La psicologia della testimonianza è una specifica applicazione della psicologia giuridica. La sua nascita è fatta risalire agli inizi del ‘900 quando Alfred Binet nel suo libro “La Suggestebilité” affermava che le suggestioni influenzano le risposte dei testimoni.
In particolare dopo una serie di studi effettuati, Binet concluse che le risposte sbagliate che i bambini fornivano durante gli interrogatori potevano essere associate all’esistenza di vuoti nella memoria che successivamente i soggetti tentavano di riempire accettando le opinioni dello sperimentatore, suggerite attraverso le cosiddette domande suggestive. L’informazione indicata dall’adulto inoltre veniva immagazzinata dai bambini come parte del ricordo originario. Binet sostenne che tale meccanismo fosse da attribuire a fattori sociali, quali la tendenza dei bambini a compiacere gli adulti, piuttosto che ad errori di memoria.
Si dovette aspettare il 1908 per la pubblicazione del primo vero libro riguardante la psicologia della testimonianza. Nel testo “On the Witness Stand” di Hugo Münsterberg vennero messe in luce tutte le illusioni che avrebbero potuto condizionare la mente del testimone, andando a sottolineare così l’inaffidabilità della percezione e della memoria umana, e i metodi e le tecniche per valutare il grado di affidabilità individuale del testimone.
In Italia questa disciplina trova spazio intorno al 1930 con autori come Musatti e Altavilla. Entrambi hanno posto la loro attenzione al tema della relatività della verità giudiziale; hanno parlato di testimonianza e di sincerità del testimone, di soggettività delle percezioni, di lacunosità della memoria e di processi di ricostruzione a posteriori, di menzogna, di domande insidiose, di strategie dell’arringa, temi ancora ampiamente dibattuti nei manuali di psicologia giuridica (Gulotta G., 2000).
Musatti fin dal 1931 poneva l’attenzione sull’importantissima differenza tra accuratezza e credibilità della testimonianza: parametri ritenuti indispensabili per la valutazione dell’attendibilità della prova testimoniale. Facendo preciso riferimento alla
credibilità, in particolare affermava l’esistenza di strumenti affidabili per arrivare a capire se una persona aveva realmente partecipato ad un evento, se ne era venuto a conoscenza tramite terzi o se stava mentendo. Tali metodi illustrati nel suo libro “Elementi di psicologia della testimonianza” erano: la diagnosi pneumografica e la diagnosi di un fatto. La prima prevedeva l’analisi respiratoria del teste; dopo diversi studi Musatti stabilì una particolare tipologia di respiro in chi nell’atto del testimoniare sa di mentire. La seconda invece, ancora oggi utilizzata, fa riferimento ai tempi di latenza della risposta. Nel 1970, grazie agli studi sui falsi ricordi di Elizabeth F. Loftus, si entra nell’era moderna della ricerca scientifica della testimonianza, ma è nel 1990 che si ebbe una vera svolta: con l’avvento dei test del DNA, venne alla luce che alla base della maggior parte delle condanne errate vi sono stati errori nel riconoscimento del colpevole da parte dei testimoni, errori che possono per natura essere volontari o involontari.
Oggi, la psicologia della testimonianza studia le fonti di interferenza e le deformazioni più frequenti che possono portare a discrepanze tra la realtà obiettiva dei fatti e la loro rievocazione da parte del testimone.
2. Che cos'è la testimonianza
Stern (1939) definisce la testimonianza come una riproduzione verbale o scritta di contenuti mnemonici, che fanno riferimento ad una particolare esperienza o ad un certo evento esperito.
Il contenuto della testimonianza è il risultato dell'interazione tra il contenuto della memoria, il contenuto dell'evento cui si è assistito e i processi cognitivi e decisionali su cui il soggetto intende o meno riferire.
In Italia, il primo ad occuparsi, in modo scientifico, di psicologia della testimonianza fu Cesare Musatti. Secondo l'autore, il contenuto della deposizione non è mai una pura riproduzione fotografica del fatto obiettivo, ma è sempre il prodotto di una molteplicità di fattori: elementi del fatto obiettivo, elementi esterni, personalità dell'individuo ed esperienze passate.
La testimonianza può essere distinta in testimonianza diretta, nel caso in cui l’individuo ha assistito al fatto in prima persona e testimonianza indiretta, quando, invece, l’individuo è venuto a conoscenza del fatto in un secondo momento tramite il racconto di
altri. Nel secondo caso è possibile che avvenga una re-interpretazione da parte del soggetto riguardo ai fatti di cui è venuto a conoscenza.
In entrambi i casi comunque la testimonianza riporta sia una parte di verità oggettiva sia una costruzione soggettiva dei fatti, legata a componenti emozionali e situazionali che influenzano il ricordo ma anche ai precedentemente citati errori di memoria. Quindi non si profila mai come un ricordo imparziale e assoluto, ma come un’interpretazione che implica l’attivo e selettivo intervento del testimone, con la sua personalità, la sua cultura ed i suoi inevitabili pregiudizi.
Il contenuto della testimonianza dipende dall'interazione tra il contenuto della memoria, il contenuto dell'evento a cui il testimone ha assistito e i processi decisionali riguardanti gli elementi che il soggetto intende rievocare e riferire.
Operazioni di questo tipo possono portare il testimone oculare a fornire involontariamente una deposizione diversa dal reale svolgimento dei fatti, in quanto possono avere alterato la percezione dell’evento e dei fatti accaduti da renderli diversi da ciò che accadde effettivamente (Loftus, 1999; Gulotta 1987; De Cataldo, 1988; Cavedon, 1992; Mazzoni, 1997; Mazzoni, 2000).
Questo aspetto soggettivo della testimonianza ci mette difronte a due paradossi. Il primo lo si può osservare prendendo in esame gli atti preliminari all’audizione del testimone durante il processo: il giudice avverte colui che si presta a testimoniare dell’obbligo di dire la verità e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: “Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione mi impegno a dire tutta la verità e non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza.” (Art.497/2 c.p.p). Ma come sostenuto anche da Musatti non esistono testimonianze di cui si possa dire che sono integralmente veritiere e da esse non si può pervenire ad una verità obiettiva, poiché ogni fatto di cui si viene a conoscenza è visto da ciascuno attraverso la sua specifica persona. Per superare tale paradosso bisognerebbe chiedere al testimone di essere sincero, cioè di dire ciò che sa, e di non essere reticente, cioè di non nascondere quello che sa. È prendendo in considerazione i diversi legami che possono formarsi tra dire e sapere e le loro negazioni che risulta evidente e rilevante la distinzione tra dire il vero e l’essere sincero. Già Altavilla osserva come i due termini non si equivalgono: “la sincerità ha un valore puramente soggettivo e si riferisce ad un’attitudine psicologica, alla tendenza a dire quello che si sa e si pensa, ed è accompagnata quasi sempre da quell’atteggiamento
spontaneo che è la franchezza, che ha particolari note fisionomiche, mentre la veridicità si riferisce ad un’esatta rispondenza di questo stato subiettivo con la realtà obiettiva” (Altavilla, 1948). Si può essere sinceri e non veridici, che per logica porta a distinguere la falsità dall’errore. Infatti nel caso in cui il soggetto dice ma non sa, fornisce una testimonianza non veritiera cadendo in errore ma questo non significa che stia mentendo.
Il secondo paradosso invece viene definito “Dilemma di Rashomon” e mette in evidenza come un ricordo di uno stesso evento può risultare diverso da testimone a testimone, tanto da far pensare che i soggetti abbiano assistito a eventi differenti. Nonostante ciò, il confronto tra le varie narrazioni rimane un buon metodo utilizzato per valutare l’accuratezza delle testimonianze, dove per accuratezza si intende la corrispondenza tra la realtà oggettiva del fatto e la realtà soggettiva raccontata dal testimone. Quest’ultima insieme alla credibilità, definita come rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e le motivazioni a dichiararlo, costituiscono i parametri per la valutazione dell’attendibilità del testimone.
Le ricostruzioni possibili sono molteplici ma il risultato, poiché basato su diverse congetture, non potrà risultare certamente simile all’originale.
Essendo, quindi, il ricordo di un evento una ricostruzione, andrebbero esaminati i fattori che intercorrono prima dell’evento, durante le fasi del processo mnestico ed, infine, le azioni ed i processi che accadono dopo l’evento e che potrebbero alterarne la ritenzione ed il recupero. Il processo di codifica e il ricordo sono praticamente inseparabili, dal momento che si ricorda solo ciò che si è codificato e ciò che viene codificato dipende da chi siamo, dalle nostre esperienze passate, dalle nostre conoscenze, dai nostri bisogni, con una grande influenza su ciò che viene immagazzinato in memoria.
Questa visione spiega perché talvolta persone diverse ricordano lo stesso episodio in modo radicalmente opposto. Un testimone generalmente codifica l’informazione che proviene dall’ambiente (ad esempio, un evento criminale) la quale entra nel sistema cognitivo del soggetto in modo diverso rispetto alla forma ed ai dettagli con cui è presente nell’ambiente.
Quando il testimone viene invitato a ricordare e riconoscere informazioni, queste riguardano in primo luogo la memoria episodica, tuttavia non va sottovalutata la possibile
influenza della memoria semantica sul ricordo episodico.
Si deve, inoltre, tener presente che, ad esempio, la modalità di acquisizione del materiale può influenzare la rappresentazione delle conoscenze nella memoria episodica: vi è differenza, infatti, quando un ricordo è intenzionale (tendenzialmente il soggetto sarà facilitato nel ricordare l’evento) e quando invece è accidentale (probabilmente il ricordo sarà scarso e lacunoso in termini di quantità, anche se talvolta può essere ugualmente accurato) (Mazzoni, 2003). Ed è proprio il ricordo accidentale che spesso caratterizza le testimonianze: la maggior parte delle volte, infatti, accade che l’individuo è chiamato a testimoniare su eventi inattesi, che non ha la consapevolezza di dover ricordare. In questi casi, il ricordo è solitamente scarso e frammentario.
Spesso i testimoni di un processo possono essere convinti di ricordare eventi che non si sono verificati, per cui possono incorrere in quella che si definisce “falsa testimonianza inconsapevole” (Cubelli, Della Sala, 2007).
Infine, uno dei fattori più promettenti per un'accurata identificazione è la velocità con la quale il testimone compie una scelta tra, ad esempio, una serie di foto segnaletiche. Molti studi hanno scoperto infatti che chi compie un'accurata identificazione da una serie di fotografie, arriva a questa decisione molto più velocemente di chi ne compie di false (Dunning & Perretta 2002; Smith et al. 2000). Questo effetto può essere spiegato dal fatto che chi decide più velocemente, riconosce automaticamente il volto target, senza dover utilizzare strategie e inferenze di altro tipo.
2.1. Il testimone oculare
“Testimone oculare” è un termine legale e si riferisce a quelle persone che assistono ad un evento. Per esempio, può essere richiesto loro di dare una descrizione di ciò che è accaduto e questo può includere l'identificazione di un colpevole, dettagli della scena del crimine e così via.
Le testimonianze oculari sono un'area importante della ricerca in psicologia cognitiva e memoria umana. La polizia, il giudice e la giuria ripongono molta fiducia in queste testimonianze, tuttavia molte ricerche hanno dimostrato che la testimonianza non è infallibile e può essere influenzata da molti fattori psicologici: ansia, stress, memoria ricostruttiva, effetto arma, domande fuorvianti etc.
La ricerca psicologica mostra che le testimonianze sono errate circa il 33% delle volte. Le memorie non funzionano con l'efficienza e l'accuratezza di un video registratore (apa.org).
2.2. Identificazione del colpevole
Oltre a ricordare più dettagli possibili, i testimoni spesso devono ricordare anche i volti e altre caratteristiche identificative dei colpevoli di questi crimini. Spesso è chiesto loro di descrivere il criminale e successivamente di fare un'identificazione da alcune foto che vengono loro proposte. Anche qui c'è un certo numero di ricerche che dimostra quanto i testimoni possano cadere in errore.
In America, ad esempio, i riconoscimenti sono tipicamente condotti con delle fotografie di sei o otto individui con caratteristiche simili, uno dei quali è il sospettato mentre gli altri sono persone innocenti. Se il testimone identifica il sospetto, allora le investigazioni proseguono; se il testimone invece non individua nessuno o individua un innocente, allora la polizia dovrà muoversi in un'altra direzione.
Questo procedimento è stato replicato in laboratorio. In questi studi, i soggetti di solito assistono ad un breve video di un crimine simulato e, successivamente, viene chiesto loro di identificare il colpevole da una delle foto proposte. Alcune volte il colpevole è presente nelle foto, altre volte no. Ai testimoni vengono date alcune informazioni e chiesto di scegliere il colpevole. I dettagli particolari dell'esperienza vissuta, le istruzioni, e i soggetti raffigurati in foto possono tutti influenzare la probabilità con cui i testimoni scelgono il colpevole o la probabilità invece che non facciano alcuna scelta in assoluto.
Alcuni fattori come una scarsa visione, assistere ad un'esperienza particolarmente stressante, poco tempo per vedere il colpevole, troppo tempo che intercorre tra il fatto criminoso e l'identificazione, il chiedere di identificare un colpevole di una razza diversa rispetto a quella del testimone, può portare al compimento di errori consistenti.