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SECONDA PARTE

5. Intervistare i luoghi Intervistare le persone I cas

5.2 Intervistare le persone

In questa parte della tesi si è scelto di raccogliere una serie di testimonianze che hanno fornito un supporto essenziale allo sviluppo della ricerca. La decisione di integrarle nel corpo della tesi è dovuta all’importanza che assumono questi dialoghi con persone esperte in diversi settori di materia penitenziaria e che ricoprono un ruolo centrale.

Le interviste alle persone riescono a colmare quei frammenti lasciati incompleti dato il tema particolarmente complesso, le difficoltà di reperimento di materiale e le dinamiche multifattoriali che incidono sull’architettura e la percezione spaziale dei penitenziari.

Ogni intervista è preceduta da una breve descrizione del suo contenuto, le tematiche affrontate e il ruolo svolto dall’intervistato nel settore dell’amministrazione penitenziaria.

Intervista n.1

Data: 3 novembre 2018

Intervistato: arch. Roger Paez i Balnch

Ruolo: architetto progettista del Centre Penitenciari Mas D’Enric, Tarragona, Spagna

Campo di attività: progettista

Temi principali: l’architettura penitenziaria, la pena risocializzante, il lavoro multidisciplinare.

Durante l’intervista l’architetto fa riferimento ad un libro: Paez, R., Critical Prison Design: Mas d’Enric Penitentiary by AiB arquitectes + Estudi PSP Arquitectura, ActarD Inc., 2014, in cui descrive le ragioni che hanno motivato il progetto e la descrizione dello stesso. Il testo è suddiviso in 3 parti: Concept, Design e Finction.

Nella prima parte l’autore affida a diversi personaggi la trattazione di 7 temi principali con cui egli descrive non solo il progetto ma l’approccio alla tematica dell’architettura penitenziaria. I 7 focus che tornano durante l’intervista sono: visibilization, ossia in che maniera rendere visibile alla società un

tema per molto tempo rimasto in disparte, quello dello spazio della pena,

genealogy, che tratta di come nella concezione contemporanea di carcere

l’architettura dovrebbe assumersi la responsabilità di svolger un ruolo attivo nella politica di risocializzazione dei detenuti, discipline and freedom, tema che esprime la costante tensione tra due polarità opposte, disciplina e libertà e che all’interno di questo ambito dovrebbero trovare, anche per mezzo dello spazio e della sua progettazione, un punto di contatto, totality, espressione di quanto il carcere costituisca, per chi lo abita, il mondo sensibile con cui si relaziona quotidianamente, vibration, che si concentra sulla parte percettiva dell’architettura, the outside, ossia di come la continua tensione di mettere in relazione due realtà apparentemente opposte dovrebbe entrar a far parte di una nuova idea di carcere, topology-typology, tema che descrive in che maniera il discorso sul tipo architettonico, connesso a quello topologico di adattamento del carcere al contesto fisico sia stato un punto fondamentale nell’iter ideativo del progetto.

Le altre due parti del testo riguardano nello specifico il racconto del progetto e della sua realizzazione.

In questo caso l’intervista vede come interlocutore un architetto e per questo si entra subito nel vivo del tema spaziale. Ogni scelta progettuale è però motivata da ragioni di carattere non prettamente tecnico ed utilitaristico ma politico e sociale, di fondamentale importanza in un tema come quello del carcere. Il progettista non perde mai di vista lo scopo della pena, la possibilità di un reinserimento sociale e quindi di come l’architettura possa collaborare attraverso i propri mezzi a realizzare questo fine. Attraverso la descrizione del suo lavoro l’architetto chiarisce il ruolo assunto dal progettista di un carcere all’interno di un excursus politico, tecnico, amministrativo e sociale.

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Potrebbe raccontarmi come cominciò il lavoro per il progetto del penitenziario

Mas D’Enric di Tarragona e se ha avuto altre occasioni lavorative in questo campo?

Circa due anni fa ho avuto l’occasione di lavorare con studi italiani riguardo il tema del carcere. Si trattava di due concorsi pubblici, uno vicino Napoli e l’altro in Lombardia,

vicino Brescia. Per quello in Lombardia collaborai con lo studio genovese 5+1AA, mi contattarono proprio perché già mi ero occupato del tema.

Il caso di Tarragona fu un concorso pubblico, diviso in due fasi. La prima fase era aperta, chiunque poteva presentarsi, mentre alla seconda passavano soltanto 5 proposte, con un progetto molto più particolareggiato. Il programma non era troppo dettagliato. Di questi 5 scelsero la nostra soluzione ed ottenemmo l’incarico. Eravamo uno dei pochi gruppi di architettura a non avere esperienza previa riguardo il tema. Non ero solo, eravamo un gruppo abbastanza numeroso, di fatto due studi di architettura, il mio AiB arquitecture e PSP arcquitectura. Ho sempre sentito questo progetto molto mio, cioè fui molto coinvolto dal principio alla fine, perché si trattava di un progetto importante sotto molti aspetti. Ho convinto tutto il gruppo a presentarsi, nessuno voleva farlo, come lettore di Focault non come architetto specializzato.

Cominciai ad interessarmi molto al tema ancora prima del progetto e scoprì la tesi dottorale di Robin Evans, teorico inglese, sull’architettura penitenziaria in Inghilterra tra il 1750 e il 1880 circa, quando apparve per la prima volta il concetto di penitenziario. Questo lavoro è molto interessante perché oltre a trattare la questione penitenziaria come implicazione sociale, fa luce su un aspetto che non avevo mai considerato prima.

Il penitenziario moderno, no la prigione in generale, che entra in scena con la riforma legale inglese intorno al 1750, è la prima tipologia moderna. Di questo Focault fa qualche accenno, per esempio parla del Panopticon di Bentham. Quello che dichiara Evans (e che io non avevo mai sentito prima e fu uno dei motivi per cui mi incoraggiai molto ad affrontare il lavoro) è che l’architettura penitenziaria che può apparire, e di fatto appare, come un lavoro “estremo” quasi al limite, storicamente si può considerare l’origine del lavoro dell’architetto moderno.

La relazione tra determinazione, precisione di misurazione e articolazione di uno spazio interno, che è alla base dell’architettura moderna, unito con una pulsione di ordine più liberale, sempre moderna, si mostra in modo più forte e senza scuse all’interno di questo tema. Quindi mi interessò molto sia a livello storico che a livello di architetto del XXI secolo.

È un tipo di tema in cui l’architetto non ha scuse di nessun tipo, cioè, semplificando: pensiamo ad architetture molto specializzate dove la conoscenza tecnica specifica

ti permette di prendere determinate decisioni, per esempio quella degli ospedali e all’architettura come manifestazione culturale, architettura per l’architettura, esercizio culturale, che può manifestarsi a qualsiasi scala, dalla più modesta alla più grande, si può delineare tra queste due una zona intermedia, dove non puoi dire che sei architetto che fa solo un lavoro tecnico e neanche vuoi esclusivamente un’espressione di ordine culturale artistico, se così possiamo definirlo.

Non puoi nascondere questa tensione nel caso del penitenziario. La ragione per cui volevamo vincere il concorso era capire cosa potevamo fare come architetti contemporanei rispetto a questa questione.

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In che maniera vi siete confrontai con le norme i vincoli che questo tipo di

commissione prevede? Come avete cercato di raggiungere un equilibrio tra norma e architettura?

Io non ho mai pensato di cercar un equilibrio. Lo pensai al contrario, cioè capire che logica di ordine sociale e culturale, politica, c’era dietro tutte le decisioni. Mai lo considerai un equilibrio nel senso pragmatico del termine. Per me è stato un progetto di “massimalismo”, cioè è un progetto che poteva presentarsi come un qualsiasi progetto, conosci il tema, ti informi ecc., però quello che avevo chiaro era che l’incarico e il momento in cui lo ottenemmo era molto particolare.

Questo è un dato da tenere in considerazione. Questo ci permise di affrontare un tipo di ricerca e un tipo di relazione con il cliente pubblico che difficilmente si può ripetere, anche qui in Catalogna. Dal 1981 la Catalogna ha la competenza relativa ai penitenziari distaccata dal governo centrale, quindi ha una politica penitenziaria differente. Dipende dalla legge organica spagnola però la sua traduzione in prassi penitenziaria è distinta.

In 1991 venne realizzata una prigione molto interessante di Bonell i Gil (Can Brians). È stato un progetto di architettura interessante che fu anche pubblicato ed è uno dei pochi esempi di architettura penitenziaria contemporanea insieme a quello di Rem Koohlaas ad Arnhem nel 1979-81, per riconvertire in prigione contemporanea un panopticon ottocentesco.

In quegli anni (in Catalogna) ci furono importanti investimenti in questo settore, si fecero molte carceri, che videro un blocco anche dovuto alla crisi, però la metà che era prevista si fece, l’ultima era la nostra. È un momento molto interessante perché

dalla più alta politica al lavoratore dei centri penitenziari, si pensava a come far funzionare meglio le cose.

Non tanto a livello di tipologia, quanto a livello di funzionamento del programma, quindi si può dire che entrammo in un momento della conversazione particolarmente favorevole. Anche per questo non ho mai considerato il bisogno di un equilibrio come un equilibrio pragmatico in questo senso. Non credo in nessuna decisione predeterminata, cerco di capire ogni singola ragione per cui le cose vanno fatte in un certo modo e questa fu la grande sfida iniziale: cercare di focalizzare il progetto e il processo di revisione del progetto, che è molto importante, sempre in questo senso. Non dicendo “questa particolare problematica è già stata risolta in questa maniera” ma “che vuoi che accada? Lasciami pensare come farlo accadere”. In questo senso fu un progetto molto impegnativo, lo avevamo chiaro fin dall’inizio. La questione principale fu capire come instaurare un dialogo con la committenza pubblica in modo da fornire soluzioni architettoniche ad una richiesta di programma, sempre cercando di porre la giusta domanda piuttosto che accettare soluzioni già date. Alla fine riuscimmo ad ottenere un buon dialogo. Sarebbe stato molto più facile prendere decisioni già preformate. Il risultato però è molto più significativo tanto a livello architettonico, quanto a livello sociale e di uso del penitenziario.

A tal proposito era un programma “nuovo”, c’era solo un esempio progettato ma non ancora costruito, non aveva molti punti fissi, per questo dico che era un momento particolare, dove si stavano riconsiderando i termini della detenzione in maniera più partecipativa. Si trattava di un tipo di cliente ricettivo, se così possiamo definirlo. Questo progetto non può farsi solo con un buon gruppo di architetti. Serve un’impresa collaboratrice, una commissione che sia disponibile al dialogo. Ci furono molte difficoltà, però sempre affrontate in modo propositivo e costruttivo.

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Che riferimenti architettonici avete utilizzato per il progetto?

La prima parte del libro1 è stata organizzata in maniera più riflessiva, più teorica. Quello

che ho fatto per il libro fu incaricare diversi architetti, critici ecc., di pensare ad uno dei temi che io mi ero prefissato per affrontare la situazione. Non ho mai chiesto di parlare relativamente al Mas d’Enric, di fatto qualcuno lo fa, altri no. Quello che richiesi e che avessero parlato di concetti che per noi furono alla base dello sviluppo del progetto.

1 Si fa riferimento al testo: Paez, R., Critical Prison Design: Mas d’Enric Penitentiary by

Questo fu molto importate per tutto il percorso del progetto, dal suo concepimento fino al libro. Una linea rossa molto chiara. Questi concetti chiave li ho introdotti fin dall’inizio, alla prima riunione tecnica che affrontammo.

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Questi concetti quindi li avete fissati fin dalla prima fase del progetto?

Nella prima fase, no, o meglio alcuni si, sono stati subito chiari, come per esempio quello della totalità. Gli altri aspetti si svilupparono lungo il lavoro.

Siamo sempre partiti da riferimenti concettuali che sono alla base in un progetto di questo tipo, c’è talmente una forte complessità programmatica, tecnica, di amministrazione, di logistica e di gestione, che se non hai chiarezza non si riesce a lavorare, non solo tu progettista ma tutte le persone con cui ti stai confrontando, che vengono da campi disciplinari molto diversi.

Normalmente noi architetti veniamo chiamati per risolvere problemi di ordine tecnico, in questo caso i problemi erano anche di natura concettuale e furono questi che permisero di organizzare un dialogo con le altre discipline, rappresentarono il terreno comune del dialogo. Ti stai confrontando con un sociologo, uno psicologo, un tecnico penitenziario che è qualcuno che vive quotidianamente il carcere, ingegneri, altri architetti, persone e professionalità molto distinte e ognuno ha le proprie cose da dire. Come organizzare tutto questo senza che si presenti una disparità? Creare un tavolo comune dove si possa discutere ponendo sempre delle domande e mai delle affermazioni, anche per questo i concetti presentati all’interno del libro sono 7 domande.

Il riferimento al mat-building fu una di questue domande. Una delle più architettoniche. Questo riferimento ci aiutò nel capire molte cose, per esempio anche a livello di costi. Storicamente le tipologie penitenziarie sono di ordine radiale prima, e poi a padiglioni. Avevo molto chiaro che dovevamo uscire da queste tipologie per diverse ragioni, innanzitutto una di ordine culturale, perché queste sono indissolubilmente associate ad un certo tipo di riferimento penitenziario, ad una certa immagine.

Un’altra di tipo più sociale: esiste o non esiste il problema sociale del carcere? Se esiste dobbiamo lavorarci, perché non si può rendere invisibile. All’interno di questa logica è chiaro che va ripensata la tipologia architettonica, primo per una questione di immagine negativa quindi per una questione tecnica costruttiva: non ha senso creare facciate cieche, per il fatto che devi isolarle termicamente, non si possono aprire finestre, il costo è più alto, quindi tanto vale unirle. Un’altra ragione per cui abbiamo ripensato la logica dei padiglioni

in chiave di mat building è per una questione di percezione, creare un intorno abitabile. Quando hai molte facciate cieche, senza aperture, si crea un ambiente molto duro, di difficile appropriazione da parte dell’abitante. Alla fine, chi sta in prigione è un abitante, in maniera temporanea ma è un abitante. Quindi chiaro, evitare problemi tecnici, energetici, di costo ma anche problemi di ordine maggiormente percettivo e anche di flessibilità, per un eventuale uso futuro del carcere. Poi c’è un livello esclusivamente di gestione. Nella logica dei padiglioni si creano spazi marginali che non si possono usare e che comunque devono essere controllati. Fin dal principio risultò quindi chiaro il passaggio da una logica a padiglioni a quella più estensiva tipo mat-building.

Tutte queste premesse hanno a che fare con una macro ragione, obiettivo base del progetto, della costruzione e dell’uso, rispondere all’obiettivo principale del carcere che è il reinserimento sociale del preso, così come è previsto dalla legge. Il nostro obiettivo era quello di rispondere a questo imperativo, ossia apprendere la libertà e la responsabilità all’interno di un ambiente disciplinato e chiuso, invece di nascondere la testa abbiamo affrontato il tema da questo punto di vista.

Un altro tema che appare nel libro è la tensione tra disciplina e libertà, che oltre a essere chiaramente una posizione ideologica anche in architettura esiste da sempre. Una posizione che definisce e determina e un’altra che sia appropriabile, che faccia sì che le cose accadano. Lo stesso succede in materia penitenziaria.

Assicurare la custodia del prigioniero e contemporaneamente promuovere il reinserimento sociale. Possono sembrare logiche contraddittore, non lo sono esattamente, sono solo molto complesse da articolare. Tanto a livello culturale, disciplinare architettonico e a livello di stampo legale questo rapporto è difficile. Quindi anche a livello tipologico creare un grande spazio centrale esterno è una maniera chiara di affrontare il tema: “più entri nella prigione più sta fuori percettivamente”.

Quando ho visitato alcune carceri la sensazione era sempre quella di un tempio egizio: ogni volta entri in un interno sempre più duro e questo si risente a livello psicologico. Questo è il tema della totalità e della vibrazione. La problematica basica del carcere non è altro che la noia, no è la violenza, non è lo stare male, ma la noia. Quando la noia è cronica diventa depressione. Come si può migliorare questa condizione all’interno del carcere? Evidentemente non è il luogo migliore per farlo, ma come si può aiutare il recluso all’apprendimento della libertà e della responsabilità per promuovere un reinserimento sociale? Questa è il quesito che sempre ponemmo al centro di ogni scelta.

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Concepire lo spazio in questi termini come si confronta con la gestione dello spazio. Perché si può progettare uno spazio che aiuti all’inserimento sociale ma se poi non viene usato bene?

Quello che noi progettisti possiamo fare è fornire tutti gli strumenti possibili alla gestione affinché poi lo si usi nella maniera più rilevante socialmente. È evidente che ci si debba confrontare con la parte gestionale. Lo stesso accade nella scuola, ci sono scuole molto diverse, anche se basicamente le strutture sono molto simili, il curriculum didattico è unico, però è molto differente portare tuo figlio in una scuola anziché in un’altra.

Dipende dalla gestione. Il progetto ha sua responsabilità: se hai una buona gestione ma non hai un buon progetto di architettura non potrai mai raggiungere un certo livello di qualità.

Se hai una gestione cattiva, in questo non puoi entrare come architetto, puoi facilitare le cose. È importante comprendere che il carcere è qualcosa che in questo momento si sta ripensando molto, spero che il nostro lavoro insieme a quello di altra gente lo farà ripensare in maniera più radicale e di fatto già sta succedendo in alcuni paesi, e per questo ho chiaro che questo edificio ha una durata molto più lunga rispetto al suo uso di prigione. Sono convinto e spero di vedere questo edificio funzionare per un altro uso.

Non so quale, ma fin dall’inizio questa idea era chiara. La prigione dovrebbe essere trattata al pari di altri edifici pubblici. Per esempio fuori dalla Catalogna, in Spagna, le prigioni funzionano in altro modo, dipendono da un organismo statale che ha al suo interno, tecnici, architetti, ingegneri ecc., hanno un modello che applicano, quindi è un’altra logica, ha più a che fare con la gestione che altro. In questo caso come architetto hai molto poco da dire.

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Prima ha accennato al fatto che l’altro studio con cui collaborava lavorava

soprattutto in architettura ospedaliera, questo vi aiutò ad affrontare il progetto?

Si. Per una questione molto semplice: l’architettura sanitaria è la più complessa di tutte sia a livello tecnico che programmatico e quindi ci aiutò molto nella risoluzione di un programma molto complesso. Come ti dicevo però è da considerare al contrario. La logica penitenziaria è passata alla logica ospedaliera, residenziale ed educativa. Non è tanto in termini di know-how quindi, quanto la capacità di lavorare con una tale complessità programmatica, molto più complessa di un edificio ospedaliero. Il carcere al suo interno

ha l’ospedale, le residenze, le officine, gli spazi culturali, educativi, di sport, sociali ecc. È come una piccola città.

La riflessione riguardo l’effetto che lo spazio ha sul comportamento di chi lo vive è molto importante. Ovviamente gli effetti “curativi” di uno spazio in ambito sanitario hanno origini più lontane. Anche io ho lavorato in alcuni progetti per edifici sanitari ed in questo senso mi interessava soprattutto la relazione con lo spazio esterno. Questo tema fu per me f molto importante e con il progetto per il carcere scoprì l’origine di tanto interesse. Sicuramente perché l’esterno non è controllabile e questo per me è un aspetto fondamentale, smettere di fare architettura è una maniera di assicurare la vibrazione percettiva di cui parlavamo.

Nel carcere la noia non è un problema solo di ordine psicologico, è una questione di ordine sanitario, perché quando si sta in uno spazio penitenziario, la propria narrativa dello spazio