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Un italiano in Svizzera (“ Qui ci sono tanti italiani che si sono sistemati bene, hanno aperto un negozio, un ristorante…!”).

Nel documento ISLL Papers Vol. 8 / 2015 (pagine 128-133)

ALCUNI RILIEVI SOCIOLOGICO E FILOSOFICO GIURIDIC

1. Un italiano in Svizzera (“ Qui ci sono tanti italiani che si sono sistemati bene, hanno aperto un negozio, un ristorante…!”).

Il film di Franco Brusati sceglie di illustrare la problematica dell’immigrazione evitando i toni drammatici del realismo documentaristico. Diversamente, ad esempio, da quanto implicato nella scelta stilistica di un lavoro come “Già vola il fiore magro” di Paul Meyer (1960), volto ad affrontare le tematiche “estreme” del lavoro nelle miniere del Belgio e del lavoro minorile, il film di Brusati parla, con una lievità che nulla toglie alla crudezza della realtà rappresentata, della difficoltà di un progetto migratorio, che, arricchito di dettagli “spessi” e culturalmente caratterizzati, viene situato all’interno di un preciso contesto storico (l’inizio degli anni ’70) ed economico.

Giovanni Garofoli, infatti, marito e padre orgoglioso di un bimbo “scafato” chiamato Giacomino, anellone al mignolo, e risparmi cuciti nelle mutande (da cui una delle scene più grottesche del

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film), con la foto dell’intera famiglia (nonni compresi) in valigia, lascia tutto il suo mondo e la

famiglia, che ama2, per cercare fortuna in Svizzera, come molti altri connazionali (esclama,

infatti, Garofoli: “Semo troppi! 2 milioni di stranieri su 5 milioni di abitanti, troppi!”), adattandosi a svolgere svariati tipi di lavoro nell’inseguimento del suo sogno di fare fortuna. L’emigrazione italiana in Svizzera, difatti, si espresse in tre grandi ondate – una nella seconda metà dell’Ottocento, una nel primo dopoguerra, e una dopo la Seconda Guerra Mondiale (peraltro, particolarmente difficile, come si può comprendere considerando che il periodo a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 fu caratterizzato dal dibattito sulle iniziative “Schwarzenbach”

contro l’“inforestierimento3”) – portando gli italiani a costituire, già nel periodo nel quale il film

è ambientato, la principale e più numerosa comunità etnica migrante in svizzera.

Il lavoro degli italiani (denominati, spregiativamente, Ritals4, Piafs, Pioums, Maguttes) e degli

altri migranti era duro e penoso5, e accompagnato, in un avvitamento negativo verso il basso, da

una stigmatizzazione e un disprezzo sociale pienamente illustrato dai famosi (e infami) cartelli esposti fuori dai negozi “kein Entragung Hund und Italiener” (“Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”, nei quali i cani, ovviamente, venivano prima degli italiani).

D’altronde, soprattutto nell’ambito della ristorazione, effettivamente, a partire dagli anni ’70 molti italiani, passato un primo periodo di gran fatica, deprivazione e emarginazione, sono riusciti a mettere a frutto i loro primi risparmi, assieme al loro patrimonio culinario, aprendo attività loro e riscattandosi economicamente e socialmente, prestandosi quindi a fungere da modello per le aspirazioni di tanti altri connazionali, che in loro vedevano la conferma della possibilità di una ricompensa capace di giustificare le privazioni, le umiliazioni e i sacrifici, concepiti come necessari per ottenere una redenzione economica e sociale.

2 L’attaccamento alla sua famiglia è dimostrato “per fatti concludenti” nella scena in cui, con cura e amore, egli raccoglie la foto quando, ad un certo punto nel film, viene fatta a pezzi.

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Ma si veda anche il recente referendum approvato in Svizzera a febbraio 2014 e il suo impatto sui 65.000 frontalieri italiani che lavorano ogni giorno in Svizzera.

4 Anche oggi, in Francia, si utilizza per l’italiano immigrato il termine argotique “Rital”, in una gerarchia di valore razzista nella quale il “Rital” è appena superiore rispetto al “Beur” (l’arabo). Ma nel contesto xenofobo e razzista del film, anche il semplice aggettivo di nazionalità assume già di per sé una connotazione sprezzante: si veda la scena nella quale il collega del protagonista si volta, piccato, nel sentirsi chiamare “il turco”, termine che in quel contesto suona come un rimprovero o un’offesa.

5 Cfr. Raymond Durous, 2010, Des Ritals en terre romande, Vevey: Editions de l’Aire, contenente le testimonianze di 22 emigrati o figli di emigrati giunti in Svizzera. Cfr. anche Gian Antonio Stella, 2002, L'orda. Quando gli

albanesi eravamo noi, Milano: Rizzoli cap. 15; Robert Franz Foerster, 1969, The Italian Emigration of Our Times.

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Questa è esattamente la prospettiva che alimenta il progetto migratorio di Garofoli, il quale, in effetti, afferma: “Qui ci sono tanti italiani che si sono sistemati bene, hanno aperto un negozio,

un ristorante…!”.

Attualmente, dopo 3 anni di lavori precari, infatti, egli è cameriere in un ristorante di gran classe dove si contende con un "turco" (col quale condivide l'alloggio) il rinnovo del contratto che gli permetterebbe di avere il prolungamento del permesso di soggiorno.

E’ questa la situazione iniziale che permette a "Pane e cioccolata" di offrire allo spettatore una panoramica quanto mai ricca sul fenomeno migratorio vissuto da uomini e donne, fenomeno che è al contempo rappresentato sia sottolineando i tratti costanti che accomunano, pur nella varietà delle loro specificità, le tante “sfide migratorie” di oggi e di ieri, sia focalizzando, nello specifico, sulle caratteristiche precipue di un’immigrazione tipicamente “svizzera", con tutti gli stereotipi del caso, del quale il film abbonda.

La caratterizzazione del contesto “svizzero si coglie in tanti piccoli dettagli: dalle cartacce che mai nessuno si sogna di buttare per terra, alle valigie che non possono essere abbandonate sul marciapiedi della stazione nemmeno due secondi esatti senza essere rimosse; dalle parole di sprezzo razzista mormorate a mezza voce (se non anche, in birreria, a voce alta) anche in riferimento agli italiani, fino – a livello co-testuale e meta-testuale – alla musica idilliaca e composta che apre il film – la serenata per archi op. 3 n. 5 di Haydn – che pare accompagnata, nel sottofondo, dallo scandire ritmico del tempo di un orologio (svizzero!), e che torna a suonare, significativamente, anche in una delle scene più sottilmente ironiche del film, nella quale si vede un assassino consegnarsi spontaneamente, "civilmente", alla polizia per pagare il suo crimine: quasi a sottolineare il fatto che, a differenza degli italiani, in Svizzera persino gli assassini, pur essendo tali, sono comunque rispettosi dell'ordine!

Al di là, tuttavia, della riflessione – amaramente ironica – sulla specificità del contesto svizzero che fa da sfondo alla vicenda di Garofoli, il film – e questo è forse il suo pregio maggiore – offre il destro per una riflessione sul fenomeno migratorio capace anche di trascendere la specificità del caso rappresentato, in quanto volta a cogliere dinamiche generalizzabili ad una varietà di contesti. Prima fra queste, la caratterizzazione, sociologica, dell’immigrazione come “scelta di rottura”, e come “sfida”.

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2. L’immigrazione: scelta di rottura, sfida migratoria, anello di una catena ("un omo se è omo un lavoro lo trova anche in Italia")

L’emigrazione, infatti, a parte, forse, il modello dell’immigrante a scopo e tempo definito6, si

basa spesso su una scelta di rottura implicita nella stessa decisione, effettuata dal migrante, di lasciarsi alle spalle il proprio contesto familiare, sociale, economico e nazionale per proiettarsi verso un contesto sociale e culturale nuovo nel quale, diversamente che a casa, la socializzazione sarà tutt’altro che semplice e andrà conquistata, e l’inserimento sociale e lavorativo rappresenterà

una scommessa da affrontare per giorno7. La scelta di rottura, insomma, rappresenta l’ubris

originaria di chi, sottraendosi (anche, magari, in una prospettiva temporanea) al proprio ruolo familiare e sociale nel contesto di appartenenza, sceglie di partire per rifondare la propria vita (o un capitolo di essa) e la propria identità altrove, con una decisione che, agendo a livello identitario, retroagisce, così, sul valore attribuito alle proprie stesse origini, contemplando implicitamente un’apertura, anche culturale, al confronto con una società diversamente impostata, e una conseguente messa in discussione – elemento delicatissimo, sul quale il film torna più e più volte – della propria.

La vicenda di Giovanni Garofoli non fa eccezione a questa descrizione. Nel film, infatti, egli ha ancora nelle orecchie le parole di rimprovero dei parenti per la sua iniziativa ("un omo se è omo

un lavoro lo trova anche in Italia"); ciononostante, egli si sente ben disposto, e anzi, forse

proprio per questo, ancor più deciso a distaccarsi dagli stereotipi culturali che caratterizzano l’italiano (pur rivestendoli spesso inconsapevolmente) per apprezzare e abbracciare il senso di “civiltà” svizzero, anche quando questo si spinge fino a determinare, per un triviale comportamento fuori posto (viene colto a fare pipì contro un muretto), il suo licenziamento. Tale valorizzazione della cultura di approdo, infatti, intersecandosi con le vicende della propria motivazione a partire, serve a convalidare e ribadire la giustezza della sua scelta.

6 Cfr. Emilio Reyneri, 1979, La catena migratoria. Il mercato del lavoro nelle zone di esodo e di arrivo, Bologna: Il Mulino.

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La letteratura, in materia, è ampia. Basti richiamare in questo contesto, a titolo esemplificativo, Emilio Reyneri, 1999, L’immigrato come homo sociologicus, disponibile all’indirizzo

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=3&ved=0CCkQFjAC&url=http%3A%2F%2Fw ww.sociologiadip.unimib.it%2Fdipartimento%2Fricerca%2FpdfDownload.php%3FidPaper%3D45&ei=J4kJVbOkL MmwUc6_gvgE&usg=AFQjCNHxBthmQ3CNJVjCpmrukqQHoDajQA&sig2=1VilYb2MkwQY7jN2wiXPfg; Dela Ranci, 2011, Migrazioni e ricongiungimento familiare, in Dela Ranci (a cura di), Migrazioni e migranti. Esperienze

di cura a Terrenuove, Milano: Franco Angeli, pp. 234 ss.; Maurizio Ambrosini, 2008, Un’altra globalizzazione. La sfida delle migrazioni transnazionali, Bologna, Il Mulino, p. 115.

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E proprio questo elemento, caratterizzante la struttura motivazionale profonda che sovrintende all’approccio con cui il migrante si avvicina alla cultura del paese che lo ospita, porta l’immigrazione a configurarsi anche come una sfida migratoria. Ciò significa – ed è tratto, questo, caratteristico di tutte le sfide migratorie – che l’immigrato non vuole e non può permettersi di “perdere”, nei confronti di quel mondo che ha salutato per tornare “vincitore”, la

propria scommessa, anche a costo di tacere a casa le proprie fatiche e i propri insuccessi8 e di

adattarsi finanche a condizioni di vita ben poco umane.

In proposito, molto incisiva e dolorosa, se non fosse per i toni leggeri che sa sovrimporre Manfredi all’intero film, è la scena (iperrealistica al punto da sconfinare nel grottesco) del pollaio “clandestino” nel quale arriva – in paradossale applicazione di uno tra i più classici stereotipi nazionali – raccomandato (“Mi manda il piemontese!”), e dove, sotto il poster della Madonna miracolosa di Pompei, vivono e lavorano, nascosti e piegati in due (anche fisicamente: ma “a poco a poco uno ci si abitua!”), gli italiani non in regola: uomini e donne, anche giovani, reclusi in un mondo maleodorante e senza prospettive (tranne quella di risparmiare al massimo, rinunciando nel presente alla loro dignità, per portare in futuro dei soldi a casa, dimostrando così a tutti di aver avuto, alla fin fine, ragione), tra i quali colpisce un dodicenne, cresciuto con competenze comunicative ridotte al solo fare il verso del gallo: “E che ce ve a fa’ a scola?

Questo non capisce” dice il padre, e Manfredi risponde “E meno male, perché se capisce, questo è facile che se ammazza!”.

Quando, dopo averle provate tutte, sta per decidersi a tornare (“sono stanco; quando uno perde,

almeno se riposa”) Garofoli, quasi rassegnato, chiede sul treno “un piccolo posto per chi non trova posto”. Ma la sua storia non finirà lì, e questo proprio perché, per chi ha intrapreso tale

sfida, il tornare a casa da “respinto” equivarrebbe, ben oltre il problema del mancato guadagno economico, ad una sconfitta personale, ad uno smacco verso la famiglia e se stesso, e verso i tanti tentativi di assimilazione compiuti in quegli anni: da quelli valoriali – diretti ad auto- condizionarsi nella direzione di un apprezzamento convinto della cultura ospite, così “civile” rispetto a quella natia – fino a quelli fisici, volti allo sforzo di assomigliare agli svizzeri nel colore dei capelli, nelle mosse, e finanche nei peggiori difetti di arroganza razzista (anche – ma solo fino ad un certo punto – nei confronti degli stessi italiani).

8 Cfr. Laura Zanfrini, 2004, Sociologia delle migrazioni, Roma-Bari: Laterza; Emilio Reyneri, 1998, The Mass Legalization of Migrants in Italy: Permanent or Temporary Emergence from the Underground Economy? In South

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Proprio questo elemento della resistenza ad ammettere la sconfitta in questa sfida, accettando e tacendo nei confronti dei connazionali rimasti in Patria le umiliazioni, le fatiche e i pericoli affrontati (il film non tralascia, in proposito, di mostrare un personaggio come Gigi, infortunato sul lavoro perché caduto da un’impalcatura, ma privo di tutele), spiega, del resto, uno degli

elementi che stanno alla base della creazione delle cosiddette “catene migratorie9”. Queste,

infatti, si creano quando i racconti edulcorati e necessariamente “vincenti” che arrivano in patria da parte degli emigrati spingono altri connazionali a tentare la stessa strada, raggiungendo all’estero parenti ed amici allo scopo (spesso illusorio) di emularne lo spirito autoimprenditoriale per trovare, a propria volta, fortuna (anche se il film non tralascia di rappresentare, incarnandolo nella figura del ricchissimo imprenditore di successo interpretato da Dorelli, il costo umano di tale impresa: sarà il suicidio, infatti, a far emergere il costo dell’anomia sofferta dal ricco sradicato, posto davanti al disgregarsi dei suoi rapporti umani e familiari non solo con la moglie, ma anche con i figli).

“Catene”, quelle migratorie, che proteggono sì, in qualche modo, i connazionali fuori sede, stimolando in loro una solidarietà “meccanica” che si esalta, fuori patria, in ragione dell’evidenza che ivi accompagna il divario “noi-loro”, e del bisogno economico che unisce i “paisà” rafforzandoli e permettendo loro di sopravvivere pur nell’ostilità dell’ambiente; ma anche “catene” che psicologicamente fissano, mantenendoli al loro posto, i loro vari anelli e quelli che, trascinati, vi si aggiungeranno, rendendo loro molto difficile, come per Garofoli – pena il disonore – abbandonare l’impresa anche quando la sua realizzazione sembra ormai impossibile ed eccessivamente penosa.

Nel documento ISLL Papers Vol. 8 / 2015 (pagine 128-133)