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di Julienne Travers Motzo

Bronislaw Malinowski prima della sua morte scriveva : « La scienza della cultura è tuttora priva di reali criteri di identificazione, il criterio, cioè, di ciò che è necessario osservare e della maniera in cui va osservato, di ciò che è necessaria comparare e del modo in cui ciò va realizzato, di quello che va rintracciato nella evoluzione e nella diffusione di una cultura » (1). Una delle soluzioni a questo dilemma che un orientamento teorico della antropologia offre è stata quella della teoria del « modello » o, più preci­ samente, di ciò che Alfred L. Kroeber ha definito « modelli di cultura totale ». La terminologia riguardante questo concetto differisce largamente tra gli antropologi, ma probabilmente molti di essi concorderebbero con Kroeber quando egli dice: « La formulazione dei modelli di cultura totale ... è senza dubbio uno dei problemi più urgenti che l’antropologia e le ricerche ad essa connesse debbano affrontare » (2).

Si può dire che la teoria dei modelli di cultura ha le sue origini nel terzo decennio di questo secolo, quando l’accumularsi di elementi e tratti culturali che erano stati via via raccolti nel mondo primitivo, impose alla ricerca antropologica di sistemarli e dar loro un significato. Franz Boas fece il primo passo in tal senso riducendo i limiti del problema : ciascuna società doveva essere studiata unitariamente, senza riferimenti ad altre culture, se non indirettamente laddove i processi di acculturazione potevano essere

Il tema trattato nel presente scritto — che rappresenta il contributo fornito dall’A. al Seminario di antropologia culturale promosso dal Centro italiano di antropologia culturale e tenuto sotto la direzione del prof. Tullio Tentori presso la Facoltà di filosofia dell’Università di Roma nell’anno accademico 1963-64 — è stato anche esposto, con alcune varianti, nella « Rassegna italiana di sociolo­ gia », a. VI, n. 1, gennaio-marzo 1965, pagg. 90-102, sotto il titolo Applicazione di schemi concettuali nello studio della cultura.

(1) Bronislaw Malinowski, A Scientific Theory of Culture and Other Essa.ys, The University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1944, pag. 70. Tiad. ita­ liana di G. Faina, Teoria scientifica della cultura ed altri saggi, Feltrinelli, Milano, 1962.(2) A

lfred L. Kroeber, Anthropology : Race, Language, Culture, Psychology, Prehistory, Ediz. riv., New York, 1948, pag. 317.

constatati (3). Malinowski aggiunse la sua formulazione di una configu­ razione di cultura che egli definì funzionale. Nel 1922, in seguito al suo studio sugli abitanti della cultura Trobriand, egli scriveva : « Mi sembra in verità che ci sia posto per una nuova teoria... per una analisi appro­ fondita e una comparazione delle maniere in cui due aspetti di una cultura siano interdipendenti in maniera funzionale. L’influenza reciproca dei vari aspetti di una istituzione, lo studio del meccanismo sociale e psicologico su cui l’istituzione si fonda, costituiscono un tipo di studi teorici che finora è stato praticato soltanto come tentativo, ma che, oso pronosticare, prima o poi darà prova della sua validità » (4). Malinowski illustra la sua tesi alla luce di una istituzione particolare: lo scambio commerciale kuUt tra gli abitanti delle isole Trobriand, e attraverso tale analisi egli tenta di dimostrare che tutti i vari elementi di questa istituzione sono interdipendenti e in rapporto tra loro.

E’ chiaro a questo punto che è stato introdotto un certo sistema in un complesso di ricerche in cui la descrizione culturale stava per ridursi ad un racconto senza ordine di tratti esotici : la cultura è diventata « un fenomeno integrale, i cui vari elementi sono interdipendenti » (5). Ma nello stesso momento in cui l’antropologia ha raggiunto questa sistema­ zione di distinte unità culturali, si è trovata dinanzi ad una nuova osser­ vazione : un sistema integrato differisce profondamente da un altro per la sua configurazione. Fu, per esempio, osservato che in due diverse società talvolta i medesimi elementi culturali messi assieme producono differenti forme, tal’altra elementi culturali diversi in continuazione producono forme simili. In una società la istituzione dei riti di iniziazione prevede la tortura e la violenza, mentre in un’altra società ciò non avviene; ancora, la danza del serpente può essere usata in due società come elemento di istituzioni del tutto differenti (6).

Edward Sapir individuò il problema della spiegazione di differenti con­ figurazioni culturali e formulò la teoria del «genio nazionale». In lui tale espressione è sinonimo di cultura ed indica « quelle attitudini generali,

(3) Franz Boas, The Method of Ethnology, in « Race, Language and Culture », New York, 1940, pagg. 274-286 (pubblicato per la prima volta in « American Anthropologist », voi. 22, 1920).

(4) Bronislaw Malinowski, The Argonauts of the Western Pacific, Londra, 1922, pagg. 515-516.

(5) Bronislaw Malinowski, A Scientific Theory of Culture, op. cit.,pag. 150.

(6) Ruth Benedict, Patterns of Culture, Houghton Mifflin, Boston - New York, 1934, pag. 94 e pag. 104. Trad, italiana di E. Spagnol, Modelli di cultura, Feltrinelli, Milano, 1960.

visioni della vita e specifiche manifestazioni di civiltà che danno ad una particolare popolazione il suo specifico posto nel mondo » ; o anche, più recisamente, « le nazionalità, usando il termine senza implicazioni politiche, recano1 nel pensiero e nell’azione l’impronta di una forma precisa » (7)- Sapir analizza brevemente, alla luce della sua tesi del « genio » o « spirito », la cultura francese, che egli definisce come una mescolanza di « chiarezza, lucida sistematicità, equilibrio e buon gusto », elementi che spiegano la forma in cui si sono sviluppati il teatro, la musica, la cultura, la religione e l’amministrazione della Francia. Lo stesso Malinowski, nei primi tempi delle sue ricerche, aveva riflettuto su ciò che egli definisce lo « spirito » di una cultura. Egli scriveva : « Studiare le istituzioni, le usanze, le regole, o il comportamento e la mentalità senza il desiderio soggettivo di sentire di che cosa questa gente vive..., significa rinunciare alla più grossa ricom­ pensa che possiamo sperare di ottenere dallo studio dell’uomo » (8).

Da questi approcci iniziali derivò il concetto di una cultura i cui elementi sono interrelativi, ma tale relazione non è soltanto casuale; esistono forze di base che integrano una cultura e ne fanno un’unità originale e signifi­ cativa, ed è a tutto ciò che Ruth Benedict dette il nome di « modello di cultura». Il suo principale contributo fu quello di aver definito e chiarifi­ cato quali fossero le forze base di integrazione culturale e l’aver asserito che soltanto attraverso un’analisi di queste forze basilari si può riuscire a comprendere le istituzioni culturali nel loro reciproco integrarsi. Ella definisce tali forze come « la principale molla emozionale ed intellettuale » di una società e, più esplicitamente, come i « propositi caratteristici », gli « obiettivi peculiari », o le « motivazioni » che stanno alla base di tutte le manifestazioni culturali. La Benedict spinse ancora un gradino più avanti la teoria del modello, ma questo è forse quanto in seguito doveva diventare la parte meno accettabile del suo lavoro: ella riassume ciò che ritiene siano le motivazioni o le mete di ciascuna cultura in un unico termine e considera tale termine come caratterizzante 1 intera cultura. Nel caso di due società indiane da lei studiate, ciascuna ebbe la sua propria etichetta — apollinica e dionisiaca — le cui « scelte tipiche » avrebbero determinato le forme culturali di ciascuna delle due società.

Una rapida trasformazione dell’uso iniziale del concetto di « modello culturale » ha condotto al suo impiego attuale che costituisce soltanto una

(7) Edward Sapir, Selected Writings of E. Sapir, a cura di D. G. Mandel­ baum, Berkeley, 1951, pagg. 311-312 (pubblicato per la prima volta in « American Journal of Sociology », 1924).(8) B

ronislaw Malinowski, The Argonauts of the Western Pacific, op. cit., pag. 25.

pallida analogia del significato originale. Invece il contenuto fondamentale del concetto della Benedict è stato conservato nella nuova terminologia, che varia enormemente da un antropologo all’altro. Nell’interesse della sintesi si può, comunque, indicare in che misura la teoria originale si riflette nell’uso attuale. Fondamentalmente c’è una visione non-atomistica della cultura ; per citare Kroeber, « gli elementi specifici devono raggrup­ parsi in una maniera particolare, devono unificarsi o disporsi secondo certi orientamenti, se devono acquistare un significato più ampio » (9). In breve, le fondamentali differenze nell’uso del termine possono essere sta­ bilite innanzitutto in ciò che costituisce il contenuto o la natura delle forze di base della integrazione e, secondariamente, nel fatto che un modello caratterizzi tutta una cultura o soltanto aspetti di essa.

Il termine « modello » viene generalmente usato per indicare limitate configurazioni di una cultura, essendo implicito che ogni cultura ha più di un modello. Melville J. Herskovits definisce i modelli di cultura come il «concorso di differenti modelli di comportamento individuale » (10). Due esempi di modello, secondo questa interpretazione, sono ciò che Herskovits descrive come il « modello di matrimonio » e il modello « per cui gli uomini mostrano rispetto per le donne, poiché un elemento di tale modello è la convenzione in base alla quale un uomo si toglie il cappello in segno di rispetto » (11). Nello stesso significato John J. Honigmann parla del « mo­ dello di prostituzione » e del « modello ricreativo » (12). Kroeber definisce i «modelli del sistema o di base» (13) come «blocchi o frammenti di una cultura che condividono un contenuto, di origine comune, che si assesta in un comune modello, sufficientemente persistente da essere riconosciuto per molto tempo» (14). Esempi di tale modello tipo sono l’agricoltura ad aratro, il monoteismo, l’alfabeto o l’anello kula dello scambio economico di cui Malinowski parla. Per Kroeber ancora un altro tipo di modello limitato era il «modello di stile», o ciò di cui «si può dire che sia un modo di raggiungere la determinatezza e l’efficacia nelle relazioni umane scegliendo o sviluppando una linea di condotta tra molte possibili altre... » (15). In

(9) (10) Alfred L. Kroeber, op. cit., pag. 317.

Melville J. Herskovits, Man and His Works. The Science of Cultural Anthropology, Knopf, New York, 1948, pag. 574.

(11) (12) Ibidem, pag. 503.

John J. Honigmann, Culture and Ethos of Kaska Society, Yale Univer­ sity, New Haven, 1949, pagg. 164-165.(13)

Alfred L. Kroeber, The Nature of Culture, University of Chicago Press, Chicago, 1952, pagg. 85-94.

(14) Alfred L. Kroeber, Anthropology, op. cit. pag. 321. (15) Ibidem, pag. 329.

tal senso uno stile di abbigliamento è un modello, ed altrettanto gli affari quando sono caratterizzati da aspetti particolari, come gli affari bancari o di credito.

Clyde Kluckhohn, in uno studio che fornisce un metodo teorico molto dettagliato per la identificazione di modelli nella cultura, chiama « modelli di cultura esplicita » quelle manifestazioni di pensiero e di modo di sentire che possono essere distinte in modelli di comportamento e modelli norma­ tivi. Questi modelli derivano da « ciò che la gente in effetti fa » e da « come persone di status specifico dovrebbero comportarsi in determinate situazioni » (16).

Per quanto qualitativamente del tutto differente, tuttavia un uso piuttosto limitato di modello nel senso precedentemente precisato è quello che ne fa Kurt H. Wolff, il quale dice che un modello è « un elemento di relazione di una cultura..., un elemento che lo studioso di quella cultura introduce, nel tentativo di aumentare le sue possibilità di comprensione di quella cultura », e una « intrinseca interpretazione » di un modello è il « significato... che il singolo o il gruppo dà aH’uniformità emozionale, di atteggiamento, di pen­ siero o di conoscenza» (17).

E’ chiaro che la maggior parte dei modelli-tipo sopra citati sono caratte­ rizzati in termini di attività culturale, comportamento, istituzioni, o ciò che

Herskovits chiama «manifestazioni obbiettive di una cultura». Invece la definizione di modello da parte di Wolff sopra citata introduce una configu­ razione in termini psicologici. Ora, se noi ci rivolgiamo allo sviluppo del concetto di modello-dominante della Benedict, un modello, cioè, che comprende una intera cultura, risulta evidente che buona parte della teoria antropologica ha seguito le orme della Benedict, rappresentando le forze base di integra­ zione di una intera cultura in termini psicologici. Probabilmente Kroeber illustra questo punto di vista generale quando dice : « Appare probabile che ogni cultura sia caratterizzabile psicologicamente, e se soltanto poche di esse possono essere catalogate adeguatamente, ciò avviene perché disponiamo di una limitata scelta di etichette» (18). Kroeber e Kluckhohn sviluppano entrambi la teoria della Benedict al di là della sua concezione di singola etichetta, parlando di caratterizzazioni in termini plurali o «pluralità di configurazioni culturali». Gli antropologi che si servono di questi approcci

(16) Clyde Kluckhohn, The Study of Culture, in « The Policy Sciences », a cura di D. Lerner e H. L. Lasswell, Stanford, 1951, pagg. 9 - .

(17) Kurt H. Wolff, A Methodological Note on the Empirical Establishment of Culture Patterns, in «American Sociological Review», vol. 10, 1945, pagi­

ne 176-184. (18) A .

sentono che tale concezione è proprio alla base della comprensione della cultura.

Herskovits usa il termine « sanzioni » per indicare gli impeti di base, le motivazioni, il sistema inconscio di significazione che determinano le reazioni di un popolo..., che danno ad una cultura le sue integrazioni (19). In una ulteriore classificazione egli dice che « ... l’integrazione di forme culturali deve essere considerata come la manifestazione di alcuni più profondi impeti psicologici che danno senso definitivo agli elementi formali delle strutture culturali, consentendo così ad una maniera di vita di rag­ giungere la sua unità finale » (20). Alcuni antropologi impiegano il ter­ mine « ethos » in questo contesto, e tra questi, ad esempio, Honigmann. Un’ulteriore sfumatura del concetto è ciò che Honigmann chiama WeAtan- schauung, che è la sintesi delle motivazioni dominanti in ciò che è quasi una caratterizzazione tipo « etichetta-singola » della società indiana Kaska (21).

Un altro antropologo che usò « ethos » e Weltanschauung come termini intercambiabili fu Robert Redfield. Derivandone alcuni aspetti da Kroeber, egli descrive 1’« ethos » come il complesso determinante di ideali e valori che reggono una cultura ed indirizzano i tipi di carattere e il modo di comportarsi dei suoi appartenenti. Redfield sostiene che 1’« ethos » confina e si confonde con la Weltanschauung, e attraverso il suo studio su una comunità fa dei due concetti un termine composito. Tra i due concetti c’è comunque una differenza qualitativa, poiché 1’« ethos » è una qualificazione meno comprensiva, laddove la Weltanschauung ha riferimento letteral­ mente con qualsiasi cosa l’indigeno veda nella sua cultura, con la sua accentuazione e le sue categorie. La fondamentale differenza tra i due con­ cetti sembra essere una differenza metodologica, in base alla quale lo studioso di una cultura è impegnato in precedenza da ciò che intende fare oggetto di studio riguardo all’« ethos » ; comunque, laddove è presa in esame la Weltanschauung, l’esegeta dovrebbe cercare di sostituirsi all’indigeno, tenendo da parte le sue proprie schematizzazioni, allo scopo di cercare di ottenere una « visione dall’interno ».

« Cultura implicita » e « cultura esplicita » di Kluckhohn messe assieme costituiscono una struttura di cultura che « non è soltanto una casuale collezione di tutti i differenti modelli materialmente possibili e funzio­ nalmente efficaci di credenza e azione, ma un sistema interdipendente che ha forme separate e combinate nella maniera che si intuisce come la più

(19) Melville J. Herskovits, op. cit., pag. 222.

(20) Melville J. Herskovits, op. cit., pag. 216.

appropriata» (22). Allo scopo di esemplificare il significato di «cultura implicita», Kluckhohn la paragona ad una costruzione in cui «i modelli costituiscono l’armatura, la travatura di una cultura. Le forme della cul­ tura implicita sono in un certo qual modo analoghe alla concezione, nella mente dell’architetto, degli effetti complessivi e preminenti che egli desi­ dera raggiungere. E’ un tutto unico che deve essere abbracciato nella sua totalità » (23). Secondo Kluckhohn la chiave per comprendere tale totalità è il riconoscimento degli « entimemi culturali », « princìpi tematici » che spiegano la «cultura esplicita», che è ciò che chiarisce il motivo per il quale i modelli normativi e di comportamento sono quelli che sono. Kluck­ hohn fa un tentativo di avvicinamento alla concezione di configurazione della Benedict, affermando che « gli entimemi culturali » possono « essere in relazione con un principio sintetizzatore... ». A questo più ampio tipo di principio integrativo nella cultura è stato spesso dato il nome di « ethos » (24).

Kroeber sembra riferirsi alla stessa cosa nella sua definizione di « ethos » e in quella di « modelli di cultura totale ». Questi ultimi egli definisce come « la qualità globale, l’assestamento, l’organizzazione della intera cultura- la direzione verso la quale la cultura stessa è incline ». Con la formulazione del « modello di cultura totale », « diviene a poco a poco evidente dinanzi a quale direzione la cultura si trovi, quali siano le finalità alle quali mira, quali le qualità che la interessano e quali valuti maggiormente. In breve, i suoi valori e attitudini caratteristici, o i suoi orientamenti, divengono comprensibili » (25). Kroeber, comunque, qualifica il concetto di caratte­ rizzazione di cultura totale in termini psicologici, affermando che è sol­ tanto un particolare tipo di modello di cultura totale.

Benché Kroeber non si riferisca a lui, Herskovits ha, in effetti, svilup­ pato un modello di cultura totale in termini di rappresentazione non psico­ logica, che egli chiama « focus ». Esiste una proclività ad elaborare alcuni aspetti di una cultura a preferenza di altri, che si rispecchia nelle sue istituzioni. Queste divengono pertanto così rilevanti da caratterizzare una intera cultura. Herskovits dà alcune illustrazioni di questo tipo di modello: l’allevamento di bufali tra i Todas nell’India, di cui egli dice che è l’istitu­ zione che orienta la cultura e dà significato alla vita ; l’antico Egitto, dove predominavano interessi politico-religiosi; il Rinascimento, in cui l’accento era nell’apprendimento e nelle arti; le culture dell’Africa Occidentale, il

(22) Clyde Kluckhohn, op. cit., pag. 100. (23) Ibidem, pag. 97.

(24) Ibidem, pag. 100.

cui aspetto « focale » è nella religione ; e, nel ventesimo secolo, la cultura euroamericana, che ruota intorno agli aspetti tecnologici ed economici della vita.

Sebbene Malinowski non avesse presente questo stesso concetto di « focus », si potrebbe dire che il suo costrutto della istituzione kula tra gli abitanti delle isole Trobriand è « focale » nel senso che Herskovits dà al termine. I riferimenti di Kroeber a ideologie o sistemi di credenze come configurazioni potrebbero anch’essi rientrare in questo contesto nel caso ipotetico di una ideologia ritenuta dominante di una cultura, come nel caso di Herskovits, il quale riteneva che la cultura dell’Africa Occidentale fosse accentrata sulla religione. In netto contrasto con questo tipo di modello di cultura totale fu la posizione della Benedict, che vide una istitu­ zione dell’importanza del potlatching tra gli indiani Kwakiutl non come un fine o come un « focus » culturale, ma come un mezzo per comprendere « gli obbiettivi e i propositi » della cultura. L’argomento qui trattato, benché non preso in considerazione da Herskovits, è il vecchio problema del «chi viene prima, l’uovo o la gallina?»: bisogna cioè ipotizzare che la caratterizzazione psicologica in una cultura trae origine dalle sue istitu­ zioni culturali dominanti, o viceversa?

Se scarso è l’accordo nella terminologia da usare quando sono in discus­ sione i modelli in una cultura, non molto maggiore sarà l’accordo sulla metodologia da seguire per scoprire ed analizzare tali modelli ; senza dubbio, come risultato di questa mancanza di una linea metodologica definita, esiste una limitata applicazione nel campo della teoria del modello. Per quanto riguarda una metodologia puramente scientifica, la maggior parte degli antropologi citati non possono accettare un tale approccio e ne oppongono uno basato più largamente su una penetrazione intuitiva. Redfield stabilisce la posizione generale molto accuratamente, quando dice di essere impegnato nell’analisi e di non poter essere soddisfatto dall’accettazione di una cul­ tura intuita ma non analizzata, aggiungendo che tale analisi si trova al confine tra arte e scienza. « Nel lungo periodo che dovrà trascorrere fino ad una eventuale chiarificazione di un metodo adatto a tutti gli scopi, noi che cerchiamo di descrivere un insieme umano, quale una piccola comunità, non dobbiamo preoccuparci troppo della relazione tra ciò che fac­ ciamo e la pseudo divinità attuale, la scienza naturale, o delle sue manife­ stazioni nel mondo del sociale, la scienza del comportamento. La compren­ sione e, sua apoteosi, la saggezza, sono le vere divinità nel tempio; non

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