarie” designava invece tutto ciò che veniva ricondotto e legato alla natura e quindi alla campagna e alla tradizione29.
Pubblicata nel 1845, Facundo o Civilización y barbarie en las pampas
argentinas, rappresentava e seguita a rappresentare uno dei grandi pilastri della
storia del pensiero argentino. Sostenuto dall’idea che proprio la vastità fosse il principio dei mali che affliggevano e determinavano la storia dell’Argentina, Sarmiento intendeva dar vita a un’opera che per la prima volta rivelasse la natura sociale e territoriale dell’intera nazione. «In Facundo Quiroga non vedo
27 Cit. in D.F. SARMIENTO, Facundo, Civiltà e barbarie, (a cura di Alessandra Ghezzani),
Mimesis, Milano, 2014, pp. 49-50.
28 Insieme a Estebán Echeverría e Juan Bautista Alberdi, Domingo Faustino Sarmiento
(1811-1888) è stato uno dei maggiori esponenti della Generazione del ’37, movimento intellettuale argentino del XIX secolo i cui membri si riunivano periodicamente nella libreria di Marcos Sastre per discutere di letteratura, storia e politica. Il movimento dichiarò espressamente di non abbracciare né la causa dei federali né quella degli unitari, sebbene simpatizzasse per i secondi, e propugnava il progresso del Paese e l’avvento di una democrazia che ne garantisse i diritti sociali.
29 R. CAMPRA, America Latina: l’identità e la maschera, Edizioni Arcoiris, Salerno, 2013. p.
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semplicemente un caudillo, ma anche una manifestazione della vita argentina così come l’hanno resa la colonizzazione e la peculiarità del terreno»30.
In questa sede, risulta alquanto doveroso il richiamo a tale opera e al suo autore per due sostanziali ragioni. Una prima ragione è data dal ricorso di Perla Suez, autrice de El país del diablo, a una citazione dello stesso Sarmiento (“No sean bárbaros, alambren”). L’autrice argentina recupera sì il termine “barbari” ma ne ridisegna i confini: non lo utilizza per descrivere la natura degli indigeni bensì per identificare coloro i quali ricorrono alla violenza, coloro i quali in nome della civiltà hanno sterminato un intero popolo. Una seconda ragione va ricercata nel fatto che se mai un merito va riconosciuto al romanzo sarmientino è di aver offerto un fedele spaccato storico, sociale e geografico dell’Argentina della prima metà del XIX secolo.
Al fine di descrivere questi diversi scenari, l’autore ricorre a una tripartizione del testo. Difatti, una prima parte viene rivolta alla descrizione del deserto argentino, la pampa, presentato come il principale ostacolo alla realizzazione del “progetto civilizzatore” e della modernizzazione che il Paese voleva mettere in atto; una seconda parte concerne quasi specificatamente la biografia dello spietato caudillo Juan Facundo Quiroga ed infine una terza e ultima parte spetta alla rappresentazione del governo rosista.
Benché il nome di Juan Manuel de Rosas compaia ne El país del diablo solo ed esclusivamente legato a un coltello, ovvero a quell’oggetto che la stessa Perla Suez ha definito un puro macguffin31, un accenno di carattere storico risulta
però indispensabile al fine di comprendere pienamente i processi che portarono al potere Juan Manuel de Rosas e resero possibile la sua campagna del deserto.
30 Cit. in D.F. SARMIENTO, op. cit., p. 42. Juan Facundo Quiroga (1788-1835) fu un militare
e politico argentino nonché protagonista dell’omonimo romanzo di Domingo Faustino Sarmiento. Nel 1832 fu nominato comandante della spedizione militare contro gli indios delle Pampas da Juan Manuel de Rosas. Alla fine di tale spedizione, battezzata “la campaña del desierto”, Facundo venne assassinato.
31 Come ha affermato la stessa Perla Suez in un’intervista rilasciata per un giornale online
argentino: “Esto es cine puro. Hay un libro maravilloso con las conversaciones de (Alfred) Hitchcock y (François) Truffaut en que Hitchcock habla del macguffin, un elemento que pone en todas sus películas que puede ser una valija que no tiene nada, pero que vos querés saber que tiene. El cuchillo en mi novela es un macguffin”.
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Durante i primi anni del XIX secolo l’Argentina si ritrovò a dover contrastare due forze nemiche, una esterna e una interna. Il pericolo esterno era costituito da Francia e Inghilterra, che cercavano di ampliare il loro dominio commerciale sull’Atlantico, e dal Brasile, che tentava di espandere i propri confini territoriali. Innegabilmente però, una minaccia ancor più grave era rappresentata dal pericolo interno, ovvero da una struttura di governo che era stata destinata al fallimento tanto dai suoi disastrosi tentativi di federazione quanto dai crescenti e centralizzanti interessi di Buenos Aires. In direzione opposta e contraria a quest’egemonia si leveranno i caudillos locali al fine di guidare e tenere sotto controllo le province interne.
Come d’altronde era prevedibile, gli scontri tra Buenos Aires e i caudillos delle province fecero sprofondare il Paese nel caos più totale. Per tale ragione, il 9 luglio 1816 si riunì a Tucumán un Congresso Generale Costituente che dichiarò formalmente l’indipendenza dalla corona spagnola e da ogni altra dominazione straniera. Questa dichiarazione non aveva altra aspirazione se non quella di preservare l’integrità territoriale argentina, aspirazione che però sembrava essere sempre più irrealizzabile. Tra i partecipanti al congresso affiorarono diverse posizioni relative alla forma di governo che il Paese avrebbe dovuto assumere. È all’interno di tale scenario che iniziò a farsi strada Juan Manuel de Rosas, potente possidente di provincia che riuscì a fare accordi con Estanislao López, il caudillo di Santa Fe, e a promuovere la candidatura di Martín Rodríguez come governatore di Buenos Aires32.
La trama politica argentina si divideva in due grandi partiti: l’unitario, erede del razionalismo illuminato europeo e protettore degli interessi della provincia di Buenos Aires e il federale, a cui corrispondeva anarchicamente la maggior parte delle province. In questo secondo partito Juan Manuel de Rosas vedeva depositata la fiducia delle masse popolari e dei ceti meno abbienti, figure che, in poco tempo, avrebbero determinato la sua ascesa al potere. Il ventennio del XIX secolo fu teatro dell’alternarsi di queste due fazioni politiche e si concluse nel dicembre del 1829 con la nomina di Rosas a governatore della provincia di
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Buenos Aires. Nell’assumere il comando gli venne concesso il grado di brigadiere e il titolo di Restaurador de las Leyes. Nel corso del suo governo adottò misure di ordine pubblico, rese obbligatorio l’insegnamento della religione nelle scuole e riorganizzò la polizia, fondando nel 1833 La Mazorca, il suo braccio armato per mezzo del quale esercitava oppressione e violenza. Il suo mandato si estese dal 1829 al 1852, interrotto da una breve parentesi dal 1832 al 1835 in cui consegnò le proprie dimissioni e fu sostituito da Juan Ramón Balcarce. Nonostante questa sua momentanea assenza dalla scena pubblica, Rosas riuscì a mantenere inalterata la propria popolarità.
Tuttavia, ciò che importa ai fini di quest’analisi è la maniera in cui le azioni dello spietato caudillo coinvolsero i Mapuche. Juan Manuel de Rosas era cresciuto in una zona di frontiera in cui la guerra contro gli infedeli, gli indigeni, apparteneva a una tradizione viva e lo era particolarmente per lo stesso Rosas poiché nella tenuta agricola del Rincón de López, il nonno materno rimase vittima di un malón (incursione da parte degli indigeni). Per tale ragione, riteneva che il problema degli indigeni potesse essere risolto soltanto attraverso il loro completo e totale assoggettamento e, nel caso dei più restii, attraverso il loro sterminio33. Fu in tal modo che agli albori del 1833 Rosas intraprese la campagna del deserto. Sebbene pensasse inizialmente di attraversare il deserto utilizzando una linea difensiva, cambiò opinione in un secondo momento e concepì un piano di attacco che fosse in grado di piegare gli indigeni in maniera definitiva. Tale piano contava sulla partecipazione delle truppe cilene, che avrebbero dovuto avanzare parallelamente a quelle schierate da Quiroga e dallo stesso Rosas. Purtroppo però il generale che avrebbe dovuto guidare l’esercito cileno non poté prendere parte alla campagna e di conseguenza il piano fu nuovamente modificato34. La spedizione sarebbe stata
33 E. PALACIO, Historia de la Argentina 1515-1957, Tomo II, A. Peña Lillo Editor, Buenos
Aires, 1957, pp. 343-344.
34 In merito alla partecipazione del generale cileno Manuel Bulnes ne “La campagna del
deserto” gli storici argentini supportano due opinioni contrastanti. Se da una parte c’è chi sostiene che Rosas pare essere stato tacitamente in combutta con Bulnes e che questi vi avesse preso parte; dall’altra c’è chi, come Alfredo Terzaga, afferma che non lo fece. In ogni caso, se si pensa che Bulnes, divenuto nel 1841 presidente del Cile, stesse portando avanti una campagna simile e parallela a quella di Rosas, il loro agire di comune accordo o meno risulta essere per il popolo mapuche una questione meramente accademica.
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coordinata da tre diverse colonne: la prima da Mendoza sotto gli ordini Félix Aldao, la seconda da San Luis al comando di Ruiz Huidobro e la terza da Buenos Aires con alla guida Rosas. Una volta iniziate le operazioni però, l’unico che riuscì a portarle a termine fu lo stesso Rosas. José Carlos Astolfi, a tal proposito, scrive:
Emprendió la marcha, el 22 de marzo de 1833, con 2.000 hombres, desde la guardia de Monte, y acampó a orillas del río Colorado. De allí destacó a Pacheco, quien ocupó la isla de Choele Choel y bordeó el río Negro, hasta la confluencia de los ríos Neuquén y Limay. Otras columnas recorrieron el río Colorado hasta sus nacientes, y el cañadón de Valchetas. A principios de 1834 Rosas regresó al arroyo Napostá (cerca de Bahía Blanca), dejando establecidos varios fortines. En su expedición, rescató unos 2.000 cautivos y causó a los indios más de 6.000 bajas, entre muertos y prisioneros35.
Il 25 maggio 1834, giorno scelto per la sua pregnanza storica e sociale (il 25 maggio 1810 è il giorno della Revolución de Mayo36), el Restaurador de las
Leyes richiamò le sue truppe lungo il fiume Naposta e dichiarò: «Le belle
regioni dalle Ande allo stretto di Magellano sono a disposizione dei nostri figli»37. Lungi dall’essere una leggendaria conquista, la campagna del deserto giunse pure a dei risultati alquanto modesti, considerando il suo alto costo in termini di vite indigene.
Se possiamo dunque considerare questa data come quella relativa alla vittoria di Rosas e alla sua conquista del deserto, quella che ne segnò invece la sconfitta fu il 3 febbraio 1852. Quel giorno, infatti, ebbe luogo la battaglia di Caseros38 fra lo stesso Rosas e la Grande armata del generale Justo José de
35 J.C. ASTOLFI, op. cit., pp. 318-319.
36 Con tale espressione si fa riferimento a una serie di eventi rivoluzionari accaduti nel maggio
del 1810 a Buenos Aires, allora capitale del Virreinato del Río de la Plata, che ebbero come diretta conseguenza la destituzione del virrey Baltasar Hidalgo de Cisneros e la sua sostituzione con la Primera Junta.
37 L. RAY, op. cit., p. 55.
38 Battaglia avvenuta il 3 febbraio 1852 tra l'esercito della “Confederazione Argentina” al
comando di Juan Manuel de Rosas e l'“Esercito Grande”, composto da truppe brasiliane, uruguaiane e forze provenienti da diverse province argentine, comandato dal governatore di Entre Ríos Justo José de Urquiza. Lo scontro bellico ebbe luogo nei pressi della località di Caseros, oggi El Palomar, e terminò con la netta vittoria dell'“Esercito Grande” e la sconfitta di Rosas, che abbandonò il giorno stesso il ruolo di governatore della Provincia di Buenos Aires. Questa guerra segnò un importante punto di rottura nella storia dell'Argentina poiché, dopo la vittoria, Urquiza pose termine al precedente sistema politico e, una volta divenuto direttore provvisorio della “Confederazione Argentina”, favorì l'elaborazione di una nuova Costituzione, divenendo nel 1854 il primo presidente costituzionale argentino.
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Urquiza39. Questa volta però Rosas non ottenne il risultato sperato e fu costretto a cercare riparo in Inghilterra. Il suo esilio lasciò carta bianca allo stato argentino che voleva un buon pretesto per espandersi; e i malones lo furono. I malones, a cui si è fatto cenno nella pagina precedente, era la parola indicante le incursioni compiute dai Mapuche nelle grandi fattorie che sorsero nella Pampa agli albori del XIX secolo con l’intento di rubare bestiame e catturare dei prigionieri. Appare quindi evidente che l’aumento delle colonie e degli insediamenti del governo argentino fosse direttamente proporzionale al numero di tali scorrerie. Principale conseguenza di una simile situazione fu perciò la richiesta degli agricoltori di una maggiore protezione e quindi di una militarizzazione dell’intera area. Queste incursioni, divennero purtroppo l’emblema di quella barbarie che Sarmiento e la Generazione del ’37 condannarono nelle loro opere, dandole il volto degli indigeni, i caratteri di esseri inferiori che, ineluttabilmente, sarebbero stati cacciati via dalla marea della civiltà.
Si prova un senso di compassione e di vergogna mettendo a confronto […] Buenos Aires e il villaggio dell’interno: nella prima le casette sono dipinte, l’esterno è sempre curato, adornato di fiori e di piccoli e graziosi arbusti; la mobilia è semplice ma completa […] e gli abitanti sempre attivi e in movimento […] Il villaggio autoctono è il rovescio indecoroso di questa medaglia: bambini sporchi e coperti di stracci vivono in mezzo ai cani; uomini sdraiati a terra nella più completa inerzia; sporcizia e povertà ovunque , un piccolo tavolo e bauli di cuoio come unica mobilia, per abitazioni delle baracche miserabili: tutto versa in un generale stato di barbarie e di incuria40.
39 Justo José de Urquiza y García (1801-1870) fu un generale e politico argentino. Ricoprì più
volte l’incarico di governatore della provincia di Entre Ríos e fu presidente della Confederazione Argentina tra il 1854 e il 1860.
23 1.3.1 La conquista del desierto
Alla campagna del deserto guidata da Rosas, l’immaginario storico argentino ne accosta una seconda, definita “La conquista del desierto” e condotta da Julio Argentino Roca. In realtà tra il 1820 e il 1884, furono promosse svariate campagne a sud di Buenos Aires, il cui intento, per quanto abbiano avuto esiti più o meno positivi, sembrava essere espressamente chiaro: lo sterminio dell’“altro”.
Los indios acudían con frecuencia a los fortines, para reclamar las reses, los víveres, el sueldo y los uniformes que se les proporcionaba, en virtud de pactos, siempre quejosos y amenazadores por considerar escasas las entregas. […] La generosidad del gobierno, por los demás, no impedía los malones41.
Il potente toki Kalfukurá, di cui si era parlato sopra, aveva formato un’associazione di tribù, che in seguito alla sua morte, avvenuta nel 1873, fu riorganizzata dal figlio Namuncurá. Avvertito da numerosi avventurieri e malviventi che agivano da spie, quest’ultimo venne a conoscenza del progetto del governo di avanzare la frontiera. Fu così che sul finire del 1875 dalla sua
toldería nelle Salinas Grandes concertò una serie di malones. Adolfo Alsina, in
quel momento ministro della guerra sotto il presidente Nicolas Avellaneda, progettò di scavare il cosiddetto “Zanja Nacional”, un fossato lungo la frontiera mirante a contenere i malones e proteggere più di 1.000 km tra Bahía Blanca e l’area a sud di Córdoba. Tale fossato non produsse però risultato alcuno. Alsina morì nel dicembre del 1877 e a succedergli fu il generale Julio Argentino Roca, convinto sostenitore di una strategia offensiva che arrestasse in maniera definitiva l’avanzata indigena. Questa strategia era già stata avviata nel 1876 da Nicolás Levalle, il quale aveva occupato la regione di Carhué e sconfitto il toki Namuncurá. Attenendosi alle direttive di Roca, continuò ad avanzare e sul finire del 1878 occupò l’area compresa tra Guaminí e Bahía Blanca; le truppe nazionali approdarono sulle sponde del fiume Colorado. Il 4 ottobre 1878 fu approvata la legge 947 che sosteneva la campagna contro quelli che Roca
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definì «barbari, selvaggi e banditi»42. La campagna era composta da due fasi principali: una prima fase inerente al triennio 1879-1881 e una seconda relativa agli anni 1882-1885. Nel corso della prima fase, Roca pianificò una strategia simile a quella di Rosas e, al comando di cinque divisioni, attaccò simultaneamente da San Rafael a Mendoza per giungere fino ai Fiumi Colorado e Negro43. Nell’aprile del 1979, davanti all’avanzata dell’esercito di Roca, i caciques della Pampa, fatta eccezione per Namunkurà, non mantennero le loro posizioni, ripiegarono verso le Ande o si arresero. Namunkurà, dal canto suo, tentò di far fronte all’esercito di Roca ma fu inevitabilmente sconfitto. Si rifugiò, tuttavia, dapprima a Chimpay e poi a Aluminé per organizzare la resistenza. Purtroppo però le truppe governative imposero l’ordine di occupare la provincia di Neuquén, in cui ebbero luogo gli scontri più sanguinosi. Nel frattempo Roca si premurò personalmente di informare il Congresso Nazionale in merito al bilancio finale della campagna: 14.172 indigeni erano stati uccisi o fatti prigionieri.
La seconda fase della conquista del deserto, invece, si focalizzò su azioni di eliminazione. Nel marzo 1884 Namunkurá fu finalmente piegato e costretto alla resa. Tuttavia, il culmine di tale campagna fu raggiunto nel 1885 con l’occupazione militare di Neuquén che ne decretò il definitivo controllo da parte del governo nazionale. Finalmente la barbarie era stata estirpata dal deserto argentino.
Sul finire XIX secolo dei Mapuche non restava che un massacro organizzato e irrazionale, la negazione dell’esistenza di un’intera etnia discriminata, torturata e costretta a pagare la propria origine al costo della vita.
Fu così che ebbe inizio la sopravvivenza della gente della terra.
42 Cit. in L. RAY, op. cit., p. 62. 43 J.C. ASTOLFI, op. cit., pp. 394-395.
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1.4 Storia e finzione ne El país del diablo
«Con este poema no tomarás el poder», dice «Con estos versos no harás la Revolución», dice «Ni con miles de versos harás la Revolución», dice. Se sienta a la mesa y escribe. Juan Gelman, Se sienta a la mesa y escribe
In un’intervista rilasciata a La mañana de Córdoba, un diario online della città, Perla Suez dichiara quanto segue: «Es que yo quería contar la historia de aquellos que habitaban estas tierras cuando llegaron nuestros antepasados. No relatar la historia oficial, esa que nos contaron durante tanto tiempo, sino la otra»44. In queste parole l’autrice racchiude la volontà, la necessità, il dovere di «desplazar la “historia oficial de los blancos” por una nueva hegemonía “desde la perspectiva marginal y alterna de los vencidos”»45.
George Duby nel saggio intitolato Scrivere Storia afferma che:
In francese, il vocabolo histoire, «storia», racchiude due significati apparentemente ben diversi. In primo luogo, è il risultato […] di un’impresa di ricerca – e quelli che ci si dedicavano […] avevano la pretesa eccessiva di proporsi come uomini di scienza sostenendo così che la storia, intesa in tal senso, era una scienza. In secondo luogo, il vocabolo histoire, soprattutto se al plurale, designa dei racconti di fantasia che narriamo a scopo di divertimento e molto vicini alla fiaba. […] In effetti, qualsiasi ricerca storica conduce necessariamente a un «discorso»46.
Il «discorso» di cui parla lo storico francese va inteso secondo i suoi intenti, siano questi legittimanti, sovversivi o puramente narrativi. In tutti e tre i casi però i vincoli tra storia e creazione letteraria sembrano essere inscindibili. La scrittura di un romanzo storico è preceduta da due tappe: la prima relativa alla raccolta delle informazioni e la seconda destinata alla rielaborazione di queste. Durante la fase iniziale di ricerca il compito dello scrittore sembra somigliare più a quello dello scienziato. Si va alla ricerca di indizi, di tracce che una volta raggruppate vengono sottoposte a un esame critico. Come in un’indagine
44http://www.edhasa.com.ar/nota.php?notaid=1343&t=La+novela+plantea+temas+muy+univer
sales+y+muy+actuales+tambi%C3%A9n
45 K. KOHUT, W. MACKENBACH (eds.), Literaturas centroamericanas hoy, Desde la
dolorosa cintura de América, Iberoamericana Vervuert, Madrid, 2005, p. 184.
46 Cit. in A. ASOR ROSA, La scrittura e la storia, Problemi di storiografia letteraria, La
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poliziesca, la testimonianza è asservita all’interrogazione, è intimata a dire la verità, a non occultare nulla, a dar voce a quelle parole che - per lungo, per troppo tempo - sono state silenziate. Queste due tappe hanno caratterizzato la gestazione de El país del diablo attraverso un lavoro di documentazione importante «que no está en la novela, pero que me tocó el corazón»47 caratterizzato dalla lettura di dizionari mapuche, testi sullo sciamanesimo e sui miti del popolo araucano.
1.4.1 Un romanzo ibrido
Rileggere la storia «riproponendola, attualizzandola agli occhi dei suoi lettori con il mezzo nuovo, originale della vicenda romanzata»48 è ciò che fece Walter Scott nel XIX secolo con il romanzo storico. «Scott descrisse i costumi e le abitudini più lontani, dei quali ben poco sapevano i suoi contemporanei. Prese nomi e date da ponderosi tomi storici e li trasformò in letteratura»49 scrive Giorgio Spina ne Il romanzo storico inglese.
Grazie al successo riscosso tra i lettori europei e sotto l’impulso del romanticismo letterario, questa nuova forma narrativa varca i propri confini e arriva in America Latina.
Purtroppo ad oggi, nonostante il moltiplicarsi degli studi, non esiste una precisa definizione di romanzo storico. Tuttavia, una delle definizioni più precise e accurate che è stata fornita a riguardo è quella proposta nel 1954 da Enrique Anderson Imbert50:
Llamamos ‘novelas históricas’ a las que cuentan una acción ocurrida en una época anterior a la del novelista. Esa acción, por imaginaria que sea, tiene que entrelazarse por los menos con un hecho histórico significativo. Los materiales tomados de la historia pueden ser modificados o no; pero aun en los casos en que permanecen verdaderos, al fundirse en una estructura novelesca cambian de valor y se ponen a cumplir una función
47https://www.pagina12.com.ar/diario/suplementos/espectaculos/4-35556-2015-05-18.html 48 G. SPINA, Il romanzo storico inglese (Sir Walter Scott), Fratelli Bozzi, Genova, 1971, p. 34. 49 Ivi, p. 41.
50 Enrique Anderson Imbert (Córdoba, 12 febbraio 1920 – Buenos Aires, 6 dicembre 2000) è
stato uno scrittore, critico letterario e professore universitario argentino. Deve la propria fama ai suoi racconti brevi, i cosiddetti microcuentos, in cui fonde fantasia e realismo magico.
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estética, no intelectual. Es decir, que los objetos históricos se trasmutan en objetos artísticos51.
In tale definizione ritroviamo gran parte delle caratteristiche contenute ne El
país del diablo. Appare pertanto doveroso e necessario un’analisi comparativa
tra le caratteristiche generali del romanzo storico e l’opera della Suez.
In primo luogo, Anderson Imbert definisce romanzo storico l’azione ambientata in un’epoca precedente a quella del proprio autore. Questo primo criterio è ispirato a quello che, un secolo prima, era stato fissato Walter Scott, il padre del romanzo storico. Mentre però quest’ultimo richiedeva un minimo di sessant’anni di distanza tra epoca della storia e quella del suo autore, Anderson Imbert e molti altri critici ritengono che l’aspetto fondamentale del romanzo storico sia che il suo autore «no haya vivido personalmente la época y los acontecimientos que evoca en la narración»52 senza che la sua data di nascita costituisca un riferimento assoluto. Secondo questo primo criterio, è dunque possibile definire El país del diablo un romanzo storico perché ambientato nell’Argentina della seconda metà del XIX secolo mentre la sua autrice è una scrittrice contemporanea ancora in vita.
In secondo luogo, Anderson Imbert parlava del fatto che un’azione, seppur immaginaria, dovesse «entralazarse» con un fatto storico significativo. Difatti,
El país del diablo intreccia la storia di Lum, e quindi una vicenda fittizia, a
quella dei cinque soldati che, pur non essendo dei personaggi realmente vissuti, sono il simbolo della campagna del deserto del generale Roca.
Il terzo punto fornito da Anderson Imbert, ovvero quello relativo alla materia storica, nonpuò essere pienamente indivuato nel romanzo della Suez poiché quest’ultimo non si fonda su fatti storici ufficiali e documentati ma è il riscatto di una realtà storica non documentata e a lungo silenziata. Tuttavia, pur non basandosi sulla storiografia ufficiale, El país del diablo è comunque una rilettura della storia che consente di impugnare la legittimità della versione ufficiale al fine di offrirne una molteplicità di interpretazioni che rifuggono
51 Cit. in R. LEFERE, La novela histórica: (re)definición, caracterización, tipología, Visor
Libros, Madrid, 2013, p. 21.
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dall’esistenza di una sola e unica verità. Ed è qui che accorre in soccorso la finzione. Infatti, secondo quanto affermato dalla scrittrice argentina a una delle mie domande rivoltale durante l’intervista «en lo personal me interesa siempre la ficción, es decir, prefiero hablar desde la ficción que es lo que conozco». Con questo romanzo, la scrittrice argentina cerca di decostruire l’immagine barbara che fino a quel momento era stata offerta dei Mapuche. «Emprender el desafío para desenterrar todo lo que taparon los que escriben la Historia, lo que durante mucho tiempo no se enseñó en la escuela» sono le parole con cui Perla Suez motiva la scelta di sostituire alla storia ufficiale dei bianchi la prospettiva marginale e altra dei vinti.
Non avere coscienza del passato significa non poter comprendere il presente e quindi esporsi al rischio di cui parla Julián Marías:
Uno de los mayores males que padecen algunos países es el desconocimiento de su propia realidad. Cuando un pueblo no sabe lo que es, deja de serlo, y se le puede substituir por cualquier embeleco, y eso es lo que han hecho muchos de nuestros gobernantes, políticos e historiadores. […] Se busca dar su lugar en nuestra historia a otros hombres olvidados o injustamente vilipendiados53.
Legittimazione di ciò che è autoctono, rifiuto dell’eredità storica già data e preconfezionata. Per tale ragione, la finzione può essere concepita alla stregua di una possibilità, un’opportunità di riscatto da una storia che ha taciuto la propria verità. Secondo quanto appena detto, appare chiaro quanto finzione e realtà siano inestricabilmente legate fra loro. «Buscar las ruinas de una historia desmantelada por la retórica y la mentira al individuo auténtico perdido detrás de los acontecimientos»54 scriveva Fernando Lansa.
La Storia - quella ufficiale, quella scritta dagli storici, quella che leggiamo nei libri di scuola - è per sua natura subordinata al rispetto di un tempo reale e lineare. Esige di essere immutabile e cerca di convincere che il tempo scorra per tutti allo stesso modo. Ecco la ragione per cui le date sembrano essere così importanti e trasmettere la sensazione che il tempo possa essere misurato in un unico modo.
Altra caratteristica che accomuna il romanzo storico a El país del diablo è la
53 Cit. in J.C. CHRISTENSEN, op. cit., p. 12.
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presenza di un paratesto che fornisce degli indizi utili ai fini del romanzo. Perla Suez sceglie “El país del diablo” come titolo del romanzo, espressione che il generale Julio Argentino Roca utilizzava per riferirsi al deserto patagonico; e ricorre a due epigrafi facendo seguire, all’interno della stessa pagina, le parole di Domingo Faustino Sarmiento (No sean bárbaros, alambren) alla testimonianza di una bambina mapuche (No estén tristes, no crean que voy a
morir, les digo ésto para que no se sientan tristes y sepan que yo seré machi).
Tuttavia, un tratto che determina e rivela la non piena appartenenza El país del
diablo al romanzo storico, è l’avvertenza che la Suez rivolge ai suoi lettori, un
avviso in cui afferma che «esta historia es una ficción, y no alude a ninguna realidad en particular. Cualquier parecido con ésta es parte del azar». Questo è il patto che l’autrice stabilisce col lettore, un patto che potrebbe però essere falso, giocoso.
Il tempo de El país del diablo non è lineare. È un tempo discontinuo, che scivola tra le dita dei personaggi, che si abbandona a continui salti temporali e che fluisce senza che se ne riesca a comprendere la direzione. «Yo quería que el desierto mandara como en Moby Dick manda en el océano. El desierto vacila todo el tiempo a pesar de su apariencia poderosa, no tiene certezas» rivela Perla Suez. Nelle pagine del suo romanzo la finzione letteraria fa sì che spetti al deserto la volontà di intrecciare o meno i fili del tempo. Parafrasando le parole di Deus, uno dei personaggi principali de El país del diablo, si scopre che non è stata la guerra a segnarlo ma il deserto; è stato il deserto a condurlo alla follia; è stato ancora una volta il deserto a far sì che lui perdesse il senso del tempo e della distanza. Ed è sempre il deserto a mostrare al lettore una realtà a cui prima non poteva accedere. Il deserto svelatoci in queste pagine è un deserto in fiamme, è un luogo di ingiustizia, violenza e oppressione, una terra che è stata negativamente additata dal generale Julio Argentino Roca come “el país del diablo” poiché popolata da quei barbari che egli pretendeva sterminare. «Ese dolor yo lo tenía que contar» confessa la scrittrice argentina a conclusione della mia intervista.
Nel corso di questo paragrafo è stato ribadito il fatto che, nonostante presenti parecchi tratti del romanzo storico, El país del diablo non possa essere ascritto
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a tal genere. Allo stesso modo, è importante sottolineare che questo romanzo non possa nemmeno essere ritenuto un romanzo indigenista in quanto, tra i tanti aspetti, manca del presupposto fondamentale, ovvero il fatto di essere l’espressione di un’autrice india. Tuttavia, pur essendo opera di una scrittrice non-india, Perla Suez è originaria della città di Córdoba, ritengo che condivida i cinque principi che Sabine Harmuth individua nel saggio La novela
indigenista hispanoamericana:
1) Hacer conocer al lector una realidad que antes no le era accesible: la
revelación de un mundo.
2) Criticar el estado en que se encuentra ese mundo: la denuncia.
3) Contribuir con medios literarios a los cambios necesarios de la realidad de ese mundo: la reivindicación.
4) Conservar literariamente el valor cultural de ese mundo que se encuentra en vía de descomposición: la memorización.
5) Apropriarse de ese mundo en la obra con una perspectiva artística que refleja ya una ficción literaria55.
A completamento di un lavoro di lettura, comprensione e traduzione de El país
del diablo, reputo di poter sostenere che questo romanzo sia “la revelación de
un mundo” in quanto offre la possibilità di conoscere attraverso la letteratura una parte dell’Argentina; “la denuncia” di una voce fino a quel momento oltraggiata e silenziata; un atto di “reivindicación” di un popolo, i Mapuche in questo caso, che da sempre è stato marchiato di barbarie; “la memorización”, ovvero il tentativo di custodire e preservare quelle culture minacciate, tentativo a cui Perla Suez dà vita mediante la descrizione della cosmologia, dei miti e delle pratiche religiose dei Mapuche; “una perspectiva artística” come espressione della libertà immaginaria che la finzione conferisce alla scrittrice, quella libertà che le concede l’opportunità di appropriarsi della realtà che si vuole rivelare, denunciare e preservare.
Lungi dall’essere un romanzo indigenista, risulta però evidente quanto El país
del diablo non sia nemmeno “la historia de la siempre problemática
apropriación de la realidad india por los blancos”56 ma piuttosto un’opera di finzione in cui una scrittrice non-india, non mapuche ma bianca, o addirittira
55 Cit. in H.-O. DILL, C. GRÜNDLER, I. GUNIA, K. MEYER-MINNEMANN (eds.),
Apropiaciones de realidad en la novela hispanoamericana de los siglos XIX y XX,
Iberoamericana Vervuert, Madrid, 1994, p. 186.
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winka come la chiamerebbero i Mapuche, ha cercato di addentrarsi in una
cultura, di raccontare una storia altra, la storia di un popolo e del diritto alla propria terra, alla propria lingua, alla propria vita, quella stessa identità che la Storia ufficiale ha cercato di distruggere e negare.
Negando il linguaggio, si nega la cultura, si nega l’identità, si arriva a negare l’essere umano stesso, in qualsiasi possibile accezione. Parola come contrario di silenzio dunque, parola come sinonimo di identità.
1.4.2 Analisi narratologica
Per avere una narrazione è sufficiente che ci sia un narratore, una storia e qualcuno a cui raccontarla57.
Strumento a cui si ricorre per garantire la compartecipazione dell’esperienza dei singoli con una più ampia comunità, la narrazione assume diverse forme e modalità d’espressione. La forma narrativa oggi dominante è indubbiamente quella del romanzo.
El país del diablo è il romanzo che ho scelto di tradurre per il mio lavoro di
tesi. Avendone già esaminato le informazioni paratestuali nel paragrafo precedente, ritengo opportuno offrirne qui un’analisi narratologica dettagliata.
L’autore di un racconto può disporre il proprio materiale narrativo, la
storia, secondo diversi ordini o sequenze. Data quindi un’ossatura di base
del racconto, costituita dagli eventi disposti nella loro sequenza naturale di tipo logico e cronologico, ogni narratore è poi libero di ridisporre questa catena di eventi e descrizioni secondo le proprie esigenze retoriche ed estetiche58.
Il testo presenta tre grandi sequenze, Sofferenza, Morte e Resurrezione, che rappresentano rispettivamente le tre tappe del viaggio iniziatico che le giovani donne mapuche devono raggiungere e superare al fine di diventare delle machi. All’interno di questi macrocapitoli, l’ordine logico e cronologico assunto dalle vicende viene stravolto dall’inserimento di pagine che mostrano pensieri relativi al presente o ricordi legati al passato. Perla Suez decide quindi di
57 A. BERNARDELLI, La narrazione, Editori Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 7. 58 Ivi, p. 24.