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CAPITOLO IV LA NUOVA DISCIPLINA DELLE FALSE

5. I « FATTI MATERIALI RILEVANTI »

5.1. La questione relativa alle valutazioni

5.1.1. Gli interventi della Corte di Cassazione

Come anticipato precedentemente, il contrasto ermeneutico si è protratto in sede di giurisdizione di legittimità. All’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 69/2015, infatti, hanno fatto seguito due contrapposte pronunce della V sezione penale della Corte di Cassazione, la prima a favore della tesi dell’abolitio criminis, la seconda, emanata nel novembre 2015, diametralmente opposta, a cui hanno fatto seguito altre sentenze, sempre contrapposte tra loro, fino all’intervento risolutore delle Sezioni Unite.

L’incertezza è derivata dall’evidente assenza di chiarezza e tassatività della disciplina introdotta.

Il primo riferimento è alla sentenza della Quinta Sezione n. 33774 (Sentenza Crespi), del 16 giugno 2015 (depositata il 30 luglio), con cui la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna per bancarotta impropria derivante dalla condotta di cui all’art. 2621 c.c. «perché i fatti non sono più previsti dalla legge come reato», ritenendo, quindi, che le valutazioni non dovessero essere ricomprese nell’ambito applicativo del nuovo falso in bilancio, sulla base di diverse argomentazioni. La Corte ha affermato infatti che «il dato

testuale e il confronto con la previgente formulazione degli artt. 2621

264 Per la composizione del bilancio si veda retro, Capitolo I.

265 Così Luigi Conti, il quale osservò come dall’esclusione delle valutazioni dalla

sfera applicativa delle false comunicazioni sociali ne sarebbe derivata un’abrogazione di fatto della fattispecie, cosa che sarebbe dovuta essere una «ratio extrema, cui non è lecito ricorrere se non quando non sia possibile battere altra via» (CONTI, Diritto penale commerciale, Torino, 1980, pag. 221 e ss.

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e 2622, come si è visto in una disarmonia con il diritto penale tributario e con l’art. 2638 cod. civ., sono elementi indicativi della reale volontà legislativa di far venir meno la punibilità dei falsi valutativi»266. Come si vede, i giudici hanno fatto leva sulla presenza dell’esplicito riferimento alle valutazioni all’interno dell’art. 2638 c.c. (argomento a contrario), il quale punisce i medesimi soggetti attivi delle false comunicazioni sociali (amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori) i quali «espongono fatti materiali non

rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni». Da questo

punto di vista, la Corte ha ancorato il proprio ragionamento al canone interpretativo “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, facendo leva sul fatto che le modifiche agli artt. 2621 e 2622 c.c. sono avvenute in un sistema di norme, del quale fa parte anche l’art. 2638 c.c., che, «sebbene tutelino beni giuridici diversi, sono tutte finalizzate a

sanzionare la frode nell’adempimento dei doveri informativi».

L’argomentazione appena richiamata è strettamente connessa con l’ulteriore esigenza, fatta propria dalla Corte di interpretare le norme in esame alla luce dell’art. 12 delle disp. prel. c.c.., alla cui stregua è necessario attribuire a ciascuna norma il senso «fatto palese dal

significato proprio delle parole» (argomento letterale).

Pur seguendo questa linea di pensiero, volta a valorizzare il «ritorno

alla locuzione “fatti materiali” (in luogo del riferimento al più ampio ed esaustivo concetto di “informazioni”), espressamente epurati di quell’aggancio alle “valutazioni”», la Corte ha, tuttavia, avuto modo

di puntualizzare che «certamente la valutazione di qualcosa

inesistente ovvero l’attribuzione di un valore ad una realtà insussistente non può che ritenersi esposizione di un fatto materiale non rispondente al vero».

Alla luce di quest’ultima precisazione, gli effetti dell’abolitio cirminis parziale prospettata dalla Corte, sarebbero stati particolarmente

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problematici per il giudice dell’esecuzione: questo, chiamato a rivalutare il fatto, in applicazione del principio di cui all’art. 2, comma 2 c.p., avrebbe dovuto discernere, ai fini della rilevanza penale, tra le valutazioni propriamente intese, insuscettibili di rientrare nelle strette maglie del concetto di “fatti materiali”, da quelle che, invece, avrebbero potuto farvi ingresso267.

I giudici di legittimità hanno fondato le proprie affermazioni sul dato letterale, valorizzando la scelta legislativa di utilizzare l’espressione “fatti materiali”, ripresa dalla riforma del 2002, e privata del riferimento alle valutazioni, in luogo del più generico e originario “fatti”, nonché del mutamento rispetto all’originario disegno di legge n. 19, che ha portato ad escludere l’attribuzione della rilevanza alle “informazioni”, in cui sarebbe stato possibile ricomprendere anche le valutazioni (argomento della voluntas legislatoris). Secondo la Corte tutti questi indizi erano sintomatici della volontà legislativa di escludere la rilevanza penale del cd. falso valutativo.

Riprendendo le parole della Corte: il «riferimento ai fatti materiali

non rispondenti al vero, senza alcun richiamo alle valutazioni e il dispiegamento della formula citata anche nell’ambito della descrizione della condotta omissiva consente di ritenere ridotto l’ambito di operatività delle due nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, con esclusione dei cosiddetti falsi valutativi»268.

A ciò si doveva aggiungere anche la circostanza che l’espressione “fatti materiali” era stata già utilizzata all’interno della legge n. 154 del 1991, per circoscrivere l’oggetto del reato di frode fiscale di cui all’art. 4, lettera f) della legge n. 516/1982, la cui formulazione comportava l’irrilevanza penale di qualsiasi valutazione recepita nella

267 A. GILIO, Le nuove false comunicazioni: il rimedio peggiore del male?, in

Archivio Penale, 2015 n. 3, pag. 9.

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dichiarazione dei redditi, in virtù di una scelta legislativa espressamente esplicitata nel disegno di legge269 (argomento

analogico).

La Corte sottolinea, inoltre, che ricomprendere le valutazioni all’interno della fattispecie in esame avrebbe violato il principio di tassatività: infatti, oltre a comportare una interpretazione estensiva del concetto di “fatti materiali”, ciò avrebbe finito per «lasciare

all’interprete la discrezionalità (e quindi l’arbitrio) di precisarne la rilevanza, in evidente violazione del principio di tipicità del precetto penale».

Le argomentazioni prese a riferimento dalla Corte sono andate incontro a diverse critiche, compresa una decisa presa di posizione, sul punto, da parte dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione che, con un’articolata relazione del 15 ottobre 2015, ha rivisto tutte le conclusioni a cui era giunta la Cassazione nella sentenza Crespi270.

Prima di occuparsi della sentenza n. 33774/2015, la relazione ripercorre tutte le novità introdotte nella disciplina delle false comunicazioni sociali, per poi introdurre la questione relativa alle valutazioni. In particolare, nel secondo paragrafo viene richiamato il reato di falso ideologico previsto dall’art. 479 c.p. che, alla luce delle interpretazioni fornite dalla Corte di Cassazione, ha permesso il consolidamento del principio per cui «l’atto può essere obiettivamente

falso se il giudizio del pubblico ufficiale, che è di conformità, non risponde ai parametri cui è implicitamente vincolato». In questo

senso, «la coppia concettuale falsità materiale/falsità ideologica sulla

269 A norma dell’art. 4, lett. f), della L. n. 516/1982, veniva punita l’utilizzazione di

«documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero», nonché il compimento di «comportamenti fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento di fatti materiali».

270 Relazione per la Quinta Sezione Penale dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo

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quale è costruita la disciplina codicistica del falso documentale (artt. 476 e ss. cod. pen.) si intreccia così con il binomio fatti materiali/valutazioni di bilancio, concernente l’interrogativo-chiave di ogni interpretazione della fattispecie oggettiva del delitto di false comunicazioni sociali»271.

Dopo aver ribadito, quindi, che il tema attiene alla portata da attribuire alla nozione di fatto di cui all’art. 2621 e 2622 c.c., la relazione analizza il dibattito circa l’inclusione o meno delle valutazioni nel campo semantico di tale termine.

Dopo queste considerazioni introduttive, la relazione si occupa della citata sentenza Crespi, elencando brevemente le argomentazioni che hanno portato la Corte ad affermare l’irrilevanza del falso valutativo. Il documento affronta gli effetti di tale impostazione, che costituiscono il punto di partenza per poter poi introdurre la tesi a favore della rilevanza penale delle valutazioni.

A tal proposito nella relazione si ha modo di precisare come la quasi totalità del bilancio sia composto da poste dal carattere prettamente valutativo, sottolineando il potenziale effetto abrogativo dell’impostazione della Corte, richiamando le già citate considerazioni di Luigi Conti272.

Riprendendo, quindi, la questione relativa al significato da attribuire alla locuzione «fatti materiali», la relazione evidenzia che: «-

l’intenzione del legislatore […] non può di per sé sola valere o superare il dato ricavabile dalla norma nella sua lettura sistematica

[…]; - il termine “fatto” compariva già nell’art. 2621 cod. civ.

preesistente alla riforma del 2002 e, al riguardo, sostanzialmente non si dubitava dell’esattezza dell’insegnamento per il quale detto termine “sottintende un’esigenza di specificità e concretezza che consenta una

verifica di conformità al vero… non sono fatti gli apprezzamenti

271 Relazione per la Quinta Sezione Penale, V/003/15, §2. 272 Si veda supra, nota n. 265.

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puramente qualitativi, a meno che nel contesto del discorso siano traducibili in dati oggettivi, come tali verificabili. Non possono invece contrapporsi ai fatti le valutazioni di bilancio, espressive di componenti patrimoniali di cui non è dato negare la consistenza economica […]”273; - tali conclusioni sono state recepite anche dalla

riflessione giuridica maturata a quasi dieci anni dalle modifiche del 2002 […]274». Alla luce di queste considerazioni, si può pertanto giungere alla conclusione che «la nozione di fatto rimane eguale, sia

che si arricchisca il termine con l’aggettivo che ne rafforza la valenza, sia che tale componente grammaticale non compaia non avendo senso, nel contesto di riferimento ove il sintagma si colloca (il linguaggio giuridico), parlare, ad esempio, di “fatti immateriali” o di “fatti spirituali”275».

Avendo riguardo all’eliminazione del sintagma «ancorché oggetto di

valutazioni», nella relazione si fa leva sulla mancanza di un

«contenuto semantico pregnante, univoco e certo». In questo senso, «trarre dalla soppressione del più volte ricordato inciso argomento

per ritenere che le nuove figure d’incriminazione delle false comunicazioni sociali non possano aver riguardo alle valutazioni appare soluzione interpretativa che la dottrina in esame ritiene azzardata: per perseguirla occorrerebbe, infatti, attribuire alla “formula” un significato che non poteva (né può certo ora) esserle riconosciuto (e che, invero, le era stato negato dopo i primi tentennamenti esegetici)».

Il richiamo all’art. 2638 c.c. non è stato ritenuto fondato, in quanto la novella legislativa, che ha riformulato la fattispecie in esame, è rimasta circoscritta al reato di false comunicazioni sociali,

273 Così testualmente, PEDRAZZI, (voce) Società commerciali (disciplina penale),

cit., pagg. 347 e ss.

274 Si veda supra, nota n. 251. 275 Si veda supra, nota n. 249.

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testimoniando la volontà di ribadire l’autonomia delle suddette incriminazioni, scongiurando qualsivoglia parallelismo. Infatti, sebbene assimilabili per quanto concerne la componente comunicazionale, le due fattispecie differiscono sul versante strutturale con riguardo alla diversa tipologia di destinatari, al diverso spettro delle informazioni oggetto di comunicazione, ma soprattutto, in riferimento all’assenza, nell’art. 2638 c.c., del requisito dell’idoneità ingannatoria (per cui per l’integrazione del reato di ostacolo alle funzioni di vigilanza è sufficiente il perseguimento di un mero intralcio)276. A conferma di ciò, nel documento in esame si legge chiaramente che «1) l’art. 2638 cod. civ. ha obiettività giuridica

ben diversa da quella delle false comunicazioni sociali e se ne distingue anche sul versante strutturale; 2) l’intero iter legislativo, che ha portato alle nuove disposizioni qui esaminate, è stato sempre ed esclusivamente circoscritto alle false comunicazioni sociali, senza che mai alcuna delle altre fattispecie (anche quelle maggiormente prossime fra i reati societari) sia stata oggetto dell’interesse riformatore»277.

Dopo questa precisa analisi delle tesi contrapposte, nella relazione vengono esposte alcune considerazioni riepilogative, che concludono nel senso che: «a) dovendo escludersi la possibilità di accordare alla

non riproposizione del sintagma “ancorché oggetto di valutazioni” una qualsiasi valenza idonea ad eliminare le valutazioni dall’ambito di applicabilità delle nuove disposizioni in materia di false comunicazioni sociali; b) dovendo escludersi la possibilità di attribuire alla locuzione “fatti materiali” un significato più restrittivo rispetto a quello di “fatti”; c) dovendo escludersi la possibilità di attribuire alla locuzione “fatti materiali” un significato selettivo

276 F. MUCCIARELLI, «Ancorché» superfluo, ancora un commento sparso sulle

nuove false comunicazioni sociali, in Diritto Penale Contemporaneo, pag. 6.

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rispetto a quello di “informazioni”;[…] l’aggettivo “materiali” non apporterebbe alla fattispecie un contributo semantico tale da mutare intrinsecamente il senso contenutistico del sintagma e avrebbe solo l’effetto di escludere le sole opinioni di natura soggettiva, le previsioni, i pronostici (quelle operazioni che nella lettura aziendalistica vengono denominate le stime di bilancio congetturali)»278.

Tutte queste osservazioni critiche sono state fatte proprie dalla successiva sentenza della V Sez. della Corte di Cassazione, n. 890 (sentenza Giovagnoli), del 12 gennaio 2016 (ud. 12 novembre 2015). Il caso di specie riguardava una bancarotta impropria societaria (artt. 223 l. fall. e 2621 c.c.): l’imputato era accusato di aver aggravato il dissesto, indicando l’esistenza di un numero di crediti, ormai “incagliati” (quindi sostanzialmente inesigibili) per un importo complessivo molto rilevante, omettendo quindi di svalutarli e indicandone invece un valore di realizzo della cui infondatezza l’imputato era pienamente consapevole, in violazione della disposizione di cui all’art. 2426, n. 8, c.c., e dell’obbligo di iscrizione secondo il valore di presumibile realizzazione279.

Nel dirimere la questione, i giudici hanno affrontato ogni aspetto della controversa fattispecie, a partire dalla sua evoluzione storica, che ha visto il testo normativo passare dalla locuzione «fatti

falsi», presente nel codice di commercio del 1882, a quella «fatti non rispondenti al vero», introdotta nel 1942, per giungere poi alla

formula «fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di

278 Si veda nota precedente, §2.6.4.

279 M. LANZI, Falsi valutativi, legislazione e formante giurisprudenziale: politica

criminale a confronto con la crisi della legalità. Rassegna della recente giurisprudenza della Sezione quinta della Corte di Cassazione in tema di rilevanza penale dei falsi valutativi, in attesa delle Sezioni Unite, in Diritto Penale Contemporaneo, pagg. 6-7.

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valutazioni» di cui al d.lgs. n. 61/2002, ed infine ai «fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero» della legge n. 69/2015.

A tal proposito, e specificamente in relazione al dibattito nato dall’eliminazione dell’inciso «ancorché oggetto di valutazioni», la Corte precisa come «l’interpretazione deve, primariamente,

confrontarsi con il dato attuale, nella sua pregnante significazione, e con la voluntas legis quale obiettivizzata e “storicizzata” nel testo vigente, da ricostruire anche sul piano sistematico – nel contesto normativo di riferimento – senza che possano assumere alcun valore le contingenti intenzioni del legislatore di turno» (argomento della volontà oggettiva). Dopo aver richiamato l’art. 12 delle preleggi, i

giudici precisano che «solo in via sussidiaria, in caso di ambiguità del

dato testuale, è consentito il ricorso ad altri parametri interpretativi di supporto». Queste affermazioni hanno lo scopo di sottolineare che

la volontà è quella che si ricava dal dato normativo in sé, non certo dalle mire del legislatore storico: è la disposizione come tale a vincolare l’interprete, indipendentemente dall’occasio legis280.

La sentenza si richiama alla natura “concessiva” della proposizione «ancorché oggetto di valutazioni», il cui significato «si coglie in

funzione della precisazione che nei “fatti materiali” oggetto di esposizione nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, sono da intendersi ricompresi anche quelli oggetto di valutazione».

Tale proposizione concessiva assume una funzione prettamente esegetica, e non additiva, per cui l’intervento del legislatore è stato volto solamente ad espungere dal precipitato normativo una mera superfetazione linguistica (argomento testuale-sintattico). Il ruolo svolto da tale proposizione concessiva, nell’ambito della fattispecie in esame, è stato chiarito proponendo un’analogia con un’ipotetica

280 F. MUCCIARELLI, Falso in bilancio e valutazioni: la legalità restaurata dalla

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formulazione della fattispecie di omicidio, descritta inizialmente con le parole “chiunque cagiona la morte di un uomo, ancorché anziano e

malato”; la successiva cancellazione dell’inciso “ancorché anziano e malato” non avrebbe avuto alcuna concreta incidenza sulla sfera

applicativa della norma incriminatrice, in quanto non avrebbe aggiunto nulla al concetto semantico di “uomo”281.

In relazione al significato da attribuire alla locuzione «fatti materiali

rilevanti», la Corte sottolinea il «macroscopico errore di prospettiva»

in cui sono incorse le varie interpretazioni, che non hanno tenuto conto del fatto che “materialità” e “rilevanza” rappresentano concetti prettamente tecnici e non comuni, nonché «frutto di mera

trasposizione letterale di formule lessicali in uso nelle scienze economiche anglo-americane e, soprattutto, nella legislazione comunitaria». Le ragioni che giustificano l’utilizzo di un simile

vocabolario sono da identificare nella connotazione eminentemente tecnica della disciplina civilistica del bilancio, per il cui rispetto è, talvolta, imposta l’osservanza di direttive comunitarie, volte ad armonizzare gli ordinamenti degli stati membri (argomento logico-

sistematico).

Da questo punto di vista, prosegue la sentenza, «è pacificamente

riconosciuto che il principio della materialità è strettamente correlato a quello fondamentale – caratterizzante la legislazione comunitaria – della true and fair view (espressamente menzionato nell’art. 2, comma terzo, della IV direttiva CEE sul bilancio di esercizio e nell’art. 16, comma terzo, della VII direttiva CEE sul bilancio consolidato), che è stato tradotto dal nostro legislatore, nell’art. 2423 cod. civ., con l’espressione “rappresentazione veritiera e corretta della

situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società e del risultato economico di esercizio”. Si ritiene, cioè, che soltanto le

281 L’esempio è di M. GAMBARDELLA, Il “ritorno” del delitto di false

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informazioni essenziali siano coerenti con l’idea di una rappresentazione adeguata e realmente efficace, specie in diretta connessione con il suo fine precipuo (che è quello di informare i terzi, utilizzatori del bilancio, sulle reali condizioni economico-finanziarie della società, al fine di orientarne correttamente le scelte operative, in modo consapevole e responsabile».

Interpretato in questo senso, il principio in esame, ricompreso nella cd. clausola generale di chiarezza e veridicità del bilancio (art. 2423 c.c.) deve pertanto considerarsi immanente nel nostro sistema giuridico, nonché, secondo alcuni, diretta derivazione della tradizione giuridica romana, discendendo dal brocardo “de minimis non curat

praetor”282.

Attraverso lo stesso ragionamento, anche l’aggettivo «rilevante» viene ricondotto alla normativa comunitaria, in particolare al concetto di “rilevanza” di cui all’art. 2, punto 16, della Direttiva 2013/34/UE relativa ai bilanci di esercizio, ai bilanci consolidati ed alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, che nel nostro ordinamento è stata recepita con il d.lgs. n 14/08/2015 n.136. Quest’ultimo definisce lo stato dell’informazione “rilevante” «quando la sua omissione o

errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio dell’impresa».

Vengono poi effettuati due ulteriori richiami, essenziali ai fini di una corretta interpretazione delle nozioni in esame: il primo è rappresentato dall’art. 6, par. 1, lett. j) dell’ultima direttiva citata, in cui si legge che «non occorre rispettare gli obblighi di rilevazione,

valutazione, presentazione, informativa e consolidamento previsti dalla presente direttiva quando la loro osservanza abbia effetti

282 La Corte specifica che «come il giudice non deve occuparsi delle cose di poco

conto, così il contabile e l’analista finanziario devono interessarsi solo dei dati fondamentali e di particolare momento, tralasciando tutto quanto sia di insignificante rilievo».

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irrilevanti»; il secondo è al punto 17 del considerando, in cui si legge

che «il principio della rilevanza dovrebbe regolare la rilevazione, la

valutazione, la presentazione, l’informativa e il consolidamento nei bilanci».

L’insieme delle prescrizioni appena richiamate, costituisce la base da cui la Corte desume l’esistenza di un nuovo principio di redazione del bilancio, quello della “rilevanza”, normativamente introdotto nel nostro sistema.

L’esito cui giungono i giudici, alla luce di queste osservazioni, è “illuminante”283: «“Materialità” e “rilevanza” dei fatti economici da

rappresentare in bilancio costituiscono, allora, facce della stessa medaglia ed entrambe sono postulato indefettibile di “corretta” informazione, sicché le aggettivazioni materiali e rilevanti, ben lungi dal costituire ridondante endiade, devono trovare senso compiuto nella loro genesi, finalisticamente connessa – per quanto si è detto – alla funzione precipua del bilancio e delle altre comunicazioni sociali, quali veicoli di informazioni capaci di orientare, correttamente, le scelte operative e le decisioni strategiche dei destinatari».

La Corte fa leva sul significato tecnico dei termini utilizzati, in virtù della funzione informativa attribuita al bilancio, prendendo le distanze dal significato storicizzato del sintagma «fatti materiali», inteso nel senso di escludere la rilevanza delle stime di bilancio congetturali, quali opinioni di natura soggettiva, previsioni e pronostici.

Anche queste conclusioni, tuttavia, non sono andate esenti da critiche: in particolare, ha suscitato qualche perplessità il fatto che i due termini, unificati dal medesimo scopo, alludono a concetti simili tra loro, tant’è che la Corte stessa li definisce «facce della stessa

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