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Tra (r)esistenza e autonegazione: i Mapuche ogg

Molto tempo fa un lonko stava combattendo per la libertà, per preservare la libertà del suo popolo. A causa di un tradimento, molti dei suoi guerrieri furono massacrati, ed egli dichiarò che per ogni Mapuche sconfitto ne sarebbero sorti altri dieci. Egli era il lonko Leftraru (Lautaro). Per questa ragione gridiamo Marici Weu: perché per ogni persona sfrattata, ce ne saranno altre dieci che verranno a riprendersi quella terra. Perché per ogni persona oppressa, altri dieci di noi risorgeranno100.

Marici Weu (vinceremo dieci volte ancora) è l’urlo di guerra del popolo

mapuche. Mentre però le battaglie argentine compaiano nei libri di storia ufficiali, le guerre mapuche vengono nascoste, combattute tra il disinteresse generale e nazionale o descritte con toni più morbidi.

Certamente, questo non è un aspetto su cui soprassedere, se volgiamo il pensiero all’enormità di violazioni dei diritti dei Mapuche, primo fra tutti il diritto alla terra, con cui queste infrazioni vengono commesse. Dal canto loro però, i Mapuche non vogliono essere dipinti come vittime ma piuttosto come artefici del proprio destino.

Sul finire del XIX secolo la conquista del deserto da parte delle truppe del generale Roca produsse delle conseguenze catastrofiche per i Mapuche. Gran parte del loro bestiame venne rubato per poi essere ripartito fra i membri dell’esercito o venduto all’asta. Solo pochi decenni prima, la Pampa e la Patagonia erano abitate esclusivamente da comunità sparse di indigeni, le cosiddette tolderías, gruppi familiari estesi privi di rigide strutture gerarchiche che ritroviamo tra le pagine de El país del diablo. Il territorio assoggettato fu espropriato in seguito alla promulgazione di una legge secondo cui la terra non occupata dai Mapuche diventava di proprietà dello stato. Le poche comunità sopravvissute vennero obbligate a migrare verso aree infeconde e inospitali, aree che chiaramente non erano fonte d’interesse per il governo argentino.

Secondo quanto riportato dalle cronache dell’epoca, tutti i settori della società concordavano sul fatto che fosse necessario “ridurre” i Mapuche allo scopo di spartirsi la loro terra. Fu così che le comunità dovettero cavarsela in uno spazio

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ristretto, in condizioni di estrema povertà. Purtroppo quello delle reducciones era un modello destinato a protrarsi dalla fine del XIX secolo fino a oggi. In quegli stessi anni, alle mire espansionistiche delle autorità nazionali si univano quelle dei capitalisti inglesi. Questi ultimi crearono diverse società in Argentina al fine di gestire la rete ferroviaria e sfruttare il territorio. All’indomani della Conquista, la Argentine Southern Rail Company acquisì 900.000 ettari di terra nell’area del Chubut (la stessa terra che alla fine del XX secolo verrà acquistata dalla multinazionale Benetton, come vedremo nel paragrafo seguente) in virtù della legge Avellaneda, la quale sanciva la parcellizzazione del terreno coltivabile con lo scopo di caldeggiare lo stanziamento di coloni europei in Patagonia101. Occorreva popolare queste terre ed erano gli immigrati coloro ai quali spettava farlo.

Quanto appena affermato trova conferma nelle parole della stessa Perla Suez quando confessa che i suoi «abuelos maternos ucranianos vinieron gracias a que se abrieron las corrientes inmigratorias»102. Ciononostante, continua la scrittrice, «no puedo como argentina dejar de repudiar ese exterminio y preguntarme por qué no integraron a los indios»103.

Caso emblematico è quello di Esquel. Appartenente alla provincia di Chubut, Esquel è una cittadina di 28.000 abitanti, i quali sono in parte di origine mapuche-tehuelche. Tuttavia, soltanto un ridotto numero di questi ricopre cariche pubbliche amministrative mentre i cittadini più autorevoli tendono ad avere cognomi di origine europea.

I Mapuche urbani sono quelli che apparentemente non esistono o, per meglio dire, esistono senza esserci. Questi infatti mancano della consapevolezza della propria identità, minata dall’educazione e dalla religione imposta dal governo. Purtroppo molti Mapuche non vogliono definirsi tali e rinnegano perciò le proprie origini, sebbene risulti alquanto doloroso farlo, perché essere un “negro” in Argentina significa appartenere ai cittadini di terza classe, vuol dire essere considerati inferiori, subalterni e, ciò che è peggio, ironicamente

101 Cfr. in ivi, p. 71.

102https://www.pagina12.com.ar/diario/suplementos/espectaculos/4-35556-2015-05-18.html 103 Ibidem.

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stranieri pur nella propria terra. La storia del popolo mapuche è la storia secolare di un popolo indomito che ha lottato, ha resistito, è stato piegato ma si è rialzato per difendere i propri diritti: il diritto alla propria terra, il diritto alla propria lingua, il diritto alla propria vita.

Il 12 ottobre 1992, giorno della commemorazione del cinquecentesimo anniversario della scoperta dell’America e data più luttuosa per i nativi americani, in un numero cospicuo di Mapuche inizia a germogliare una sorta di forza che proviene da dentro e cerca di farsi strada, un sentimento che nasce dal sentirsi parte di una causa comune. È in maniera così spontanea che nella città di Esquel si dà vita al Comitato 11 ottobre, nome scelto per onorare la data dell’ultimo giorno di libertà in terra americana. Seppur sorto inizialmente come puro atto commemorativo, il Comitato 11 ottobre diviene ben presto uno spazio teso a denunciare i soprusi e le ingiustizie subite dall’intera comunità mapuche. Uno dei fondatori del movimento di Esquel racconta che:

Montammo un palco in piazza, la gente vi saliva per spiegare le ragioni per cui aveva deciso di unirsi a noi, per dire che cosa stava succedendo nelle loro comunità sparse intorno a Esquel. Non solo: i presenti si impegnarono a dare il loro appoggio e a cercare un modo per organizzare la lotta104.

Sfortunatamente però a questi episodi di rivendicazione della propria identità mapuche se ne accostano altri di autonegazione, fatti riconducibili al dilagante razzismo che deriva dall’irrazionale sentimento di superiorità da parte di coloro che hanno origine europee. Purtroppo, quest’infondata discriminazione nei confronti dei Mapuche si consuma, in larga parte, nelle grandi città.

Leslie Ray, scrittore che ho più volte citato in questa sede, riporta nel suo libro sulla gente della terra l’incontro avuto con María, una giovane donna che si trovava in città per accompagnare in ospedale la sorella. Dice lo stesso Ray:

Le ho accennato al mio libro, e le ho chiesto come vivesse il fatto di essere una Mapuche. «Oh, ma io non sono mapuche, sono argentina!» ha risposto. Naturalmente, lei è argentina. E con più diritto di definirsi tale di molti argentini che preferiscono esibire le loro radici europee come un’onorificenza. Lei non ha radici europee ma, sia per scarsa conoscenza delle sue vere origini etniche sia per paura del marchio sociale legato

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all’essere indigeni in Argentina, preferisce essere considerata argentina105.

Secondo quanto abbiamo visto nel corso di questo lavoro, un tale sentimento di razzismo era già ben radicato ai tempi di Roca ma, al giorno d’oggi, svela gli altri suoi molteplici volti.

Brutale e disumano sono i soli aggettivi attribuibili al modo in cui è stata trattata la cilena Juana Calfunao, lonko della comunità Paillaleff. Dopo essere stata arrestata solo perché indossava il vestito tradizionale dei Mapuche, è stata trascinata via per i capelli e ammanettata. Una volta condotta in cella è stata spogliata, umiliata e lasciata nuda. Hanno più volte tentato di strangolarla con le sue trecce. A causa dei colpi ricevuti Juana ha abortito. Come dimostra quest’orribile episodio, le donne mapuche sono doppiamente vittime, del razzismo prima e del sessismo poi.

Altro spregevole volto mostrato dal razzismo è quello riguardante la lingua. All’indomani della conquista, il popolo mapuche si ritrovò ad aver perso non soltanto la propria indipendenza territoriale ma anche la propria autonomia linguistica. Oggi, circa la metà dei Mapuche cileni vivono in una condizione di diglossia, ovvero parlano mapudungun in contesti domestici ma ricorrono allo spagnolo nella vita pubblica, in Argentina questa percentuale è decisamente inferiore. José Bengoa, storico e storiografo del popolo mapuche, mette a paragone il mapudungun con il latino, suggerendo che in Argentina il

mapudungun sia diventato quello che è la messa in latino per i cattolici.

Continua Bengoa:

La lingua indigena è sopravvissuta grazie alla sua connessione con la cerimonia religiosa del ñguillatún, in cui se non capisci il mapudungun sei escluso dalla comunità rituale. C’è un nesso fra la religione e la lingua: il ñguillatún è il luogo in cui la gente parla la lingua “perfetta”, quella tradizionale, mentre a casa, nel linguaggio comune, la mescola con numerose parole spagnole106.

Purtroppo però nella società contemporanea, avvolta da un clima di pregiudizio e discriminazione, parlare in pubblico mapudungun può essere allora considerata una forma di resistenza come quella portata avanti con fierezza a

105 Ivi, pp. 180-181. 106 Cit. in ivi, p. 189.

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San Carlos de Bariloche107. Qui si tengono dei corsi di lingua e cultura mapuche per i giovani dei quartieri più degradati della città. Un dato confortante che salta agli occhi è senza dubbio legato alla conoscenza da parte dei bambini di parecchie parole e frasi in mapudungun che ammettono di aver sentito pronunciare spesso dai nonni ma anche dai loro genitori, i quali però non avevano mai fatto menzione al fatto che fossero parole appartenenti alla loro lingua madre.

A essersi occupato di casi di razzismo linguistico è anche un altro storico, José Ancán Jara, il quale prende in esame la triste situazione dei Mapuche urbani asserendo che:

La più drammatica strategia “protettiva” messa in atto dai genitori dei Mapuche nati in città è l’abbandono della lingua e degli aspetti più evidenti delle loro usanze. La giustificazione si è sentita così tante volte dal diventare un luogo comune: “Non ho insegnato ai miei figli a parlare mapuche perché non vengano presi in giro come è successo a me”. Questa strategia è rinforzata dal desiderio di salire la scala sociale, il desiderio dei migranti di far sì che i figli ricevano un’educazione regolare, “così staranno meglio di noi”108.

Quanto appena riportato induce a riflettere su quanto possa essere deplorevole sentirsi costretti a mentire, a rinnegare le proprie origini per tentare di avere e concedere ai propri cari una vita migliore, per cercare di esistere e resistere all’interno una società che nega tutto ciò che è diverso, tutto ciò che altro da sé. Negli ultimi anni l’attenzione nei confronti della gente della terra ha superato i confini nazionali giungendo anche nel nostro Paese, un’attenzione però suscitata da ragioni diametralmente opposte ma rivelatrici al contempo delle due condizioni vissute dai Mapuche: (r)esistenza e autonegazione.

107 Città della provincia del Río Negro, nella Patagonia nord-occidentale. 108 Cit. in L. Ray, op. cit., p. 190.

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1.8 Interesse culturale e interessi commerciali: da Claudio

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