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Jean Debrunner e la difesa della Repubblica Veneta nel 1848-

Il 17 Marzo 1848, alla notizia di fermenti popolari a Vienna, l’opposi- zione, che da tempo covava sotto la cenere, esplose improvvisamente a Venezia. Si temevano gravi disordini ed il governatore della città, Con- te Pallfy, concesse la formazione della Guardia Civica.1 Era una apertu-

ra di grande importanza ma, poco dopo, la notizia della insurrezione milanese provocò, anche nella città lagunare, una rivolta.2 Come ricor-

da Debrunner: “I numerosi operai dell’Arsenale si ammutinarono con- tro il loro comandante, il Colonnello Marinovich, né fu senza pena che Manin, nella sua qualità di Capitano della Guardia Civica, pervenne a sottrarlo al loro furore. Ma dopo d’essere sfuggito al pericolo, ebbe l’im- prudenza di ritornare al suo posto il 22 Marzo e di prendere severe mi- sure. Quei suoi irreconciliabili subordinati che, all’unanimità, avevano giurato la sua morte, si abbandonarono allora a vie di fatto sulla di lui persona, lo inseguirono e, dopo averlo raggiunto e strappato dal luogo ove erasi nascosto, lo trascinarono sulla piazza della corte, lo trucidaro- no in modo orribile lacerandone il corpo”.3

L’insurrezione aveva inizio ed “il grido di: Fuori lo straniero ! Morte ai Tedeschi ! Diventò da quel momento la parola d’ordine”.4 Manin prese

l’iniziativa ed occupò l’arsenale. “Tutti i vascelli, tutte le armi e le mu- nizioni caddero in potere del popolo. Manin, facendo sventolare il vec-

1 Cfr. P. PEVERELLI, Storia di Venezia dal 1798 sino ai nostri tempi in continuazione di

quella di P. Daru, Torino, Castellano e Garetti, 1852, vol. II, p. 149 ed inoltre G. DE-

BRUNNER, Venezia nel 1848-1849. Avventure della Compagnia Svizzera durante l’as-

sedio fatto dagli Austriaci, Torino, Presso tutti i librai, 1851, p. 6.

2 Cfr. F. TUROTTI, Storia d’Italia continuata da quella di Carlo Botta, dal 1814 al 1854, Milano, Pagnoni, s.d., vol. III, p. 129.

3 DEBRUNNER, Venezia, cit., p. 17. 4 Ibidem.

chio vessillo di San Marco, si portò sulla gran piazza ed alle grida di: Viva San Marco! Viva la Repubblica! Proclamò l’antica Repubblica di Vene- zia”.5 Il governatore civile austriaco, Conte Pallfy, cedette il potere ed

anche il governatore militare, Conte Zichy, fece altrettanto, temendo per la sua vita. I soldati imperiali lasciarono la città e le fortezze, consegnando tutte le dotazioni militari. Daniele Manin fu subito proclamato Presi- dente della Repubblica.

Occorreva reclutare uomini per la difesa della Repubblica Veneta appe- na sorta e Manin ritenne opportuno rivolgersi alla Svizzera. Sul finire dell’Aprile 1848, Antonio Canetti giunse infatti a Zurigo, su mandato del governo della Serenissima, “per concluder delle capitolazioni mili- tari”.6 Quasi contemporaneamente giunse a Berna un incaricato del

governo di Milano, con un compito analogo. In pratica Venezia aveva scelto per i suoi arruolamenti il Nord-Est della Svizzera e Milano il Sud- Est. Il momento era estremamente favorevole. Come ricorda Debrun- ner, si stava infatti manifestando “nella classe industriale svizzera una gran simpatia per la causa della indipendenza italiana”, che “trovava il suo punto di appoggio non solo nelle opinioni liberali della popolazione, ma anche dal lato dell’interesse commerciale”, poiché “i prodotti svizzeri trovarono sempre un grande sfogo nell’alta Italia e un grandioso sviluppo della nostra industria doveva necessariamente essere la conseguenza della distruzione del dominio austriaco in questo paese”.7 Inoltre “eran tutti

d’avviso che salvando l’Italia si innalzava un baluardo protettivo per la Svizzera”.8

Jean Debrunner, ben consapevole di questi aspetti, si presentò a Zuri- go, deciso ad arruolarsi ed Antonio Canetti gli confermò il grado di Capitano di fanteria, chiedendogli, però, di mettere a disposizione del- la Serenissima, in due settimane, una Compagnia di volontari. Di ritorno a Frauenfeld, la sua città, Debrunner riuscì a reclutare gli uomini richiesti e partì alla volta della Lombardia. Dopo un rocambolesco viaggio la

5 Ivi, p. 18.

6 Ivi, p. 23.

7 Ibidem.

Compagnia al completo giunse a Milano, dove i soldati svizzeri “si eser- citarono per la prima volta a gridare in italiano: Viva l’Italia! Viva Pio IX! Viva Carlo Alberto! Queste grida erano di moda in quel tempo ed oltre la coccarda tricolore, o un nastro a tre colori, ognuno portava ap- pesa al petto una piccola medaglia sulla quale stava impresso il ritratto del papa”.9

Si doveva raggiungere Venezia e l’itinerario proseguì. “I soldati si diver- tirono grandemente nell’osservare le contadine italiane a lavoro colle gambe nude fino al di sopra del ginocchio, in mezzo alle numerose ri- saie... alle quali l’ignoranza della lingua tedesca era... un vantaggio”.10

Attraverso il Po fu raggiunta Rovigo e, successivamente, Chioggia e Ve- nezia. Nella città lagunare Debrunner giunse l’11 Giugno 1848. L’offen- siva austriaca era in pieno svolgimento ma la laguna di Venezia, per le sue caratteristiche geografiche, appariva imprendibile. Solo una strada ferrata costruita su di un ponte di pietra lungo 3.603 metri e largo 9 congiungeva Venezia alla terraferma ma, all’uscita del ponte, s’innalza- va il forte Marghera e dall’altra parte erano presenti i forti di Brondolo e di Treporti, oltre ad un numero elevato di strutture difensive che im- pedivano l’accesso alla città.

Nel 1848 le forze armate della Serenissima comprendevano 18.000 fanti e 4.000 marinai. L’Arsenale, cuore dell’apparato militare, vedeva all’opera ogni giorno 2.000 lavoranti. Comandante supremo delle truppe di ter- ra era il Generale Guglielmo Pepe.11 Il 18 Giugno gli Austriaci occupa-

rono Mestre, avvicinandosi a Marghera. Occorreva reagire e proteggere il litorale di Malamocco, dove si trovavano il forte di San Niccolò e quello di Sant’Andrea. La Compagnia Svizzera fu assegnata al forte di Marghera dove, per mesi, combatté più contro le febbri che contro gli Austriaci. I salassi furono all’ordine del giorno.12 Trasferiti al forte di

9 Ivi, p. 39.

10 Ivi, pp. 39-40.

11 Cfr. F. CARRANO, Della difesa di Venezia negli anni 1848-1849, Genova, Moretti, 1850, p. 23.

Mazzorbo, a Burano, gli Svizzeri videro giungere alcuni compatrioti che avevano disertato dall’esercito pontificio. La situazione era critica. Ve- nezia si era unita al Piemonte di Carlo Alberto e la sconfitta di Custoza determinò il crollo delle più vive speranze.

La Serenissima si unì allora a Manin: “Viva Manin! Si! Si! Esclamò la folla, soddisfatta pienamente della dittatura di quest’uomo al quale il popolo di Venezia prestava una fiducia illimitata”, scrive Debrunner, “che bel momento nella vita di questo grand’uomo! Quale spettacolo interes- sante la vista di quella dieta popolare, sedente ad un’ora di notte avan- zata sulla Piazza San Marco, rischiarata dai raggi di magica luna ! Quanto era commovente il solenne silenzio che si fece allora che Manin, il pa- dre del popolo, prese la parola e uno scoppio di strepitosi applausi ac- colse il suo discorso”.13 Debrunner è un testimone prezioso e ci consen-

te di vivere direttamente l’atmosfera di quei momenti drammatici. Ma- nin fu chiaro: “Fra poco sarà battuta la generale acciò il popolo corra alle armi. Da ogni battaglione verrà scelto un certo numero d’uomini che, in questa stessa notte, si porranno in cammino per la fortezza di Mar- ghera, minacciata d’assalto dal nemico. Ci andremo tutti! Delle armi! Delle armi! Interruppe il popolo. Le armi le avrete, rispose Manin, tut- to serve di arma ad un popolo che vuol difendersi”.14

Successivamente egli pubblicò un veemente proclama: “Soldati italiani

La Guerra dell’Indipendenza, alla quale avete consacrato il vostro san- gue, è ora entrata in una fase per noi disastrosa. Forse unico rifugio alla libertà italiana sono queste lagune e Venezia debbe, ad ogni costo, cu- stodire il fuoco sacro.

Valorosi!

Nel nome d’Italia, per la quale avete combattuto e volete combattere, vi scongiuro a non scemare di lena nella difesa di questo santo asilo della nostra nazionalità. Il momento è solenne. Trattasi della vita politica di

13 Ivi, p. 109. 14 Ivi, pp. 109-110

un popolo intero, i cui destini pender possono da quest’ultimo propu- gnacolo.

Militi!

Quanti siete che da oltre Po, da oltre Mincio, da oltre Ticino qui siete venuti pel trionfo della causa comune, pensate che salvando Venezia salverete i più preziosi diritti delle vostre terre native. Le vostre famiglie benediranno ai tanti sacrifici che vi siete imposti. L’Europa ammirante premierà la generosa vostra perseveranza e, nel giorno che Italia potrà dirsi redenta, erigerà fra i tanti monumenti che qui stanno, del valore e della gloria dei nostri padri, un altro monumento, su cui starà scritto: I militi italiani difendendo Venezia hanno salvato l’indipendenza d’Italia. Manin”.15

Venezia era sola, anche la flotta sarda si stava ritirando ed il 15 Agosto 1848 fu costituito un governo dittatoriale di tre membri, dei quali, ob- bligatoriamente, uno doveva appartenere alla marina e uno alle truppe di terra. Gli eletti, a gran maggioranza, furono Manin Presidente, il Contrammiraglio Graziani, Ministro della Marina e il Colonnello Ca- vedalis, Ministro della Guerra. “Tutti e tre godenti la confidenza illimi- tata del popolo”.16 Sul finire di Agosto la Compagnia di Debrunner fu

trasferita a Chioggia, per un servizio in fortezza ancor più impegnativo. Nella cittadina gli Svizzeri incontrarono il battaglione universitario, composto da giovani valorosi ma del tutto indisciplinati. “I loro ufficiali, siccome nominati da essi stessi, non avevano nessuna autorità su di loro... mangiavano a proprio conto negli alberghi... Durante la metà della notte essi vagavano a torme, per le strade, facendo dei cattivi scherzi sui quali si chiudeva gli occhi, in considerazione dei deliziosi canti ch’essi esegui- vano tutte le sere, con una meraviglia che incantava. Nelle caserme pre- sentavano veramente il vivo quadro d’una famiglia disunita in cui gior- nalmente si alterca e dove le mani non stavano sempre alla cintola”.17

15 Ivi, p. 111. 16 Ivi, p. 112- 17 Ivi, p. 115.

Chioggia era ben difesa. Vi sorgeva il possente forte di Brondolo, con ottanta cannoni ed i forti minori della Madonna, di San Felice e di Sotto Marina. Debrunner con i suoi uomini fu assegnato al forte di Sotto Marina dove rimase fino alla metà di Novembre. Il freddo iniziava a farsi sentire e non erano mancate vere sofferenze per i soldati dato che “pri- ma della fine di Ottobre non poterono scambiare il lor leggero unifor- me di estate coi pantaloni e la tunica di lana. Il soldato che andava di sentinella ritornava quasi sempre ammalato... La sola cucina, quantun- que ristretta, offriva loro il comodo di riscaldarsi le membra intirizzite e per lo più il fuoco era sempre circondato da una mezza dozzina di soldati tremolanti di freddo. Gli Italiani, cosa da non credersi, soppor- tavano il freddo più facilmente che noi Svizzeri, abituati ad un clima montanoso. Non si vedevano stufe se non in qualche ricca casa di nobi- li; anche i camini sono colà rarissimi. In nessun luogo è coltivata con tanta perfezione l’arte di sopportare il freddo quanto nelle città delle lagune … uno dei mezzi che impiegavasi per riscaldarsi consisteva nel riempire i taschini dei pantaloni di castagne arrosto, frutto generalmente in voga nell’inverno. Perciò gli Svizzeri si servivano di questo prezioso scaldatoio colla più gran predilezione”.18

Debrunner offre spunti di riflessione davvero preziosi e permette di com- prendere in profondità le caratteristiche della vita quotidiana in quei drammatici momenti. Il gelo incombeva sempre di più tanto da procu- rare la morte. “Non si può farsi un’idea di quanto i miei soldati ebbero a soffrire a Sotto Marina, nei freddi giorni di Novembre, entro le loro baracche sbattute da tutti i venti e somiglianti a gabbie. Avevo costan- temente una metà dei miei all’ospitale e quantunque la mia compagnia non fosse mai stata tanto numerosa, rare volte potevo disporre di più di sessanta uomini. Molti trovarono la morte in queste fatiche”.19

Debrunner allestì funerali con rito evangelico e ciò suscitò stupore e meraviglia, soprattutto perché svolse le funzioni di pastore, oltre a quelle di Capitano. “Seppellimmo i due primi con gli onori militari e con ciò

18 Ivi, p. 118. 19 Ivi, pp. 118-119.

offrimmo agli abitanti lo strano spettacolo d’un convoglio funebre pro- testante. Pareva che non potessero farsene una ragione, vedendo quel- l’accompagnamento senza croce, né ceri, né insegne, né preti. Nullameno si scoprirono rispettosamente il capo al passare del corteggio. Molti cit- tadini accompagnarono il convoglio fino al cimitero, ove giunti, assun- si le funzioni di pastore e recitai un brevissimo discorso funebre. Quan- tunque i circostanti non intendessero una sillaba delle mie parole, sem- bravano nondimeno interessarsi e prender diletto alla nostra modesta cerimonia militare”.20

Il governo della Serenissima ebbe sempre la massima fiducia in Debrun- ner e gli affidò il compito di verificare le difese di Chioggia, di valutare lo stato delle truppe della Repubblica e di visitare caserme, ospedali e prigioni. Le sue relazioni offrono un quadro sconfortante, come lui stesso racconta, la disorganizzazione era completa. “Da per tutto ci voleva una vera eternità prima che le guardie si mettessero sotto le armi. Mai quei soldati si trovavano pronti: o erano assenti, o avevano riposte le armi. Quando passai all’ispezione delle armi una metà le trovai in una condi- zione veramente trascurata. Molte giberne contenevano delle munizio- ni deteriorate e in quasi tutte, poi, un mazzetto di fulminanti e una pipa e in alcune altre del salame invece di cartucce. Gli oggetti indispensabi- li per un fuoco continuato, come per esempio spille, cacciavite, cavapalle mancavano quasi generalmente. In una parola la più pessima milizia non poteva trovarsi in uno stato più compassionevole”.21

I soldati detenuti erano in uno stato di estremo degrado. “Trattati più come bestie che come uomini... veniva loro somministrato un nutrimen- to che l’uomo, il più affamato avrebbe durato fatica a trangugiare... In una parola una casa di reclusione in Svizzera è un paradiso a confronto delle prigioni militari venete di Chioggia, zeppe, in quel tempo, di de- tenuti”.22 Gli stessi ospedali erano in pessimo stato “mancando della pri-

ma condizione inerente ad uno stabilimento di questa natura, vale a dire

20 Ivi, p. 119. 21 Ivi, p. 120. 22 Ivi, pp. 120-121.

la pulitezza. Quando si veniva a respirare l’aria delle loro sale non ci si sorprendeva più se le guarigioni erano così rade e lente. Un sacco e un guanciale ripieni di vecchia paglia costituivano il povero letto del mala- to che, posto entro stanze troppo stivate, aspirava de’ miasmi mortiferi. Tormentato di giorno da migliaia di mosche e di notte dagli insetti, s’ag- giungeva sovente, per colmo di sciagura, che quando l’economo e il di- rettore se la intendevano fra di loro, non vi era, per tutto nutrimento, che del vecchio riso o delle paste per metà guaste e mai una zuppa, né un brodo di carne”.23

Il testo di Debrunner è dunque una fonte straordinaria per comprendere la situazione veneziana del momento e ciò che contiene getta luce su molti aspetti e non solo su quelli politico-militari. Nonostante tante carenze, per lo spirito combattivo e la partecipazione ideale di tanti gio- vani, il 27 Ottobre, presso Mestre, la Serenissima riportò una splendi- da vittoria sugli Austriaci, tanto da occupare la cittadina. Il Colonnello Ulloa fu il principale artefice del successo, che ebbe notevole peso mo- rale ma nessun valore strategico, dato che Mestre era indifendibile e fu presto sgombrata. La situazione era sempre più precaria, anche dal punto di vista economico e Manin autorizzò l’emissione di carta moneta a corso forzoso da 1, 2, 3, 5 Lire, per un totale di tre milioni. La nuova mone- ta, presto definita “patriottica”, era garantita da un prestito volontario di cittadini. Grazie a “questa importante misura finanziaria”, nota De- brunner, “anche il prezzo dei viveri non ebbe a risentirne la più piccola variazione”.24

Il 20 Novembre 1848 la Compagnia Svizzera fu trasferita da Chioggia a Venezia, ma ben venti soldati erano gravemente ammalati e non “po- terono lasciare il letto”.25 Nella città lagunare i soldati furono alloggiati

nella caserma Corpus Domini, vicino alla stazione ferroviaria, dove, fi- nalmente, ebbero una grande stufa in ferro. Nonostante questa provvi- denziale dotazione “i casi di malattia aumentarono con incredibile pro- porzione. Non era più la febbre soltanto che assaliva i soldati. I raffred-

23 Ivi, p. 121. 24 Ivi, p. 127. 25 Ivi, p. 129.

dori e le raucedini facevano strage di loro e molti pativano d’idropisia ed avevano i piedi gonfi”.26 Presto a Debrunner si presentò una situa-

zione desolante: dei novantasei soldati “di cui componevasi la mia Com- pagnia, settantuno erano all’ospitale, dieci o dodici nelle caserme in convalescenza e affatto inabili al servizio. La morte me ne aveva rapiti già tanti che al nuovo anno mi vidi nella dolorosa necessità di spedire quindici atti mortuari in Svizzera”.27

Gli ospedali veneziani lasciavano costantemente a desiderare e Debrun- ner non mancava di ribadirlo: “Peccano tutti del difetto di nettezza, vi sono troppi malati nella stessa camera, i letti son troppo miseri e il più delle volte non purgati dagli insetti. I miei soldati ebbero a soffrir mol- to dell’incuria dei medici, della negligenza degli infermieri e delle sover- chie assiduità dei cappuccini. Pochissimi riuscivano a farsi capire dai medici in italiano, o in francese e un medico tedesco era un fenomeno assai raro... sembrava strano a’ miei Svizzeri che loro si desse delle gran- di ampolle di bevande che dovevansi ingoiare d’un fiato. Questo siste- ma rammentava loro, purtroppo, i rimedi che l’arte veterinaria ammi- nistra ai cavalli nei loro paesi”.28 La rapacità del personale che doveva

curare l’assistenza era poi terribile: “Veniva a morire un soldato, gli in- fermieri si avventavano su di lui come tanti lupi affamati, facevano far- dello dei suoi effetti, s’impossessavano del poco denaro che poteva aver nascosto sotto il capezzale... Il soldato morto veniva seppellito affatto nudo, quando non v’era persona che avesse cura di fargli avere una bara e, nel trasporto dall’ospitale al cimitero, veniva riposto in una delle tante casse nere, comuni, che sono a quest’uopo disposte”.29

Essendo protestanti, gli Svizzeri erano poi tormentati in modo partico- lare e Debrunner non manca di sottolineare questo importante aspet- to: “A tutti questi patimenti, cui dovevano soggiacere i poveri soldati, si aggiunse per di più l’importuno proselitismo che i membri dell’ordine dei Cappuccini esercitavano, con grande attività, negli ospedali. Per poter

26 Ivi, p. 130. 27 Ivi, p. 131. 28 Ivi, p. 132. 29 Ivi, p. 133.

vantarsi di aver strappato un’anima al demonio, codesti propagandisti non si facevano scrupolo di tormentare l’ammalato sul suo letto di do- lore ed anche negli ultimi suoi momenti lo assediavano con una tenaci- tà indicibile. Nulladimeno trovarono ne’ miei Svizzeri un terreno steri- le, per la riuscita dei loro sforzi a salvar le anime. Uno solo riuscirono a convertirlo e anche questo mentre trovavasi in uno stato d’incapacità intellettuale. In contraccambio furono talvolta duramente respinti ed anche messi alla ragione da un cattolico, che finì coll’abbracciare il pro- testantesimo e volle essere battezzato una seconda volta, per accondiscen- dere a’ suoi camerati professanti questa confessione. Quando io portai delle lagnanze contro questo abuso e furono dati agli infermieri gli or- dini in proposito, si lasciarono tranquilli i miei soldati, ma l’influenza del pretismo ebbe per risultato che i protestanti che si trovavano a San- ta Chiara furono collocati tutti in una camera particolare che, più tar- di, venne per ironia chiamata la sala degli eretici”.30

Il Console svizzero Woelflin si adoperò con efficacia per migliorare le condizioni dei suoi compatrioti, “raccomandando caldamente la nostra Compagnia al cittadino Manin nelle frequenti conferenze che seco lui aveva”,31 benché le autorità Cantonali non avessero avallato ufficialmente

l’intervento militare. Debrunner e i suoi uomini, ormai ridotti a cin- quantacinque, furono successivamente trasferiti a Murano, celebre cen- tro vetrario. Il freddo e l’umidità divennero, ancora una volta, fastidio- si compagni quotidiani. In mancanza di un locale coperto fu assegnato ai soldati, “per ricovero, un vecchio bastimento all’ancora, entro il qua- le non si poteva accendere altro fuoco che di carbone. Le emanazioni

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