2.3. L’IDEA DI SISTEMA
2.3.1. L’INTERPRETAZIONE HEIDEGGERIANA DELL’ORIGINE DELL’IDEA DI SISTEMA IN KANT
Volendo ora seguire Heidegger nella sua lettura di Kant (per quello che interessa a noi in questa ricerca) mi sembra utile compiere un salto cronologico, seguendo più che lo
72 M. Marassi, Kant e il sistema della ragion pura, op. cit. pp. 335-‐‑345.
73 «La philosophie n’adopte la ‘méthode du système’ que parce que le système est fondamentalement
le mode d’être-‐‑ensemble de tous les étants». A. Renaut, Systéme et historie de l’être, op. cit. p. 249. Un allievo di Heidegger, Hienrich Rombach, prende il sistema come cifra centrale del pensiero moderno, e lo determina in questo modo: «Sie [die Neuzeit] sieht die Dinge unter dem Grundbild des Systems, das nicht mehr einzelne uns selbstständige Substanzen in sich enthält, sondern nur noch unselbstände Momente, die völlig in die funktionalen Beziehungen, in denen sie stehen, aufgehen. […]» H. Rombach, Die Gegenwart der Philosophie. Die Grundprobleme der abendländischen Philosophie und der gegenwärtige Stand des philosophischen Fragens, Alber, Freiburg i.B. 1988, p. 95. Sul “metodo del sistema”, vedi G. W. F. Hegel, Differenz der Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie, in Beziehung auf Reinhold’s Beyträge zur leichtern Uebesicht des Zustandes der Philosophie zu Anfang des neunzehnten Jahrhunderts, Seidler, Jena 1801; tr. it. a cura di R. Bodei, Differenza fra il sistema filosofico
sviluppo temporale del confronto heideggeriano, quello che mi appare lo sviluppo tematico (che non sempre, ovviamente, segue pedissequamente il progredire temporale delle lezioni e dei testi: in ogni autore vi sono anticipazioni, necessità di ritornare sui propri passi, ripetizioni successive dello stesso pensiero). Il percorso che qui stiamo impostando riguarda la posizione di Heidegger rispetto all’istanza del sistema, e dunque ora specificatamente la ricostruzione dell’ascesa della necessità heideggeriana di confrontarsi con tale tema e con gli autori “sistematici” per eccellenza, l’idealismo tedesco (ed in particolare Schelling). Ho ipotizzato che tale istanza sorga dall’introduzione della metaontologia accanto all’ontologia fondamentale, della questione della totalità degli enti accanto alla questione dell’essenza dell’essere, come due aspetti complementari della filosofia, necessari l’uno all’altro. Nel contesto di tale domandare, Heidegger giunge a studiare Kant, come l’unico autore che abbia tentato di rifondare la filosofia e la metafisica a partire da una nuova base, a partire cioè dal riconoscimento ineludibile della finitezza dell’uomo74. Volendo procedere cronologicamente, bisognerebbe analizzare il corso del
1927/28 pubblicato nel volume 25 della Gesamtausgabe con il titolo Phänomenologische Interpretation von Kants Kritik der reinen Vernunft75, oppure l’appena successivo saggio
pubblicato nel 1929 e dedicato a tale interpretazione (Kant und das Problem der Metaphysik, noto anche come “Kantbuch”76), presentata come parte della seconda parte di Essere e tempo,
ossia quella dedicata alla “distruzione” del concetto tradizionale del tempo. Tuttavia, nella disamina del problema della totalità dell’ente e nel collegamento di tale questione con quella del sistema, ci sarà più utile iniziare dal corso che Heidegger tiene nel 1935, proprio
74 Il collegamento tra la metaontologia e lo studio di Kant è stato fatto in modo differente da quello
qui presentato, ma molto dettagliatamente, da Frank Schalow, che sviluppa tale necessità di un domandare rivolto alla “totalità degli enti” verso la ripresa heideggeriana dell’importanza dell’“ethos”. Cfr. F. Schalow, Departures. At the crossroad between Heidegger and Kant, De Gruyter, Berlin 2013, pp. 100ss.
75 GA25, Phänomenologische Interpretation von Kants Kritik der reinen Vernunft, op. cit.
76 GA3, Kant und das Problem der Metaphysik, Hrsg. F.-‐‑W. Von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M.
1991; tr. it. di M. E. Reina, riveduta da V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-‐‑Bari 2000.
l’anno precedente il corso su Schelling, pubblicato da Heidegger stesso nel 1962 e ora nel volume 41 della Gestamtausgabe col titolo Die Frage nach dem Ding. Zu Kants Lehre von den transzendentalen Grundsätzen77. Infatti in tale corso Heidegger prende in considerazione il
problema della “cosa”, che corrisponde in altre parole al problema dell’ente, cercando attraverso la Critica della ragion pura di Kant di giungere alla definizione della “cosa” (ossia a definire appunto cos’è un ente). Torneremo poi successivamente sulle riflessioni “kantiane” della fine degli anni venti (ed in particolare a quelle del Kantbuch, espresse in una forma più articolata e strutturata di quella dei corsi) relative ad un tentativo tutto heideggeriano di fondazione della metafisica, effettuato tuttavia mediante una terminologia prettamente kantiana, ossia attraverso una interpretazione molto personale e criticabile, e poco “filologica”, della prima critica del maestro di Königsberg. In tale testo heideggeriano, infatti, è a mio parere contenuta una analisi, forse non ancora del tutto esplicita o consapevole, del nucleo problematico del concetto moderno di “sistema”.
La domanda centrale del corso in questione è “che cos’è una cosa?”: «cerchiamo quello che fa della cosa, in quanto cosa, e non in quanto pietra o legno, una cosa; cerchiamo la condizione della cosa, ciò che rende cosa la cosa»78. La domanda esplicitata in tal modo
lascia trasparire che, nonostante Heidegger voglia qui esprimersi con una terminologia più “filosoficamente neutra”, meno “tecnica” e forse più “quotidiana”, si stia ancora domandando dell’ente, dell’ente in quanto tale, e del suo essere. Questo linguaggio è forse preferito a quello classico dell’ontologia, forse per segnare un distacco rispetto al contenuto abituale di tale ricerca, e per sottolineare un aspetto della domanda suddetta che viene dai filosofi spesso e volentieri tralasciato: «Non c’è mai una cosa in genere, ma solamente cose
77 GA41, Die Frage nach dem Ding. Zu Kants Lehre von transzendentalen Grundsätzen, op. cit.
78 La citazione completa sarebbe: «Così interrogandoci, cerchiamo quello che fa della cosa, in quanto
cosa, e non in quanto pietra o legno, una cosa; cerchiamo la condizione della cosa, ciò che rende cosa la cosa. Noi non ci interroghiamo su una cosa di una qualche specie, ma sull’esser-‐‑cosa di una cosa. Questo esser-‐‑cosa che condiziona la cosa ad esser tale, non può a sua volta essere una cosa, cioè un condizionato. Con la domanda «che è una cosa?» noi ci interroghiamo sull’incondizionato. […] …oltre ogni cosa sino all’incondizionato, là dove non ci sono più cose che offrano uno stabile fondamento». GA41, 8; tr. it. p. 15.
singole, e le cose singole inoltre sono sempre queste cose. Ogni cosa è sempre questa e non altra»79. Da questa osservazione ne deriva che l’essere dell’ente non può più venir
considerato come il generale, il comune, bensì significa che esso deve sapersi spingere tanto nel particolare fino a fondare anche la singolarità della cosa. Non viene quindi rifiutata la domanda sull’essere in nome della singolarità, ma all’opposto, «ora viene in luce, che il problema della costituzione ontologica delle cose, del loro essere dei singoli e dei «questi», dipende completamente dal problema dell’essere»80. Tale ricerca viene descritta come
peculiare della Critica della ragion pura di Kant (ciò avviene in particolare nel Kantbuch, ma è sottointeso anche a questo corso, svolto e presentato con un metodo di analisi più “classico”). Affermando ciò, Heidegger sottintende ovviamente, come si ricordava anche precedentemente, che la prima critica non sia un opera di gnoseologia – come spesso si è pensato e tutt’ora si pensa, bensì uno dei ultimi e più alti tentativi di rifondare la metafisica81. In base a questa assunzione, egli può associare la sua ricerca orientata all’essere
con quella della prima critica kantiana, il cui tema principale è notoriamente l’“a priori”, e la sua fondazione “copernicana” nella soggettività:
79 GA41, 14; tr. it. p. 20.
80 GA41, 23; tr. it. p. 27-‐‑28. Su questo tema, è particolarmente interessante lo studio che considera
trasversalmente l’opera di Heidegger effettuato da J.-‐‑F. Courtine, Res singularis, in «Rivista di Filosofia Neo-‐‑Scolastica», 1-‐‑2 (2015), pp. 255-‐‑273.
81 È interessante, dal punto di vista storiografico, notare che all’epoca delle lezioni heideggeriane,
non vi era solamente l’interpretazione neokantiana dei testi dell’autore di Königsberg, bensì anche altri interpreti, altrettanto affermati e a volte in parte vicini allo stesso mondo neokantiano, che già danno una interpretazione metafisica dell’opera kantiana; è curioso che molte di tali interpretazioni derivino dagli stessi autori che Heidegger cita o considera nello studio del pensiero schellinghiano. Essi sono, ad esempio, R. Kroner, H. Heimsoeth, N. Hartmann e H. Knittermeyer. Cfr. P. Colonnello, Heidegger interprete di Kant, Studio Editoriale di Cultura, Genova 1981, p. 118. Le opere degli autori citati sono: R. Kroner, Von Kant bis Hegel, op. cit.; H. Heimsoeth, Die metaphysischen Motive in der Ausbildung des kritischen Idealismus, in «Kant-‐‑Studien», XXIX (1924), pp. 121ss.; N. Hartmann, Diesseits von Idealismus und Realismus, in «Kant-‐‑Studien», XXIX (1924), pp. 160ss.; H. Knittermeyer, Transzendentalphilosophie und Theologie, in «Christliche Welt», (1924).
L’a priori è il nome dell’essenza delle cose. Come viene concepito l’esser-‐‑cosa della cosa e come in generale viene inteso l’essere dell’ente, così anche viene interpretato l’a priori e la sua prioritas. Sappiamo che per la filosofia moderna nell’ordine gerarchico delle verità e dei principi è primo il principio dell’Io, cioè quello che nel puro pensiero dell’Io è pensato come soggetto in senso eminente. Ne consegue che tutto ciò che è pensato nel puro pensiero del soggetto vale come a priori. A priori è ciò che già è nel soggetto, nell’animo. A priori è ciò che appartiene alla soggettività del soggetto82.
La filosofia kantiana può essere detta “trascendentale”, come in parte anche quella heideggeriana, perché essa tratta di ciò che trascende l’ente come il suo correlato, che non è né il soggetto concreto, né Dio, ma corrisponde per Kant all’appercezione trascendentale, all’“Io penso”, per Heidegger all’essere, i quali entrambi sono la condizione di possibilità della cosa/ente83.
Se questa interpretazione della Critica della ragion pura è perlomeno plausibile, dobbiamo allora sostenere anche che in essa ciò che viene chiamato conoscenza non è solamente la conoscenza scientifica, bensì è l’esperienza in generale (la conclusione della critica sarà, come noto, una differenziazione rispetto al valore dei vari tipi di “conoscenza”)84. Lo
specifico dell’opera kantiana è quello di prevedere, nell’analisi della struttura della realtà, un ruolo molto importante, fondamentale, alla soggettività ed alle sue strutture:
82 GA41, 170; tr. it. p. 147.
83 Il concetto di “trascendentale” è molto ampio, e soprattutto nella Kritik der reinen Vernunft è
ampiamente polivoco, per cui la significazione heideggeriana risulta al lettore senza dubbio semplificata. Sul tema, cfr. I. Mancini, Il trascendentale come fondamento dell’atto metafisico, in «Rivista di Filosofia neoscolastica», (1955), pp. 332-‐‑355; J. B. Lotz, Die transzendentale Methode in Kants Kritik der reinen Vernunft und in der Scholastik, in Kant und die Scholastik Heute, Pullach, München 1955, pp. 35-‐‑108; Id., Transzendentale Erfahrung, Freiburg-‐‑Basel-‐‑Wien 1978, tr. it. M. Marassi, Esperienza trascendentale, Vita e Pensiero, Milano 1993; M. Marassi, Metafisica e metodo trascendentale. Johannes B. Lotz e la struttura dell’esperienza, Vita e Pensiero, Milano 2004. Per una critica all’impostazione trascendentale del pensiero, propria in qualche modo anche di Heidegger, cfr. A. Rigobello, I limiti del trascendentale in Kant, Silva, Milano 1963; Id. (ed.), Le avventure del trascendentale, Rosenberg & Sellier, Milano 2001.
L’esperienza non sorge «empiricamente» dalle percezioni, ma è resa metafisicamente possibile da un modo nuovo di rappresentare, il quale mediante particolari concetti […] anticipa il dato. […] Oggetto, nel rigoroso senso kantiano, è quindi soltanto quello che viene rappresentato in modo tale che il dato viene determinato in modo necessario ed universalmente valido. Questo rappresentare è la vera e propria conoscenza umana. Kant la definisce esperienza85.
Nell’esperienza, o meglio, affinché vi sia esperienza, per Kant è necessario che vi sia una anticipazione del dato mediante la rappresentazione. Ovviamente è una anticipazione formale, che dunque dice della determinazione e dell’universalità del dato, non della sua singolarità. In tale anticipazione ha un ruolo fondamentale l’intelletto, il quale svolge un ruolo unificante, fornendo una unità che sta alla base poi di ogni rapporto di predicazione e quindi di connessione tra il soggetto e il predicato. Queste unità anticipanti sono i “concetti”: essi però – e questo è lo specifico di Kant e del pensiero trascendentale – non sono ricavati dagli oggetti dati precedentemente nell’esperienza, cioè non sono desunti dalla percezione degli oggetti singoli, ma sono applicati dall’intelletto ai dati sensibili. «Trovandosi soltanto nell’essenza dell’intelletto sono definiti concetti intellettivi puri: categorie»86. Heidegger collega questa dottrina delle categorie alla dottrina omonima
presente nel pensiero greco, e al tema centrale della sua ricerca: «…ciò che è detto di ogni cosa in quanto cosa, il «detto sopra la cosa», in cui si determina l’essere della cosa nella sua generalità, i Greci lo designarono col nome di κατηγορίία (κατα-‐‑ἀγορεύύειν). […] Nelle categorie vengono dette le più generali determinazioni dell’essere di un ente»87. L’intelletto
85 GA41, 142; tr. it. 124.
86 Cfr. GA41, 190; tr. it. p. 163-‐‑164.
87 GA41, 63; tr. it. p. 59-‐‑60. Anche l’opera dell’intelletto viene collegata da Heidegger ad un termine
fondamentale del pensiero greco: «La connessione si attua sempre componendo rappresentazioni nella prospettiva di una possibile forma di unità, la quale dà la sua impronta all’insieme. In questa definizione del giudizio ancora traspare il significato originario di λόόγος: raccogliere, raccolta [Sammlung]». GA41, 190; tr. it. p. 163-‐‑164.
entra dunque in modo importante a costituire la nostra esperienza, la nostra conoscenza, e vi entra come «facoltà delle regole» e come «fonte» di esse, in quanto l’attività propria dell’intelletto puro è il pensare, ossia il rappresentare, il porsi innanzi qualcosa fornendole unità e stabilità88.
Posto ciò, Heidegger può affermare:
la critica conserva il «carattere matematico» fondamentale della metafisica moderna, consistente nel determinare in anticipo l’essere dell’ente muovendo da principi fondamentali. […] Ora, è nell’essenza di tali principi che essi si presentino in una connessione fondata su una interna unità. Kant definisce tale unità, conforme ai principi, sistema89.
Sono ora due le osservazioni importanti che possiamo fare: la prima è che troviamo qui nuovamente il collegamento tra il carattere “matematico” della ragione moderna ed il suo carattere “sistematico”, come era emerso anche dall’analisi del corso su Schelling dell’anno seguente. Esso ha una origine più antica della scienza moderna stessa, al punto che quest’ultima è il risultato di un certo modo di intendere l’ente che ha origini nel pensiero greco; inoltre la sua origine è “extramatematica”, ossia non riguarda immediatamente il carattere numerico e algebrico della considerazione dell’ente, ma – come spesso accade nelle interpretazioni heideggeriane – esso ha un valore innanzitutto esistenziale e/o
88 «L’intelletto puro è «non solo la facoltà delle regole», ma persino la fonte di queste. […] Affinché
ciò che viene incontro e si mostra, e che in generale appare stando-‐‑di-‐‑contro quale oggetto [Gegenstehendes], possa venire davanti a noi, deve sin dall’inizio avere la possibilità di conseguire in qualche modo uno stato [Stehen], una stabilità [Ständigkeit]. Ma ciò-‐‑che-‐‑sta-‐‑in-‐‑sé, che non si disperde, è in sé raccolto, e cioè portato ad unità, ed in questa unità presente e [così] stabile. La stabilità è questo esser-‐‑presente [An-‐‑wesen] che muove da sé e che è in sé unito. Questa presenza [Anwesenheit] è insieme resa possibile dall’intelletto puro, la cui attività è il pensare. E pensare dice: “io penso”, io mi pongo innanzi, mi rappresento qualcosa in generale, nella sua unità e contestualità». GA41, 191-‐‑ 192; tr. it. pp. 164-‐‑165.
esistentivo90. In secondo luogo da tale affermazione possiamo finalmente evincere un
collegamento esplicito con la questione del sistema, a partire dalla domanda legata all’ente e alla totalità di esso (per quanto Heidegger domandi in questo testo della “cosa”, sappiamo bene anche per ammissione esplicita che la domanda specifica troverà poi compimento sempre nella posizione della domanda sull’essere). Il riferimento al sistema, inteso come “sistema dei principi”, ossia riferito a quell’ambito dell’a priori che è la facoltà dell’intelletto, non è un riferimento sporadico e accidentale per Heidegger; esso rappresenta piuttosto il compito essenziale della Critica della ragion pura: «L’esposizione del sistema dei principi rappresenta la presa di possesso del saldo territorio della possibile verità della conoscenza. È il passo decisivo nella realizzazione dell’intero compito della critica della ragion pura. Questo sistema dei principi è il risultato di una speciale scomposizione (analisi) dell’esperienza nei suoi momenti essenziali»91.
Se Heidegger pensasse che per Kant l’esperienza possa essere fondata completamente a partire dai principi dell’intelletto (e della ragione), allora egli non avrebbe una posizione differente da quella di tutto il pensiero idealista, e non si capirebbe allora quale pregio avrebbe agli occhi del pensatore di Meßkirch l’opera kantiana. Ma nelle sue interpretazioni
90 Mi sembra interessante riportare la ricostruzione semantica del termine “matematico” effettuata
da Heidegger: «Μάάθησις significa apprendimento; µμαθήήµματα ciò che può essere appreso. Come si è detto, con tal nome si indicano le cose in quanto possono essere apprese. L’apprendere è un modo di ricevere facendo proprio ciò che si riceve. Quindi non ogni prendere è un apprendere. […] Prendere significa: entrare in possesso, in qualche modo, di una cosa e disporne. […] …l’apprendere è un prendere, è un appropriarsi, nel quale ciò di cui ci si appropria è l’uso. […] Se si tratta di preparare, di produrre una cosa di cui facciamo uso, colui che la produce deve avere prima imparato a conoscere come è fatta. […] …l’imparare a conoscere è la base su cui si regge la produzione della cosa, e la cosa prodotta è dal canto suo il fondamento che rende possibile l’esercizio e l’uso. Ciò che apprendiamo con l’uso è soltanto un settore limitato di quanto è possibile apprendere con della cosa. […] quando giungiamo a conoscerla [la cosa] veramente, in modo determinato, allora prendiamo conoscenza di qualcosa che propriamente già abbiamo. Proprio questo «prendere conoscenza» è la vera e propria essenza dell’apprendere, della µμάάθησις. I µμαθήήµματα sono le cose in quanto noi ne prendiamo conoscenza, in quanto noi prendiamo conoscenza di ciò che delle cose stesse propriamente conosciamo in anticipo». GA41, 71-‐‑73; tr. it. pp. 66-‐‑68.
91 GA41, 128-‐‑129; tr. it. pp. 112-‐‑113. Sull’istanza del sistema in Kant, cfr. M. Marassi, Kant e il sistema della ragion pura, pp. 335-‐‑345.
(sia quella che stiamo ora analizzando, sia quella notissima del Kantbuch) Heidegger ci tiene ad affermare che l’opera kantiana non sia una difesa a tutto campo dell’intellettualismo (e del razionalismo), ma che anzi rilevi un aspetto fondamentale dell’intelletto che a tali correnti del pensiero è estraneo:
I principi sono quelle proposizioni che nel fondare il fondamento della loro dimostrazione basano proprio su questo la loro fondazione. In altri termini: il fondamento che essi pongono, l’essenza dell’esperienza, non è una cosa a nostra disposizione, a cui ricorrere per trovarvi semplicemente un sostegno92.
E ancora:
Siccome noi uomini non abbiamo creato e non possiamo creare l’ente come tale nella sua totalità, esso ci deve essere mostrato, perché noi lo si conosca93.
In queste frasi Heidegger vuol dire che la fonte della conoscenza non sia soltanto l’intelletto a priori, il quale dà la regola e fornisce la struttura della nostra conoscenza dell’ente e dunque della nostra esperienza, bensì che sussista in essa un “dato”, qualcosa che non è a nostra disposizione e che non può essere prodotto dalle facoltà del soggetto. In questo senso, secondo l’opinione del nostro autore, Kant sarebbe su un terreno di riflessione completamente altro rispetto ai successori idealisti, in quanto questi ultimi non riconoscerebbero la necessità di tale indipendenza dal soggetto94.
92 GA41, 244; tr. it. p. 208. 93 GA41, 210; tr. it. p. 180.
94 Infatti, dice, «La loro [di Fichte, Schelling, Hegel] filosofia, fondandosi su quella di Kant, o meglio:
distaccandosi da essa, assunse il titolo che nella corrente esposizione storica va sotto il titolo di «idealismo tedesco»; in queste filosofie Kant venne, certo con tutti gli onori, scavalcato, ma non superato. Non lo si poteva superare, perché la sua posizione fondamentale non venne attaccata mal solo abbandonata; anzi, neppure abbandonata, perché non era mai stata conquistata, ma solo aggirata». GA41, 58; tr. it. p. 56.
L’idea di una necessaria ricettività fondamentale appartenente all’appercezione trascendentale è centrale proprio nel testo pubblicato nel 1929 col titolo Kant und das Problem der Metaphysik95. Prima di affrontare il testo, vanno fatte alcune precisazioni riguardanti il
tipo di studio che in esso viene svolto. Heidegger infatti presenta qui una personale interpretazione del testo di Kant, che si presenta come una classica lettura del testo. Tuttavia